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MUTAMENTI
CLIMATICI E PROFUGHI AMBIENTALI
di Eraldo Colosio
Introduzione
La migrazione è un fenomeno che esiste da sempre. L’uomo si è spostato
per motivi economici, religiosi, politici e a seguito di calamità
naturali o di situazioni climatiche avverse.
Tuttavia l’accelerazione dei processi di degradazione o mutamento
dell’ambiente, sia in termini di frequenza che di intensità dei
fenomeni, sta assumendo un ruolo crescente tra le cause di migrazione
forzata, destando preoccupazione per gli impatti umanitari, sociali,
politici, economici e ambientali.
Cause cambiamento climatico
Sono stati identificati almeno cinque processi prodotti dal cambiamento
climatico che possono avere effetti sulla mobilità delle persone. I
processi, qui di seguito riassunti, sono i seguenti. Il primo riguarda
l’aumento delle temperature dell’aria e della superficie dei mari, in
particolare nei tropici. Il secondo è il cambiamento delle
precipitazioni, la loro maggiore o minore frequenza, la loro intensità
ed erraticità, con conseguenze in termini di inondazioni e siccità, così
come su eventi di più lungo termine come la desertificazione. Terzo,
l’innalzamento del livello dei mari causato dalla fusione dei ghiacci a
causa del riscaldamento climatico. Quarto, le trasformazioni di sistemi
climatici regionali evidenti come nel caso del Niño e dei monsoni
asiatici, con un aumento di eventi meteorologici estremi. A tutto ciò si
collega un quinto processo: l’intensificazione della competizione tra
popolazioni, Stati e imprese, per il controllo e l’utilizzo delle
risorse naturali che a sua volta potrebbe causare conflitti e quindi
migrazioni forzate. Vi sono alcune aree che più di altre subiranno
questi processi.
Numeri e stime trasferimenti
Da alcuni decenni i cambiamenti climatici spingono sempre più abitanti
del nostro pianeta a lasciare la propria terra per trasferirsi in altri
luoghi alla ricerca di condizioni di vita migliori e più salubri.
Dal 2008 al 2017 in media 25,2 milioni di persone ogni anno hanno dovuto
abbandonare la loro casa a causa di disastri ambientali.
Nel 2012, ad esempio, moltissimi i disastri hanno colpito il nostro
pianeta: secondo i dati del CRED (Center for Research on the
Epidemiology of Disasters) si sono verificate 310 calamità naturali che
hanno portato 9.330 decessi, 106 milioni di persone colpite e un danno
economico stimato pari a 138 miliardi di dollari.
Secondo la Banca Mondiale saranno 250 milioni le persone che si
muoveranno all’interno del proprio Paese di origine o oltrepasseranno i
confini a causa dei cambiamenti climatici entro il 2050.
Spostamenti interni e transfrontalieri
Diverse ricerche hanno rivelato come l’80% delle persone spinte a
migrare per motivi ambientali non fuggono all’estero ma si spostano – in
maniera temporanea o permanente – all’interno dei confini del proprio
Paese.
Questo perché non tutti hanno le risorse necessarie e l’intenzione di
spostarsi. Le famiglie più povere vengono in realtà “intrappolate” nelle
aree colpite dagli eventi climatici improvvisi e distruttivi, ad esempio
terremoti, alluvioni, tsunami, o da condizioni di vita rese
insostenibili da stress ambientali a manifestazione lenta come siccità e
desertificazioni.
Non hanno la possibilità di spostarsi in territori più sicuri ed
accoglienti, a meno che non intervenga l’assistenza dello Stato o di
entità caritatevoli. Alcune poi non hanno l’intenzione di spostarsi
perché temono di perdere quel poco che hanno, che l’abbandono della loro
casa, ancorché insicura e in condizioni disagiate, e dei loro poveri
averi, possa condurli in una situazione di maggiore miseria. Sono le
persone e le famiglie con relativamente più risorse che possono gestire
la loro mobilità in modo dar far fronte a situazioni critiche.
