IL RISCALDAMENTO GLOBALE, DA KYOTO A
PARIGI
di
Rita Cipollone
Il riscaldamento globale è l’aumento della temperatura media dell’aria e
degli oceani. Ad oggi nessuno è in grado di prevedere tutti gli effetti
di tale fenomeno, ma sicuramente una delle principali conseguenze del
cambiamento climatico è un impatto sul ciclo dell’acqua e quindi sulla
disponibilità delle risorse idriche che avranno ricadute sia sulle
persone che sugli ecosistemi.
L’entità del riscaldamento ed i relativi cambiamenti interessano tutto
il mondo anche se variano da regione a regione: il riscaldamento
dovrebbe essere più forte nella regione artica ed andrebbe associato ad
un ritiro continuo dei ghiacciai, dei permafrost e dei ghiacci marini.
Il conseguente aumento della temperatura globale sarà causa di un
aumento del livello del mare che modificherà la frequenza e l’intensità
degli eventi
meteorologici, specialmente quelli estremi, a cui inevitabilmente si
accompagneranno l’estinzioni di specie animali e vegetali e sensibili
variazioni dei rendimenti agricoli.
Poiché il fenomeno del riscaldamento globale ha ed avrà notevoli
ripercussioni sia sulle attività umane che sugli ecosistemi, nel 1988 è
stato istituito il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental
Panel on Climate Change - IPCC) da due organismi delle Nazioni Unite,
l'Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) ed il Programma delle
Nazioni Unite per l'Ambiente (UNEP), che ha lo scopo di effettuare
periodicamente una valutazione esaustiva e aggiornata delle informazioni
scientifiche, tecniche e socio-economiche rilevanti per la comprensione
dei mutamenti
climatici indotti dall'uomo, degli impatti potenziali dei mutamenti
climatici e delle alternative di mitigazione e adattamento disponibili
per le politiche pubbliche.
L'IPCC nonsvolge direttamente attività di
ricerca né di monitoraggio o raccolta dati ma fonda i propri rapporti
principalmente su letteratura scientifica pubblicata.
Dal 1990, anno del primo rapporto di valutazione, l’IPCC ha pubblicato
cinque Rapporti di Valutazione. Nel Quinto e più recente Rapporto di
valutazione (2013-2014) si legge che “ il
riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile a partire dagli
anni '50; molti dei cambiamenti osservati sono senza precedenti su scale
temporali che variano da decenni a millenni. L'atmosfera e gli oceani si
sono riscaldati, le quantità di neve e ghiaccio si sono ridotte, il
livello del mare si è alzato, e le concentrazioni di gas serra
sono aumentate. La temperatura atmosferica superficiale mostra che
ciascuno degli ultimi tre decenni sulla superficie della Terra è stato
in sequenza più caldo di qualsiasi decennio precedente dal 1850.
Nell'emisfero settentrionale, il periodo 1983-2012 è stato probabilmente
il trentennio più caldo degli ultimi 1400 anni ”.
Nella maggior parte dei casi, dove in varie aree del nostro pianeta si è
registrato un graduale aumento delle temperature, quindi un
riscaldamento della crosta terrestre, la causa è stata attribuita alle
crescenti concentrazioni di gas serra nell’atmosfera sovrastante i quali
permettono alla radiazione solare di arrivare al nostro pianeta, ma allo
stesso tempo ne ostacolano la rifrazione verso lo spazio.
L’aumento di questi gas è attribuibile sopratutto ad attività umane,
ovvero al processo di sviluppo industriale durante il quale l’uomo ha
esponenzialmente aumentato la combustione di combustibili fossili come
petrolio e carbone. Questo abuso di combustibili è attribuibile per la
maggior parte all’alimentazione energetica di stabilimenti industriali
ed all’esponenziale crescita di mezzi di trasporto dotati di motore a
scoppio.
