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Anno XV num.2
Mar./Apr. 2016

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IL RISCALDAMENTO GLOBALE, DA KYOTO A PARIGI

 di Rita Cipollone

 

Il riscaldamento globale è l’aumento della temperatura media dell’aria e degli oceani. Ad oggi nessuno è in grado di prevedere tutti gli effetti di tale fenomeno, ma sicuramente una delle principali conseguenze del cambiamento climatico è un impatto sul ciclo dell’acqua e quindi sulla disponibilità delle risorse idriche che avranno ricadute sia sulle persone che sugli ecosistemi.

L’entità del riscaldamento ed i relativi cambiamenti interessano tutto il mondo anche se variano da regione a regione: il riscaldamento dovrebbe essere più forte nella regione artica ed andrebbe associato ad un ritiro continuo dei ghiacciai, dei permafrost e dei ghiacci marini. Il conseguente aumento della temperatura globale sarà causa di un aumento del livello del mare che modificherà la frequenza e l’intensità degli eventi

meteorologici, specialmente quelli estremi, a cui inevitabilmente si accompagneranno l’estinzioni di specie animali e vegetali e sensibili variazioni dei rendimenti agricoli.

Poiché il fenomeno del riscaldamento globale ha ed avrà notevoli ripercussioni sia sulle attività umane che sugli ecosistemi, nel 1988 è stato istituito il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change - IPCC) da due organismi delle Nazioni Unite, l'Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) ed il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente (UNEP), che ha lo scopo di effettuare periodicamente una valutazione esaustiva e aggiornata delle informazioni scientifiche, tecniche e socio-economiche rilevanti per la comprensione dei mutamenti

climatici indotti dall'uomo, degli impatti potenziali dei mutamenti climatici e delle alternative di mitigazione e adattamento disponibili per le politiche pubbliche.

L'IPCC nonsvolge direttamente attività di ricerca né di monitoraggio o raccolta dati ma fonda i propri rapporti principalmente su letteratura scientifica pubblicata.

Dal 1990, anno del primo rapporto di valutazione, l’IPCC ha pubblicato cinque Rapporti di Valutazione. Nel Quinto e più recente Rapporto di valutazione (2013-2014) si legge che “il riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile a partire dagli anni '50; molti dei cambiamenti osservati sono senza precedenti su scale temporali che variano da decenni a millenni. L'atmosfera e gli oceani si sono riscaldati, le quantità di neve e ghiaccio si sono ridotte, il livello del mare si è alzato, e le concentrazioni di gas serra

sono aumentate. La temperatura atmosferica superficiale mostra che ciascuno degli ultimi tre decenni sulla superficie della Terra è stato in sequenza più caldo di qualsiasi decennio precedente dal 1850. Nell'emisfero settentrionale, il periodo 1983-2012 è stato probabilmente il trentennio più caldo degli ultimi 1400 anni”.

Nella maggior parte dei casi, dove in varie aree del nostro pianeta si è registrato un graduale aumento delle temperature, quindi un riscaldamento della crosta terrestre, la causa è stata attribuita alle crescenti concentrazioni di gas serra nell’atmosfera sovrastante i quali permettono alla radiazione solare di arrivare al nostro pianeta, ma allo stesso tempo ne ostacolano la rifrazione verso lo spazio.

L’aumento di questi gas è attribuibile sopratutto ad attività umane, ovvero al processo di sviluppo industriale durante il quale l’uomo ha esponenzialmente aumentato la combustione di combustibili fossili come petrolio e carbone. Questo abuso di combustibili è attribuibile per la maggior parte all’alimentazione energetica di stabilimenti industriali ed all’esponenziale crescita di mezzi di trasporto dotati di motore a scoppio.