Le famiglie investono, e si indebitano, per fare migrare alcuni figli in
modo da accedere ad altre risorse esistenti in luoghi diversi. Anche in
questo caso non sono i più poveri a poter prendere queste decisioni, ma
quelle famiglie che hanno quel tanto di disponibilità economica, di
capacità di prendere a prestito, e di poter contare su reti di aiuto,
che consente loro di affrontare i costi della migrazione.
Molti profughi ambientali, a causa della mancanza di risorse, non
riescono a superare i confini del proprio Paese e in molti casi il loro
viaggio si ferma nelle periferie delle grandi megalopoli, quelle che
oggi sono conosciute come slum, favelas, baraccopoli, compound,
discariche. Luoghi che sono espressione manifesta di degrado urbano e
ingiustizia sociale, dove si trovano abitazioni fatiscenti, senza acqua
potabile, senza reti fognarie e servizi sanitari e dove si vive in
condizioni di sovraffollamento. I processi di urbanizzazione selvaggia
hanno raggiunto nei Paesi in via di sviluppo una dimensione drammatica,
è il caso di megalopoli come quelle di Manila, Dhaka, Nairobi.
Se consideriamo che la maggior parte di questi spostamenti sono interni
agli Stati, dei meccanismi di solidarietà in termini di assistenza
umanitaria sono la strada più promettente. Questo si iscrive in tutto il
dibattito sulla responsabilità dei paesi ricchi e sulle forme di
compenso da valutare. Un fondo mondiale di assistenza in caso di
spostamenti a carattere ambientale potrebbe essere una via percorribile.
Dibattiti e studi
Negli ultimi anni sono emersi in diversi dibattiti internazionali
termini quali rifugiati ambientali, rifugiati climatici, environmental
displaced persons, ecoprofughi, migrazioni ambientalmente indotte. Tali
espressioni sono usate in maniera crescente nel tentativo di definire e
investigare una varietà di fenomeni nei quali persone e comunità umane
sono spinte a lasciare i propri territori a causa di una parziale o
totale degradazione dell’ambiente. Nel 1988, in base alla definizione di
El-Hinnawi, Jacobson ha prodotto una delle prime stime sul numero dei
rifugiati ambientali esistenti all’epoca, fissandola nell’ordine dei 10
milioni. Jacobson ha anche introdotto l’idea che i cambiamenti climatici
possano indurre futuri flussi di “rifugiati ambientali”. Successivamente
Norman Myers stimò in 25 milioni il numero di rifugiati ambientali nel
1995, prevedendo un potenziale di 50 milioni di persone a rischio nel
2010 e di 200 milioni nel 2050. Myers parla di rifugiati ambientali
riferendosi a quelle persone che non riescono più a garantirsi i mezzi
di sussistenza nel proprio territorio a causa di siccità, erosione del
suolo, desertificazione, deforestazione, inondazioni, eventi climatici
estremi ed altri problemi ambientali, insieme ai problemi associati alla
pressione demografica e alla profonda povertà.
I fattori ambientali, secondo Myers, non solo possono essere causa
diretta dei flussi migratori ma anche contribuire ad alimentarli
sommandosi ad altri fattori. Il surriscaldamento globale e il
conseguente aumento della siccità in alcune aree del Pianeta, ad
esempio, contribuiscono all’inaridimento dei terreni agricoli e quindi
inaspriscono la competizione per accaparrarseli; la degradazione di
ecosistemi fragili per motivi connessi alle attività antropiche mette a
repentaglio la sussistenza delle comunità umane più direttamente
dipendenti dai servizi ambientali gratuiti spingendole ad emigrare. Tali
eventi a loro volta alimentano tensioni politiche ed etniche che possono
precipitare in situazioni di guerra e violenza, anch’esse causa di
migrazione. Myers esprime inoltre il timore che una percentuale
crescente di questi enormi flussi migratori dovuti a cause ambientali
possa dirigersi verso i Paesi dell’Europa Occidentale e del Nord
America, provocando apprensioni per il futuro.
