Navigando su questo sito web si accettano i cookie utilizzati per fornire i Nostri servizi. Per maggiori informazioni leggere l'informativa L.679/2016 (GDPR) sulla privacy e sui cookie

SPAZIO MOTORI HOME PAGE- Testata giornalistica telematica autorizzata dal Tribunale di Napoli con n.5141-Dir. Resp. Dott.Massimiliano Giovine            Il primo periodico telematico di informazioni ed inserzioni auto,moto,nautica,trasporti,viabilità,ambiente,sicurezza stradale,ecc.Testata Giornalistica autorizzata dal Tribunale di Napoli-registraz.n.5141-Provv.del 27/6/2000-Direttore Responsabile Dott.Massimiliano Giovine - © Tutti i diritti riservati

|HOME|

|Presentazione|

|Note/GeRENZA| Cookie |

|Lettere|

|Spazio Motori "Ambiente"|

|Inserzioni gratis|

|Links auto|

|Links moto|

|Links utili|

|Assicuraz. web|

Anno XIX num.1
Gen./Feb. 2020

|C E R C A|

 

ARTICOLI di questo numero

 

SEGNALAZIONI LE SEGNALAZIONI DEI LETTORI. Scrivi anche Tu!

 
Pillole/News
 
Rubrica "Spazio AMBIENTE"
 
ARCHIVIO articoli
Scrivi a:redazione1@spaziomotori.it

 

Scrivici

Torna alla Home page

 | Gerenza |

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

MUTAMENTI CLIMATICI E PROFUGHI AMBIENTALI

 

di Eraldo Colosio

 

Introduzione

La migrazione è un fenomeno che esiste da sempre. L’uomo si è spostato per motivi economici, religiosi, politici e a seguito di calamità naturali o di situazioni climatiche avverse.

Tuttavia l’accelerazione dei processi di degradazione o mutamento dell’ambiente, sia in termini di frequenza che di intensità dei fenomeni, sta assumendo un ruolo crescente tra le cause di migrazione forzata, destando preoccupazione per gli impatti umanitari, sociali, politici, economici e ambientali.

 

Cause cambiamento climatico

Sono stati identificati almeno cinque processi prodotti dal cambiamento climatico che possono avere effetti sulla mobilità delle persone. I processi, qui di seguito riassunti, sono i seguenti. Il primo riguarda l’aumento delle temperature dell’aria e della superficie dei mari, in particolare nei tropici. Il secondo è il cambiamento delle precipitazioni, la loro maggiore o minore frequenza, la loro intensità ed erraticità, con conseguenze in termini di inondazioni e siccità, così come su eventi di più lungo termine come la desertificazione. Terzo, l’innalzamento del livello dei mari causato dalla fusione dei ghiacci a causa del riscaldamento climatico. Quarto, le trasformazioni di sistemi climatici regionali evidenti come nel caso del Niño e dei monsoni asiatici, con un aumento di eventi meteorologici estremi. A tutto ciò si collega un quinto processo: l’intensificazione della competizione tra popolazioni, Stati e imprese, per il controllo e l’utilizzo delle risorse naturali che a sua volta potrebbe causare conflitti e quindi migrazioni forzate. Vi sono alcune aree che più di altre subiranno questi processi.

 

Numeri e stime trasferimenti

Da alcuni decenni i cambiamenti climatici spingono sempre più abitanti del nostro pianeta a lasciare la propria terra per trasferirsi in altri luoghi alla ricerca di condizioni di vita migliori e più salubri.

Dal 2008 al 2017 in media 25,2 milioni di persone ogni anno hanno dovuto abbandonare la loro casa a causa di disastri ambientali.

Nel 2012, ad esempio, moltissimi i disastri hanno colpito il nostro pianeta: secondo i dati del CRED (Center for Research on the Epidemiology of Disasters) si sono verificate 310 calamità naturali che hanno portato 9.330 decessi, 106 milioni di persone colpite e un danno economico stimato pari a 138 miliardi di dollari.

Secondo la Banca Mondiale saranno 250 milioni le persone che si muoveranno all’interno del proprio Paese di origine o oltrepasseranno i confini a causa dei cambiamenti climatici entro il 2050.

 

Spostamenti interni e transfrontalieri

Diverse ricerche hanno rivelato come l’80% delle persone spinte a migrare per motivi ambientali non fuggono all’estero ma si spostano – in maniera temporanea o permanente – all’interno dei confini del proprio Paese.

Questo perché non tutti hanno le risorse necessarie e l’intenzione di spostarsi. Le famiglie più povere vengono in realtà “intrappolate” nelle aree colpite dagli eventi climatici improvvisi e distruttivi, ad esempio terremoti, alluvioni, tsunami, o da condizioni di vita rese insostenibili da stress ambientali a manifestazione lenta come siccità e desertificazioni.