Anche la deforestazione indiscriminata di enormi porzioni delle principali foreste del nostro pianeta sta ampiamente contribuendo al fenomeno. Conseguenza di tali attività antropiche è un’alterazione del bilancio energetico della Terra risultato dell’aumento non solo della concentrazione atmosferica di anidride carbonica (CO2) ma anche di metano, e protossido di azoto i cui livelli hanno raggiunto valori senza precedenti almeno rispetto agli ultimi 800.000 anni. La concentrazione di anidride carbonica è aumenta del 40% dall'età pre-industriale, in primo luogo per le emissioni legate all'uso dei combustibili fossili e, in seconda istanza, per le emissioni nette legate al cambio di uso del suolo.

L'oceano ha assorbito circa il 30% dell'anidride carbonica di origine antropogenica emessa, causando l'acidificazione degli oceani.

Una proiezione di modelli climatici, sintetizzata nell’ultima relazione del Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici, indica che la temperatura media della superficie del nostro globo è destinata ad aumentare fino a 4,8 gradi centigradi durante il corso del ventunesimo secolo. L’incertezza di questa stima deriva dall’uso di modelli con una sensibilità differente per le concentrazioni di gas a effetto serra e dall’utilizzo di diverse stime, provenienti da diversi istituti di indagine e ricerca, delle future emissioni di

gas serra.

Il pensiero comunque condiviso della comunità scientifica è che il riscaldamento globale antropogenico tutt’ora in corso, continuerà ancora a lungo e che la maggior parte degli aspetti del cambiamento climatico perdureranno per parecchi secoli anche se le emissioni di CO2 saranno fermate. Questo comporta un sostanziale impegno multisecolare per il cambiamento climatico, causato dalle emissioni di CO2 passate, presenti e future.

Le continue emissioni di gas serra causeranno un ulteriore riscaldamento e cambiamenti in tutte le componenti del sistema climatico. Limitare il cambiamento climatico richiederà una riduzione sostanziale e prolungata nel tempo delle emissioni di gas serra.

Per contrastare il cambiamento climatico a partire dal novembre 2009, 187 nazioni hanno firmato il Protocollo di Kyoto che ha come obiettivo quello di stabilizzare la concentrazione di gas serra per evitare una “pericolosa interferenza antropica”.

L’obiettivo fondamentale del Protocollo di Kyoto è quello di ridurre le emissioni di gas inquinanti derivanti dall’attività umana: anidride carbonica, metano, ossido di azoto, esafluoruro di zolfo, perfluorocarburi e idrofluorocarburi. La prima fase è durata dal 2008 al 2012 e ha coinvolto 37 paesi più quelli dell’Unione Europea, che si sono impegnati a ridurre le loro emissioni del 5% rispetto a quelle del 1990.

Il secondo periodo di adempimento del protocollo di Kyoto è iniziato il 1º gennaio 2013 e si concluderà nel 2020. Vi aderiscono 38 paesi sviluppati, compresa l'UE e i suoi 28 Stati membri. Tale periodo rientra nell'emendamento di Doha, nell'ambito del quale i paesi partecipanti si sono impegnati a ridurre le emissioni di almeno il 18% rispetto ai livelli del 1990. L'UE si è impegnata a diminuire le emissioni in tale periodo del 20% rispetto ai livelli del 1990.

La principale lacuna del protocollo di Kyoto è che richiede unicamente ai paesi sviluppati di intervenire, tralasciando i paesi in via di sviluppo. Inoltre, considerando che gli Stati Uniti non hanno mai aderito al protocollo di Kyoto, che il Canada si è ritirato prima della fine del primo periodo di adempimento e che Russia, Giappone e Nuova Zelanda non prendono parte al secondo periodo, tale strumento si applica attualmente solo a circa il 14% delle emissioni mondiali. Oltre 70 paesi in via di sviluppo e sviluppati

hanno tuttavia assunto vari impegni non vincolanti intesi a ridurre o limitare le rispettive emissioni di gas a effetto serra.