Gas serra
Una delle cause di questi flussi migratori è l’aumento dei gas serra
derivante dalle attività umane e responsabile del cambiamento climatico
in atto e che rischia di trasformare il Pianeta in modo radicale,
rendendolo inabitabile per le specie animali e vegetali così come le
conosciamo e certamente per la stessa specie umana e la sua civiltà; per
questo bisogna ridurre in fretta le emissioni. Rispetto al periodo
preindustriale la concentrazione di CO2 è aumentata del 40%, segno che
lo sviluppo imperniato sui combustibili fossili, che ha dato maggiore
benessere ai Paesi più industrializzati per alcune generazioni, rischia
di sconvolgere la vita di tutti i popoli per le generazioni attuali e
per quelle future. Se gli effetti del cambiamento climatico riguardano
tutti, il loro impatto è maggiore nei Paesi più poveri e sulle
popolazioni più vulnerabili. Anzi, proprio coloro che meno hanno
beneficiato del benessere economico legato all’attuale modello di
sviluppo ne subiscono maggiormente le conseguenze ambientali.
Sostegno ed equità
Di qui l’esigenza di agire subito e assicurare un approccio equo nei
futuri accordi sul clima, che aiuti i Paesi e le popolazioni povere a
raggiungere un benessere non fondato sui combustibili fossili e a
diventare maggiormente resilienti verso gli impatti inevitabili del
cambiamento climatico. L’equità tra i Paesi e all’interno dei singoli
Paesi è uno dei capisaldi dello sviluppo sostenibile.
È importante quindi analizzare come affrontare il processo di
urbanizzazione in corso, con particolare riferimento ai servizi sociali,
all'efficienza e risparmio energetico, alle risorse idriche, alla
gestione dei rifiuti, al consumo di suolo. Misure di sostegno per la
rigenerazione delle periferie degradate dei paesi sviluppati e in via di
sviluppo dotandole di livelli standard di servizi urbani
(igienico-sanitari, per l'istruzione, il trasporto, la gestione dei
rifiuti, ecc.) sono fondamentali, così come un impegno concreto per
gestire i cambiamenti climatici ed evitare così di sottrarre sempre più
territori all’agricoltura che offre sussistenza a molte famiglie nei
Paesi in via di sviluppo.
Comunità internazionale e sostenibilità
Nel 2015 la comunità internazionale, con l’accordo di Parigi e l’Agenda
2030, ha assunto responsabilità importanti nella lotta contro il
cambiamento climatico, con un impegno a limitare l’aumento del
riscaldamento globale a 2°C secondo molti scienziati ancora non
sufficiente per evitare rischi importanti per l’intera umanità. Occorre
un impegno più serrato, per puntare ad un aumento massimo di 1,5° di
aumento della temperatura terrestre, considerato come la soglia di
sicurezza, ma su cui non esiste accordo ne impegno concreto. L’Agenda
2030 comprende e rilancia gli obiettivi degli accordi sul clima,
sostanziandone gli impegni con l’obiettivo numero 13: “Promuovere
azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico”.
Quello della sostenibilità ambientale deve essere però un impegno
trasversale, che dovrebbe trovare spazio in un vero cambiamento passo e
di paradigma economico. Gli impegni della comunità internazionale sono
importanti e necessari, ma ancora limitati e insufficienti.
Per cui, di fatto, la reale applicazione dei termini dell’accordo resta
legata alla volontà politica di ciascun paese. L’unico vincolo è
l’attesa di quattro anni (tre previsti dallo stesso Accordo di Parigi,
più uno per ragioni tecniche) per chi volesse abbandonare il progetto:
ma, anche qui, nessuno può imporrre che nel frattempo si remi nella
giusta direzione.
Questo porta ognuno di noi, ogni comunità ad assumere stili di vita più
sostenibili, e a promuovere azioni in cui viene rifondata l’alleanza tra
l’umanità e il nostro pianeta.
