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Acqua Res Publica e Partecipata
di Mirco Gigliotti
Le
persone hanno sempre dato l’acqua per scontata, pochi si chiedono da
dove venga, aprono il rubinetto e se l’aspettano, ma l’acqua non è
un’ovvietà, perché al pari dell’aria, è l’essenza di ogni forma di vita,
eppure disprezziamo le nostre risorse idriche, il che è un’idiozia visto
che dipendiamo totalmente da esse.
La
crisi dell'acqua è reale e grave. La disponibilità di acqua dolce pulita
rappresenta uno dei temi più importanti che l'umanità deve affrontare, e
sarà una questione sempre più critica per il futuro, poiché la crescente
domanda è superiore alle disponibilità e l'inquinamento continua ad
avvelenare fiumi, laghi e ruscelli. Anche se la consapevolezza del
problema è sicuramente aumentata negli ultimi anni, spesso viene
sfruttata per soddisfare gli interessi di aziende che approfittano della
mala-gestione per parlare e chiedere la “privatizzazione del servizio”,
una risposta che porta alla vendita dell’acqua solo per chi può
comprarla e non per chi ne ha bisogno, in quanto le aziende non sono
associazioni filantropiche, devono generare profitti per gli
investitori.
La cultura
dell’acqua come bene comune è stata abbandonata sotto gli impulsi della
globalizzazione, ed è stato negli anni ottanta e novanta che è avvenuto
il passaggio da una cultura dei diritti a una cultura fondata sui
bisogni. Nel 1988 a conclusione del vertice mondiale sull’alimentazione
della FAO, nella dichiarazione finale, venne riconosciuto l’accesso
all’acqua come bisogno e non come un diritto. Nel 2002 al secondo Forum
Mondiale dell’Acqua, organizzato dal Consiglio Mondiale dell’Acqua
(istituzione privata creata dalle principali compagnie multinazionali
con il sostegno della Banca Mondiale e di alcuni Stati, fra i quali la
Francia) fu sancito, nella dichiarazione finale, il principio che
l’acqua è un bisogno da soddisfare nel rispetto delle regole di
un’economia di mercato. Essendo, inoltre, un elemento strategico, gli
Stati hanno finito per condividere e accettare, dalla Conferenza di
Johannesburg nel 2002, non soltanto la sua natura di bene economico, ma
soprattutto la delega della gestione al libero mercato, preoccupandosi
di garantirne solo la proprietà pubblica.
Queste
politiche rimuovono il diritto all’acqua delle persone favorendo,
specialmente nei Paesi in via di sviluppo, il cappio del debito perché
le società multinazionali, con l’appoggio della Banca Mondiale e del
Fondo Monetario Internazionale, spingono i paesi del “Terzo Mondo”
ad abbandonare la gestione delle proprie reti idriche nazionali per
impegnarsi con i giganti dell’acqua, in modo da risultare più eleggibili
per la cancellazione del debito.
I profitti sono enormi, garantiti da un prezzo dell’acqua più elevato,
esclusione dei clienti che non possono permettersi di pagare, assenza di
trasparenza nelle operazioni commerciali, una ridotta qualità dell’acqua
e corruzione.
L’uomo sta
abusando della Terra distruggendone la facoltà di ricevere, assorbire e
immagazzinare acqua. La deforestazione e le attività minerarie hanno
compromesso la capacità dei bacini idrici di trattenere l’acqua.
Le
monoculture agricole e forestali hanno prosciugato interi ecosistemi.
L’uso crescente dei combustibili fossili ha determinato inquinamento
atmosferico e cambiamenti climatici, responsabili dell’aumento di
fenomeni quali inondazioni, cicloni e siccità. In Italia il caso del
Veneto ci fa capire l’importanza di una buona politica del territorio,
in cui foreste e boschi siano viste come risorse e come dighe naturali
che immagazzinano l’acqua nei bacini e la rilasciano lentamente sotto
forma di sorgenti e ruscelli. Il loro taglio indiscriminato, l’eccessiva
cementificazione del territorio e le monoculture hanno fatto sì che
l’acqua scorra via, distruggendo la capacità di conservazione idrica
specifica dei suoli.
Il processo
di privatizzazione in Italia ha preso avvio in seguito all’approvazione
della legge Galli (36/1994 – legge quadro per la riorganizzazione
del sistema dei servizi idrici nazionali) che ha introdotto il principio
secondo cui la tariffa deve comprendere tutti i costi di gestione,
ordinaria e straordinaria manutenzione che a quel punto ricadevano nella
fiscalità generale. Lo Stato se ne faceva carico, ma con l’introduzione
di questo principio, definito Full Recovery Cost, si spianava la strada
all’ingresso dei privati. La legge Galli cambia lo status del servizio,
mentre le modalità di affidamento del servizio stesso mutano nel 2000
con il Testo Unico degli Enti Locali. L’articolo 113 del dl 267
stabilisce che la gestione venga concessa tramite gara ad evidenza
pubblica se si tratta di società interamente private, e per affidamento
diretto se la società è misto pubblico-privata o se è a totale capitale
pubblico. In tutti e tre i casi si parla di società per azioni quindi
soggetti al diritto privato.
Il
decreto Ronchi del 2009 mette, di fatto, l’acqua sul mercato, perché
prevede che il servizio venga affidato tramite gara a società
interamente private o misto pubblico-private (di cui il privato detenga
una quota non inferiore al 40%). In deroga rimane la possibilità di
affidare il servizio a una società a totale capitale pubblico, ma solo
in deroga perché la forma di gestione ordinaria è la gara e i soggetti
prescelti sono quelli di diritto privato.