Anche la deforestazione indiscriminata di enormi porzioni delle
principali foreste del nostro pianeta sta ampiamente contribuendo al
fenomeno. Conseguenza di tali attività antropiche è un’alterazione del
bilancio energetico della Terra risultato dell’aumento non solo della
concentrazione atmosferica di anidride carbonica (CO 2)
ma anche di metano, e protossido di azoto i cui livelli hanno raggiunto
valori senza precedenti almeno rispetto agli ultimi 800.000 anni. La
concentrazione di anidride carbonica è aumenta del 40% dall'età
pre-industriale, in primo luogo per le emissioni legate all'uso dei
combustibili fossili e, in seconda istanza, per le emissioni nette
legate al cambio di uso del suolo.
L'oceano ha assorbito circa il 30% dell'anidride carbonica di origine
antropogenica emessa, causando l'acidificazione degli oceani.
Una proiezione di modelli climatici, sintetizzata nell’ultima relazione
del Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici, indica che la
temperatura media della superficie del nostro globo è destinata ad
aumentare fino a 4,8 gradi centigradi durante il corso del ventunesimo
secolo. L’incertezza di questa stima deriva dall’uso di modelli con una
sensibilità differente per le concentrazioni di gas a effetto serra e
dall’utilizzo di diverse stime, provenienti da diversi istituti di
indagine e ricerca, delle future emissioni di
gas serra.
Il pensiero comunque condiviso della comunità scientifica è che il
riscaldamento globale antropogenico tutt’ora in corso, continuerà ancora
a lungo e che la maggior parte degli aspetti del cambiamento climatico
perdureranno per parecchi secoli anche se le emissioni di CO 2
saranno fermate. Questo comporta un
sostanziale impegno multisecolare per il cambiamento climatico, causato
dalle emissioni di CO2
passate, presenti e future.
Le continue emissioni di gas serra causeranno un ulteriore riscaldamento
e cambiamenti in tutte le componenti del sistema climatico. Limitare il
cambiamento climatico richiederà una riduzione sostanziale e prolungata
nel tempo delle emissioni di gas serra.
Per contrastare il cambiamento climatico a partire dal novembre 2009,
187 nazioni hanno firmato il Protocollo di Kyoto che ha come obiettivo
quello di stabilizzare la concentrazione di gas serra per evitare una
“pericolosa interferenza antropica”.
L’obiettivo fondamentale del Protocollo di Kyoto è quello di ridurre le
emissioni di gas inquinanti derivanti dall’attività umana: anidride
carbonica, metano, ossido di azoto, esafluoruro di zolfo,
perfluorocarburi e idrofluorocarburi. La prima fase è durata dal 2008 al
2012 e ha coinvolto 37 paesi più quelli dell’Unione Europea, che si sono
impegnati a ridurre le loro emissioni del 5% rispetto a quelle del 1990.
Il secondo periodo di adempimento del protocollo di Kyoto è iniziato il
1º gennaio 2013 e si concluderà nel 2020. Vi aderiscono 38 paesi
sviluppati, compresa l'UE e i suoi 28 Stati membri. Tale periodo rientra
nell'emendamento di Doha, nell'ambito del quale i paesi partecipanti si
sono impegnati a ridurre le emissioni di almeno il 18% rispetto ai
livelli del 1990. L'UE si è impegnata a diminuire le emissioni in tale
periodo del 20% rispetto ai livelli del 1990.
La principale lacuna del protocollo di Kyoto è che richiede unicamente
ai paesi sviluppati di intervenire, tralasciando i paesi in via di
sviluppo. Inoltre, considerando che gli Stati Uniti non hanno mai
aderito al protocollo di Kyoto, che il Canada si è ritirato prima della
fine del primo periodo di adempimento e che Russia, Giappone e Nuova
Zelanda non prendono parte al secondo periodo, tale strumento si applica
attualmente solo a circa il 14% delle emissioni mondiali. Oltre 70 paesi
in via di sviluppo e sviluppati
hanno tuttavia assunto vari impegni non vincolanti intesi a ridurre o
limitare le rispettive emissioni di gas a effetto serra.