È necessario innanzitutto cambiare l’attuale modello di sviluppo,
incentrato sul dogma della crescita senza limiti, sfatato già negli anni
’70 con la pubblicazione del rapporto The limits to growth
(commissionato dal Club di Roma). Le risorse del Pianeta sono limitate e
lo sviluppo economico e sociale non può proseguire senza scontrarsi con
tali limiti, è sempre più evidente invece come alla loro forzatura
corrispondano, unitamente ai danni ambientali, conflitti, migrazioni,
violazione dei diritti umani, ineguaglianze. È necessario, pertanto,
costruire un nuovo paradigma di sviluppo, sostenibile dal punto di vista
ambientale e sociale. Il fattore climatico è ancora contestato dalle
multinazionali perché mette in discussione un modello economico ormai
consolidato. E, d’altra parte, il presidente degli Stati Uniti, Trump,
non sta andando in una direzione diversa.
Politica e diritto
La quantità di persone che lascerà il proprio luogo di origine per
circostanze ambientali sarà determinata da una lunga serie di fattori
aggiuntivi, prima fra tutte la risposta dei governi locali
all’emergenza, ma anche dalla facilità con cui sarà possibile spostarsi
per questo genere di fenomeni, dal punto di vista legale.
Le dimensioni, le caratteristiche e la distribuzione geografica del
fenomeno delle migrazioni climatiche determineranno le modalità con cui
verrà gestito dai governi di tutto il mondo, anche se in molti sono
preoccupati che non siano in corso sufficienti sforzi per prepararsi. Il
problema principale, al momento, è che il diritto internazionale non
riconosce il diritto all’asilo per motivi ambientali: ed è il motivo per
cui la definizione di “rifugiati climatici” è, almeno per ora, inesatta.
I principali documenti che regolano le leggi internazionali sulle
migrazioni, la Convenzione di Ginevra del 1951 e il Protocollo relativo
alla status di rifugiato del 1967, infatti, restringono la condizione di
rifugiato a chi è minacciato nel proprio paese da persecuzioni legate
all’etnia, alla religione, alle opinioni politiche, alla nazionalità, ma
non contemplano questioni ambientali. E c’è un’altra questione: i
rifugiati sono quelli che migrano in un altro paese, mentre non è
affatto detto che chi lascerà le proprie case per questioni ambientali
si sposterà all’estero.
I rifugiati climatici al momento non esistono, per legge, e in molti
ritengono che sarà molto difficile definirli legalmente senza creare
grandi ambiguità e zone grigie. Questa difficoltà ha finora frenato
provvedimenti in questo senso: gli stimoli sono pochi anche perché
sarebbe un processo che aprirebbe probabilmente la possibilità della
richiesta di asilo a milioni e milioni di persone, una situazione che
sembra adattarsi poco agli attuali umori politici di gran parte dei
paesi occidentali.
Per questo, quei paesi a cui è toccato esprimersi in merito hanno
cercato di evitare di creare precedenti legali che avrebbero potuto
generare reazioni a catena imprevedibili. Uno dei casi più famosi è la
Nuova Zelanda, che da anni riceve richieste di asilo da parte di
abitanti di isole del Pacifico le cui coste sono progressivamente
sommerse dal mare. Nel 2010, per esempio, la richiesta di Ioane Teitiota
– un abitante dell’isola di Kiribati – fu respinta non perché le
autorità neozelandesi negassero il cambiamento climatico, ma perché la
sua rivendicazione non rientrava nei casi previsti dalla legge, e perché
altre aree sulla stessa isola erano al sicuro dall’innalzamento del
mare. In quel caso, oltretutto, il cambiamento climatico non era davvero
l’unica causa della volontà di Teitiota di migrare, che dipendeva anche
da altri fattori come la crescita della popolazione locale e le scarse
infrastrutture sanitarie.
Sebbene si inizia a prendere atto del problema dei disastri ambientali e
climatici, mancano strumenti giuridici adeguati e non si dà luogo a
disposizioni internazionali.
I profughi climatici non hanno ancora alcun diritto. Tanto meno quello
di essere considerati rifugiati e, in quanto tali, di essere protetti
dalla legislazione internazionale
(Mar. 2020).
Eraldo Colosio |