Il protocollo di Kyoto è stato poi seguito dalla conferenza di Parigi, che si è tenuta nella capitale francese dal 30 novembre all'11 dicembre 2015, la quale si è conclusa con un nuovo accordo globale sui cambiamenti climatici che prevede un piano d'azione per limitare il riscaldamento globale "ben al di sotto" dei 2ºC. A differenza del passato, all’accordo di Parigi ha aderito tutto il mondo per un totale di 195 paesi, compresi i quattro più grandi inquinatori: Europa, Cina, India e gli Stati Uniti che si sono impegnati a tagliare le emissioni.

I principali elementi del nuovo accordo di Parigi sono:

  • obiettivo a lungo termine: i governi hanno convenuto di mantenere l'aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C in più rispetto ai livelli preindustriali e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C. Per centrare l’obiettivo, le emissioni devono cominciare a calare dal 2020.

  • Il testo prevede un processo di revisione degli obiettivi ogni cinque anni. Ma già nel 2018 si chiederà agli stati di aumentare i tagli delle emissioni, così da centrare l’obiettivo del calo delle emissioni previsto a partire dal 2020.

  • I paesi più industrializzati erogheranno cento miliardi all’anno (dal 2020) per diffondere in tutto il mondo le tecnologie verdi e decarbonizzare l’economia.

  • L’accordo dà il via a un meccanismo di rimborsi per compensare le perdite finanziarie causate dai cambiamenti climatici nei paesi più vulnerabili geograficamente, che spesso sono anche i più poveri.

Il consenso ed il clamore dell’accordo di Parigi è senz’altro legato al fatto che si è voluto dare una connotazione di trasparenza per la verifica del raggiungimento degli obiettivi prefissati. I governi partecipanti infatti hanno accettato di comunicare - l'un l'altro e al pubblico - i risultati raggiunti nell'attuazione dei rispettivi obiettivi al fine di garantire trasparenza e controllo. Rimangono tuttavia critici alcuni aspetti quali ad esempio:

  • Nessuna data per l’azzeramento delle emissioni: non è stato fissato un calendario che porti alla progressiva, ma totale, sostituzione delle fonti energetiche fossili. La richiesta degli ambientalisti era quella di arrivare a una riduzione del 70 per cento rispetto ai livelli attuali intorno al 2050, e raggiungere le emissioni zero nel decennio successivo.

  • Potere ai produttori di petrolio: i produttori di petrolio e gas – tanto le imprese quanto i paesi – si sono opposti e hanno ottenuto che non si specificasse una data per la decarbonizzazione dell’economia.

  • Controlli autocertificati: i controlli a prova dei risultati raggiunti saranno autocertificati e non effettuati da organismi terzi indipendenti

  • Nessun intervento su aerei e navi: i gas di scarico di aerei e navi non sono sottoposti a controllo.

Se da un lato la conferenza di Parigi ha sancito l’impegno a livello mondiale per una progressiva riduzione delle emissioni, le politiche ancora da adottare per raggiungere tale obiettivo sono lasciate ai singoli stati o alle azioni politiche delle maggiori aree industrializzate. Tra i principali strumenti attualmente già adottati in Europa vi è il sistema europeo di scambio di quote di emissione (European Union Emissions Trading Scheme - EU ETS) che si applica ai settori industriali caratterizzati da maggiori emissioni e quindi

fortemente energivori quali gli impianti termoelettrici e industriali nel campo della produzione di energia e della produzione manifatturiera (attività energetiche, produzione e trasformazione dei metalli, cemento, ceramica e laterizi, vetro, carta) e gli operatori aerei, quest’ultimo settore invece escluso dalla conferenza di Parigi.

Il Sistema è stato istituito dalla Direttiva 2003/87/CE e successive modificazioni (Direttiva ETS) e traspone in Europa, agli impianti industriali, al settore della produzione di energia elettrica e termica e agli operatori aerei, il cosiddetto meccanismo di “cap&trade ” introdotto a livello internazionale dal Protocollo di Kyoto. Tale sistema fissa un tetto massimo al livello totale delle emissioni consentite a ciascuno dei soggetti vincolati dal sistema stesso, ma consente ai partecipanti di acquistare e vendere sul mercato “quote” di emissione di CO2 secondo le necessità, all'interno di un limite prestabilito.