Non hanno la possibilità di spostarsi in territori più sicuri ed accoglienti, a meno che non intervenga l’assistenza dello Stato o di entità caritatevoli. Alcune poi non hanno l’intenzione di spostarsi perché temono di perdere quel poco che hanno, che l’abbandono della loro casa, ancorché insicura e in condizioni disagiate, e dei loro poveri averi, possa condurli in una situazione di maggiore miseria. Sono le persone e le famiglie con relativamente più risorse che possono gestire la loro mobilità in modo dar far fronte a situazioni critiche.

Le famiglie investono, e si indebitano, per fare migrare alcuni figli in modo da accedere ad altre risorse esistenti in luoghi diversi. Anche in questo caso non sono i più poveri a poter prendere queste decisioni, ma quelle famiglie che hanno quel tanto di disponibilità economica, di capacità di prendere a prestito, e di poter contare su reti di aiuto, che consente loro di affrontare i costi della migrazione.

Molti profughi ambientali, a causa della mancanza di risorse, non riescono a superare i confini del proprio Paese e in molti casi il loro viaggio si ferma nelle periferie delle grandi megalopoli, quelle che oggi sono conosciute come slum, favelas, baraccopoli, compound, discariche. Luoghi che sono espressione manifesta di degrado urbano e ingiustizia sociale, dove si trovano abitazioni fatiscenti, senza acqua potabile, senza reti fognarie e servizi sanitari e dove si vive in condizioni di sovraffollamento. I processi di urbanizzazione selvaggia hanno raggiunto nei Paesi in via di sviluppo una dimensione drammatica, è il caso di megalopoli come quelle di Manila, Dhaka, Nairobi.

Se consideriamo che la maggior parte di questi spostamenti sono interni agli Stati, dei meccanismi di solidarietà in termini di assistenza umanitaria sono la strada più promettente. Questo si iscrive in tutto il dibattito sulla responsabilità dei paesi ricchi e sulle forme di compenso da valutare. Un fondo mondiale di assistenza in caso di spostamenti a carattere ambientale potrebbe essere una via percorribile.

 

Dibattiti e studi

Negli ultimi anni sono emersi in diversi dibattiti internazionali termini quali rifugiati ambientali, rifugiati climatici, environmental displaced persons, ecoprofughi, migrazioni ambientalmente indotte. Tali espressioni sono usate in maniera crescente nel tentativo di definire e investigare una varietà di fenomeni nei quali persone e comunità umane sono spinte a lasciare i propri territori a causa di una parziale o totale degradazione dell’ambiente. Nel 1988, in base alla definizione di El-Hinnawi, Jacobson ha prodotto una delle prime stime sul numero dei rifugiati ambientali esistenti all’epoca, fissandola nell’ordine dei 10 milioni. Jacobson ha anche introdotto l’idea che i cambiamenti climatici possano indurre futuri flussi di “rifugiati ambientali”. Successivamente Norman Myers stimò in 25 milioni il numero di rifugiati ambientali nel 1995, prevedendo un potenziale di 50 milioni di persone a rischio nel 2010 e di 200 milioni nel 2050. Myers parla di rifugiati ambientali riferendosi a quelle persone che non riescono più a garantirsi i mezzi di sussistenza nel proprio territorio a causa di siccità, erosione del suolo, desertificazione, deforestazione, inondazioni, eventi climatici estremi ed altri problemi ambientali, insieme ai problemi associati alla pressione demografica e alla profonda povertà.

I fattori ambientali, secondo Myers, non solo possono essere causa diretta dei flussi migratori ma anche contribuire ad alimentarli sommandosi ad altri fattori. Il surriscaldamento globale e il conseguente aumento della siccità in alcune aree del Pianeta, ad esempio, contribuiscono all’inaridimento dei terreni agricoli e quindi inaspriscono la competizione per accaparrarseli; la degradazione di ecosistemi fragili per motivi connessi alle attività antropiche mette a repentaglio la sussistenza delle comunità umane più direttamente dipendenti dai servizi ambientali gratuiti spingendole ad emigrare. Tali eventi a loro volta alimentano tensioni politiche ed etniche che possono precipitare in situazioni di guerra e violenza, anch’esse causa di migrazione. Myers esprime inoltre il timore che una percentuale crescente di questi enormi flussi migratori dovuti a cause ambientali possa dirigersi verso i Paesi dell’Europa Occidentale e del Nord America, provocando apprensioni per il futuro.