Il protocollo di Kyoto è stato poi seguito dalla conferenza di Parigi,
che si è tenuta nella capitale francese dal 30 novembre all'11 dicembre
2015, la quale si è conclusa con un nuovo accordo globale sui
cambiamenti climatici che prevede un piano d'azione per limitare il
riscaldamento globale "ben al di sotto" dei 2ºC. A differenza del
passato, all’accordo di Parigi ha aderito tutto il mondo per un totale
di 195 paesi, compresi i quattro più grandi inquinatori: Europa, Cina,
India e gli Stati Uniti che si sono impegnati a tagliare le emissioni.
I principali elementi del nuovo accordo di Parigi sono:
-
obiettivo a
lungo termine: i governi hanno convenuto di mantenere l'aumento
della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C in più
rispetto ai livelli preindustriali e di proseguire gli sforzi per
limitarlo a 1,5°C. Per centrare l’obiettivo, le emissioni devono
cominciare a calare dal 2020.
Il testo
prevede un processo di revisione degli obiettivi ogni cinque anni.
Ma già nel 2018 si chiederà agli stati di aumentare i tagli delle
emissioni, così da centrare l’obiettivo del calo delle emissioni
previsto a partire dal 2020.
I paesi più
industrializzati erogheranno cento miliardi all’anno (dal 2020) per
diffondere in tutto il mondo le tecnologie verdi e decarbonizzare
l’economia.
L’accordo dà
il via a un meccanismo di rimborsi per compensare le perdite
finanziarie causate dai cambiamenti climatici nei paesi più
vulnerabili geograficamente, che spesso sono anche i più poveri.
Il consenso ed il clamore dell’accordo di Parigi è senz’altro legato al
fatto che si è voluto dare una connotazione di trasparenza per la
verifica del raggiungimento degli obiettivi prefissati. I governi
partecipanti infatti hanno accettato di comunicare - l'un l'altro e al
pubblico - i risultati raggiunti nell'attuazione dei rispettivi
obiettivi al fine di garantire trasparenza e controllo. Rimangono
tuttavia critici alcuni aspetti quali ad esempio:
-
Nessuna data per l’azzeramento delle emissioni: non è
stato fissato un calendario che porti alla progressiva, ma totale,
sostituzione delle fonti energetiche fossili. La richiesta degli
ambientalisti era quella di arrivare a una riduzione del 70 per
cento rispetto ai livelli attuali intorno al 2050, e raggiungere le
emissioni zero nel decennio successivo.
-
Potere ai produttori di petrolio: i produttori di
petrolio e gas – tanto le imprese quanto i paesi – si sono opposti e
hanno ottenuto che non si specificasse una data per la
decarbonizzazione dell’economia.
-
Controlli autocertificati: i controlli a prova dei
risultati raggiunti saranno autocertificati e non effettuati da
organismi terzi indipendenti
-
Nessun intervento su aerei e navi: i gas di scarico
di aerei e navi non sono sottoposti a controllo.
Se da un lato la conferenza di Parigi ha sancito l’impegno a livello
mondiale per una progressiva riduzione delle emissioni, le politiche
ancora da adottare per raggiungere tale obiettivo sono lasciate ai
singoli stati o alle azioni politiche delle maggiori aree
industrializzate. Tra i principali strumenti attualmente già adottati in
Europa vi è il sistema europeo di scambio di quote di emissione (European
Union Emissions Trading Scheme - EU ETS) che si applica ai settori
industriali caratterizzati da maggiori emissioni e quindi
fortemente energivori quali gli impianti termoelettrici e industriali
nel campo della produzione di energia e della produzione manifatturiera
(attività energetiche, produzione e trasformazione dei metalli, cemento,
ceramica e laterizi, vetro, carta) e gli operatori aerei, quest’ultimo
settore invece escluso dalla conferenza di Parigi.
Il Sistema è stato istituito dalla Direttiva 2003/87/CE e successive
modificazioni (Direttiva ETS) e traspone in Europa, agli impianti
industriali, al settore della produzione di energia elettrica e termica
e agli operatori aerei, il cosiddetto meccanismo di “cap&trade ”
introdotto a livello internazionale dal Protocollo di Kyoto. Tale
sistema fissa un tetto massimo al livello totale delle emissioni
consentite a ciascuno dei soggetti vincolati dal sistema stesso, ma
consente ai partecipanti di acquistare e vendere sul mercato “quote” di
emissione di CO 2
secondo le necessità, all'interno di
un limite prestabilito.