Le attività energivore dell’Unione europea non potendo quindi funzionare senza un’autorizzazione ad emettere gas serra si

trovano a dover monitorare annualmente le proprie emissioni e, in caso di superamento dei limiti, a doverle compensare con quote di emissione europee che possono essere comprate e vendute sul mercato. Con questo sistema, si apre uno scenario per cui i gestori degli impianti possono scegliere di investire in tecnologie a basso contenuto di carbonio o di ottimizzare i processi dal punto di vista energetico per ridurre le proprie emissioni, oppure acquistare quote, aumentando i costi di produzione e perdere quindi in competitività.

Il successo nel raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra potrà tuttavia essere ottenuto solamente se verrà messa in atto una strategia di riduzione delle emissioni a tutti i livelli, non solo a livello delle grandi industrie energivore.

In una realtà come quella italiana in cui la maggior parte delle attività produttive è rappresentata da micro, piccole e medie imprese, il contributo che queste possono dare al raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni non si può considerare trascurabile.

Le imprese, anche le più piccole, possono adottare a livello volontario processi quali la “Carbon footprint”, letteralmente, "impronta di carbonio" espressa in termini di kg di CO2e (CO2 equivalente), che rappresenta l'emissione di gas (CO2, CH4, Ossido nitroso N2O, Idrofluorocarburi HFCs, Perfluorocarburi PFCs e Esafloruro di zolfo SF6) attribuibile

ad un determinato prodotto, un'organizzazione o un individuo. Lavorando sulla riduzione dell’impatto che ciascun singolo prodotto ha sulle emissione di gas serra è possibile contribuire anche “nel piccolo” alla riduzione globale dei mutamenti climatici.

Principale riferimento a livello internazionale per un approccio volontario verso la riduzione della impronta climatica è la norma UNI ISO 14064. Pubblicata nel 2006, questo standard è rivolto a qualsiasi organizzazione o impresa che voglia quantificare le emissioni di gas ad effetto serra connesse alle proprie attività o a specifici progetti di riduzione.

L’obiettivo dello standard non è solo quello di quantificare le emissioni ma prevede anche una rendicontazione dei dati verificata o validata da un organismo terzo indipendente.

La UNI ISO 14064 è suddivisa in tre parti che posso essere utilizzate separatamente o come un utile insieme di strumenti integrati per rispondere ai differenti bisogni in materia di dichiarazioni e verifiche delle emissioni dei gas ad effetto serra.

Una parte infatti dettaglia i principi e i requisiti per progettare, sviluppare, gestire e rendicontare gli inventari dei gas serra (GHG) a livello di un’organizzazione; una seconda parte riguarda i progetti sviluppati appositamente per ridurre le emissioni di GHG o aumentarne la rimozione; una terza parte descrive l’effettivo processo di validazione o verifica.

Tale approccio non solo produce effetti sull’ambiente ma apporta credibilità e garanzia ai processi di rendicontazione e monitoraggio, in relazione alle dichiarazioni di emissione da parte delle organizzazioni e dei progetti di riduzione delle stesse e, allo stesso tempo, può dare un ritorno di immagine alle imprese che lo adottano che, a livello di marketing, possono presentarsi come aziende “verdi”, rispettose dell’ambiente, e quindi con una maggiore appetibilità anche per il consumatore finale attento alle tematiche ambientali.

Sulla base delle suddette considerazione è evidente che solamente attraverso uno sforzo congiunto a tutti i livelli sarà effettivamente possibile ottenere un effetto sinergico per il raggiungimento degli obiettivi di protezione e tutela dell’ambiente dai cambiamenti climatici. Gli strumenti, seppur limitati, ci sono, e solo con uno sforzo condiviso potranno essere efficaci.

Rita Cipollone

 


 

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