 

Gas serra

Una delle cause di questi flussi migratori è l’aumento dei gas serra derivante dalle attività umane e responsabile del cambiamento climatico in atto e che rischia di trasformare il Pianeta in modo radicale, rendendolo inabitabile per le specie animali e vegetali così come le conosciamo e certamente per la stessa specie umana e la sua civiltà; per questo bisogna ridurre in fretta le emissioni. Rispetto al periodo preindustriale la concentrazione di CO2 è aumentata del 40%, segno che lo sviluppo imperniato sui combustibili fossili, che ha dato maggiore benessere ai Paesi più industrializzati per alcune generazioni, rischia di sconvolgere la vita di tutti i popoli per le generazioni attuali e per quelle future. Se gli effetti del cambiamento climatico riguardano tutti, il loro impatto è maggiore nei Paesi più poveri e sulle popolazioni più vulnerabili. Anzi, proprio coloro che meno hanno beneficiato del benessere economico legato all’attuale modello di sviluppo ne subiscono maggiormente le conseguenze ambientali.

 

Sostegno ed equità

Di qui l’esigenza di agire subito e assicurare un approccio equo nei futuri accordi sul clima, che aiuti i Paesi e le popolazioni povere a raggiungere un benessere non fondato sui combustibili fossili e a diventare maggiormente resilienti verso gli impatti inevitabili del cambiamento climatico. L’equità tra i Paesi e all’interno dei singoli Paesi è uno dei capisaldi dello sviluppo sostenibile.

È importante quindi analizzare come affrontare il processo di urbanizzazione in corso, con particolare riferimento ai servizi sociali, all'efficienza e risparmio energetico, alle risorse idriche, alla gestione dei rifiuti, al consumo di suolo. Misure di sostegno per la rigenerazione delle periferie degradate dei paesi sviluppati e in via di sviluppo dotandole di livelli standard di servizi urbani (igienico-sanitari, per l'istruzione, il trasporto, la gestione dei rifiuti, ecc.) sono fondamentali, così come un impegno concreto per gestire i cambiamenti climatici ed evitare così di sottrarre sempre più territori all’agricoltura che offre sussistenza a molte famiglie nei Paesi in via di sviluppo.

 

Comunità internazionale e sostenibilità

Nel 2015 la comunità internazionale, con l’accordo di Parigi e l’Agenda 2030, ha assunto responsabilità importanti nella lotta contro il cambiamento climatico, con un impegno a limitare l’aumento del riscaldamento globale a 2°C secondo molti scienziati ancora non sufficiente per evitare rischi importanti per l’intera umanità. Occorre un impegno più serrato, per puntare ad un aumento massimo di 1,5° di aumento della temperatura terrestre, considerato come la soglia di sicurezza, ma su cui non esiste accordo ne impegno concreto. L’Agenda 2030 comprende e rilancia gli obiettivi degli accordi sul clima, sostanziandone gli impegni con l’obiettivo numero 13: “Promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico”. Quello della sostenibilità ambientale deve essere però un impegno trasversale, che dovrebbe trovare spazio in un vero cambiamento passo e di paradigma economico. Gli impegni della comunità internazionale sono importanti e necessari, ma ancora limitati e insufficienti.

Per cui, di fatto, la reale applicazione dei termini dell’accordo resta legata alla volontà politica di ciascun paese. L’unico vincolo è l’attesa di quattro anni (tre previsti dallo stesso Accordo di Parigi, più uno per ragioni tecniche) per chi volesse abbandonare il progetto: ma, anche qui, nessuno può imporrre che nel frattempo si remi nella giusta direzione.

Questo porta ognuno di noi, ogni comunità ad assumere stili di vita più sostenibili, e a promuovere azioni in cui viene rifondata l’alleanza tra l’umanità e il nostro pianeta.

È necessario innanzitutto cambiare l’attuale modello di sviluppo, incentrato sul dogma della crescita senza limiti, sfatato già negli anni ’70 con la pubblicazione del rapporto The limits to growth (commissionato dal Club di Roma). Le risorse del Pianeta sono limitate e lo sviluppo economico e sociale non può proseguire senza scontrarsi con tali limiti, è sempre più evidente invece come alla loro forzatura corrispondano, unitamente ai danni ambientali, conflitti, migrazioni, violazione dei diritti umani, ineguaglianze. È necessario, pertanto, costruire un nuovo paradigma di sviluppo, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale. Il fattore climatico è ancora contestato dalle multinazionali perché mette in discussione un modello economico ormai consolidato. E, d’altra parte, il presidente degli Stati Uniti, Trump, non sta andando in una direzione diversa.