Le attività energivore dell’Unione europea non
potendo quindi funzionare senza un’autorizzazione ad emettere gas serra
si
trovano a dover monitorare annualmente le proprie emissioni e, in caso
di superamento dei limiti, a doverle compensare con quote di emissione
europee che possono essere comprate e vendute sul mercato. Con questo
sistema, si apre uno scenario per cui i gestori degli impianti possono
scegliere di investire in tecnologie a basso contenuto di carbonio o di
ottimizzare i processi dal punto di vista energetico per ridurre le
proprie emissioni, oppure acquistare quote, aumentando i costi di
produzione e perdere quindi in competitività.
Il successo nel raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle
emissioni di gas serra potrà tuttavia essere ottenuto solamente se verrà
messa in atto una strategia di riduzione delle emissioni a tutti i
livelli, non solo a livello delle grandi industrie energivore.
In una realtà come quella italiana in cui la maggior parte delle
attività produttive è rappresentata da micro, piccole e medie imprese,
il contributo che queste possono dare al raggiungimento degli obiettivi
di riduzione delle emissioni non si può considerare trascurabile.
Le
imprese, anche le più piccole, possono adottare a livello volontario
processi quali la “Carbon footprint”, letteralmente, "impronta di
carbonio" espressa in termini di kg di CO2e
(CO2 equivalente), che rappresenta l'emissione di gas (CO2, CH4,
Ossido nitroso N2O,
Idrofluorocarburi HFCs, Perfluorocarburi PFCs e Esafloruro di zolfo SF6)
attribuibile
ad un determinato prodotto, un'organizzazione o un individuo. Lavorando
sulla riduzione dell’impatto che ciascun singolo prodotto ha sulle
emissione di gas serra è possibile contribuire anche “nel piccolo” alla
riduzione globale dei mutamenti climatici.
Principale riferimento a livello internazionale per un approccio
volontario verso la riduzione della impronta climatica è la norma UNI
ISO 14064. Pubblicata nel 2006, questo standard è rivolto a qualsiasi
organizzazione o impresa che voglia quantificare le emissioni di gas ad
effetto serra connesse alle proprie attività o a specifici progetti di
riduzione.
L’obiettivo dello standard non è solo quello di quantificare le
emissioni ma prevede anche una rendicontazione dei dati verificata o
validata da un organismo terzo indipendente.
La UNI ISO 14064 è suddivisa in tre parti che posso essere utilizzate
separatamente o come un utile insieme di strumenti integrati per
rispondere ai differenti bisogni in materia di dichiarazioni e verifiche
delle emissioni dei gas ad effetto serra.
Una parte infatti dettaglia i
principi e i requisiti per progettare, sviluppare, gestire e
rendicontare gli inventari dei gas serra (GHG) a livello di
un’organizzazione; una seconda parte riguarda i progetti sviluppati
appositamente per ridurre le emissioni di GHG o aumentarne la rimozione;
una terza parte descrive l’effettivo processo di validazione o verifica.
Tale approccio non solo produce effetti sull’ambiente ma apporta
credibilità e garanzia ai processi di rendicontazione e monitoraggio, in
relazione alle dichiarazioni di emissione da parte delle organizzazioni
e dei progetti di riduzione delle stesse e, allo stesso tempo, può dare
un ritorno di immagine alle imprese che lo adottano che, a livello di
marketing, possono presentarsi come aziende “verdi”, rispettose
dell’ambiente, e quindi con una maggiore appetibilità anche per il
consumatore finale attento alle tematiche ambientali.
Sulla base delle suddette considerazione è evidente che solamente
attraverso uno sforzo congiunto a tutti i livelli sarà effettivamente
possibile ottenere un effetto sinergico per il raggiungimento degli
obiettivi di protezione e tutela dell’ambiente dai cambiamenti
climatici. Gli strumenti, seppur limitati, ci sono, e solo con uno
sforzo condiviso potranno essere efficaci.
Rita Cipollone |