 

Politica e diritto

La quantità di persone che lascerà il proprio luogo di origine per circostanze ambientali sarà determinata da una lunga serie di fattori aggiuntivi, prima fra tutte la risposta dei governi locali all’emergenza, ma anche dalla facilità con cui sarà possibile spostarsi per questo genere di fenomeni, dal punto di vista legale.

Le dimensioni, le caratteristiche e la distribuzione geografica del fenomeno delle migrazioni climatiche determineranno le modalità con cui verrà gestito dai governi di tutto il mondo, anche se in molti sono preoccupati che non siano in corso sufficienti sforzi per prepararsi. Il problema principale, al momento, è che il diritto internazionale non riconosce il diritto all’asilo per motivi ambientali: ed è il motivo per cui la definizione di “rifugiati climatici” è, almeno per ora, inesatta.

I principali documenti che regolano le leggi internazionali sulle migrazioni, la Convenzione di Ginevra del 1951 e il Protocollo relativo alla status di rifugiato del 1967, infatti, restringono la condizione di rifugiato a chi è minacciato nel proprio paese da persecuzioni legate all’etnia, alla religione, alle opinioni politiche, alla nazionalità, ma non contemplano questioni ambientali. E c’è un’altra questione: i rifugiati sono quelli che migrano in un altro paese, mentre non è affatto detto che chi lascerà le proprie case per questioni ambientali si sposterà all’estero.

I rifugiati climatici al momento non esistono, per legge, e in molti ritengono che sarà molto difficile definirli legalmente senza creare grandi ambiguità e zone grigie. Questa difficoltà ha finora frenato provvedimenti in questo senso: gli stimoli sono pochi anche perché sarebbe un processo che aprirebbe probabilmente la possibilità della richiesta di asilo a milioni e milioni di persone, una situazione che sembra adattarsi poco agli attuali umori politici di gran parte dei paesi occidentali.

Per questo, quei paesi a cui è toccato esprimersi in merito hanno cercato di evitare di creare precedenti legali che avrebbero potuto generare reazioni a catena imprevedibili. Uno dei casi più famosi è la Nuova Zelanda, che da anni riceve richieste di asilo da parte di abitanti di isole del Pacifico le cui coste sono progressivamente sommerse dal mare. Nel 2010, per esempio, la richiesta di Ioane Teitiota – un abitante dell’isola di Kiribati – fu respinta non perché le autorità neozelandesi negassero il cambiamento climatico, ma perché la sua rivendicazione non rientrava nei casi previsti dalla legge, e perché altre aree sulla stessa isola erano al sicuro dall’innalzamento del mare. In quel caso, oltretutto, il cambiamento climatico non era davvero l’unica causa della volontà di Teitiota di migrare, che dipendeva anche da altri fattori come la crescita della popolazione locale e le scarse infrastrutture sanitarie.

Sebbene si inizia a prendere atto del problema dei disastri ambientali e climatici, mancano strumenti giuridici adeguati e non si dà luogo a disposizioni internazionali.

I profughi climatici non hanno ancora alcun diritto. Tanto meno quello di essere considerati rifugiati e, in quanto tali, di essere protetti dalla legislazione internazionale (Mar. 2020).

 

Eraldo Colosio


 

Home pageCopyright 2000/2020 © - Tutti i diritti riservati - All rights reserved - Testata giornalistica autorizzata dal Tribunale di Napoli-registr. n. 5141-Provv.del 27-06-2000.

Editore: associazione culturale no-profit "Confgiovani"- Iscr. ROC n.19181. Direttore Resp. Dott.Massimiliano Giovine - giornalista (Tes. Prof. n.120448, già n.84715).

Direzione, Redazione: via D. De Dominicis, 20 c/o Giovine-cap. 80128 Napoli. E' vietata la riproduzione o trasmissione anche parziale, in qualsiasi forma, di testi, immagini, loghi ed ogni altra parte contenuta in questo sito web senza autorizzazione.

La Redazione non è responsabile di eventuali errori imputabili a terzi, nè del contenuto delle inserzioni riservandosene, pertanto, la pubblicazione.

Nomi e numeri sono citati a puro titolo informativo, per offrire un servizio al lettore. Proprietà artistica e letteraria riservata ©. Vedi gerenza e note legali/tecniche.

|Anno XIX num.1  - Gen./Feb. 2020| - Per informazioni e contatti e-mail: redazione1@spaziomotori.it

Sito web ottimizzato per "Firefox", Internet "Explorer 5.0" o superiore - Risoluzione schermo consigliata: 1024 x 768 pixel - >>Informativa L. 679/2016 (GDPR)Privacy/Cookie<<