Il rischio
concreto è, ovviamente, sia un aumento delle tariffe (negli ultimi dieci
anni sono salite in media del 47%)
sia un peggioramento del servizio. Le tariffe aumenteranno perché
dovranno comprendere anche una quota destinata al profitto, detta,
“remunerazione del capitale investito”, dove il cittadino, trasformatosi
in consumatore-utente, pagherà in bolletta non solo i costi necessari
per garantire acqua di buona qualità, ma anche la remunerazione del
profitto dei gestori del servizio (si tratta del 7%). Il servizio,
gestito da una SPA che intende creare profitto, vedrà uno scarso
interesse dei gestori a promuovere e favorire comportamenti consapevoli
per il risparmio idrico da parte degli utenti/consumatori (avviando ad
esempio investimenti per il recupero dell’acqua piovana), una scarsa
convenienza a ridurre le perdite perché significherebbe riduzione del
fatturato, con un controllo delle reti che risulterà molto inefficace.
Al contrario
sono interessati a stimolare i consumi piuttosto che a promuoverne la
riduzione. Introducendo una gestione privatistica, i “nuovi” gestori
amministrano quasi tutto il ciclo dell’acqua; il servizio di captazione,
come depurarla e la tariffa. A questo punto le istituzioni comunali non
esistono più, perché nelle SPA subentrano gli amministratori, e il
cittadino non ha più rappresentanza, perde sia la capacità di capire sia
la capacità di scegliere, ed è per questo che in molte aree del paese
migliaia di cittadini protestano, proprio perché la cessione a imprese
private invece di migliorare la situazione l’ha peggiorata.
L’esperienza
del Comune di Arezzo può essere definita insoddisfacente, in
quanto la gestione “privata” dell’acqua ha significato un costante
aumento delle tariffe e la mancanza di investimenti per migliorare e
potenziare le strutture esistenti.
Il comune di Parigi, dopo 23 anni di disastrosa gestione privata, tra
corruzione, inefficienze e rincari, ha deciso di riappropriarsi della
gestione idrica a scapito delle Aziende Private.
La
gestione del servizio idrico è un campo redditizio (non a caso si parla
dell’acqua come oro blu), dove l’accesso all’acqua è divenuto un
bisogno individuale che ciascuno è chiamato a soddisfare in funzione del
proprio potere d’acquisto e tenore di vita. Per i politici poi, la
possibilità di creare consorzi e società che si occupano ciascuna di un
singolo bacino, è una manna, un vero miracolo che si materializza nella
moltiplicazione dei consigli d’amministrazione (CDA) e dei posti da
distribuire, che sono centinaia. I CDA costano, gravano sulle spese di
gestione e sul bilancio delle società che, sopravvivendo con le tariffe,
utilizzano le tasse degli utenti per foraggiare il riciclo dei
perdenti della politica.
Un altro
business legato all’oro blu è il mercato creato per spostare e vendere
l’acqua in bottiglia. Una volta le persone andavano a piedi al pozzo per
prenderla ed era gratis. Oggi si va in auto al supermercato e si paga
molto di più rispetto a quella che esce dal rubinetto. L’acqua
dell’acquedotto, inoltre, offre maggiori garanzie di qualità e
sicurezza, mentre la minerale non è considerata dal legislatore come
acqua potabile, ma come acqua terapeutica con caratteristiche
chimico-fisiche che ne consigliano un uso specifico, dunque a persone
che richiedono diete particolari, ed è per questo che molte acque
minerali, se rapportate ai parametri previsti dalle normative che
regolano il liquido che esce dai nostri rubinetti di casa, sarebbero
classificate come non potabili.
Ovviamente i
criteri di riferimento per la potabilità o meno dell’acqua, subiscono di
frequente dei mutamenti, con l’asticella che si alza sempre di più. Nel
2001 sono stati aggiornati i parametri di sicurezza delle acque
destinate al consumo umano (decreto legislativo 31/2001), rendendoli
ancora più severi, come richiesto dalle linee guida della Direttiva
Europea 98/83/CE, ma sotto le esenzioni previste dall’art. 3 del citato
dl. si nasconde la via di fuga per le acque minerali naturali e
medicinali riconosciute, per le quali la normativa non si applica.
Mentre i criteri di potabilità s’intensificano, si lascia una porta
aperta per le acque minerali. Ma il fenomeno delle deroghe non è
isolato, anzi, in certe zone d’Italia è un fenomeno inquietante, che
deroga “temporaneamente” e “comunemente” alle leggi in vigore.
Buona
parte del successo delle acque minerali, nella lotta contro l’acqua
del sindaco, è dovuto alla sempre maggiore pressione pubblicitaria.
Il marketing svolge un ruolo micidiale nell’incitare le masse al consumo
dell’acqua in bottiglia, utilizzando slogan come “l’acqua povera di
calorie” che in pratica è come dire: “acquistate barattoli con aria di
campagna”, o l’ormai famosa “acqua povera di sodio”. Tutto nasce, come
spiega Michele Carruba, consulente dell’allora ministro della salute
Girolamo Sirchia, dalla campagna promossa dal Ministero contro i cibi
ricchi di sodio che provocano ritenzione idrica. L’industria delle
minerali prese la palla al balzo inventandosi la povera particella di
sodio che vaga solitaria, ed esaltando il proprio prodotto perché
efficace nella lotta contro l’aumento di peso. Ma la presenza di sodio
nell’acqua è minima rispetto al cibo e, quindi, è quanto mai
improprio decantarne queste qualità. L’acqua povera di sodio è
indicata per chi ha problemi di ipertensione, e non ha alcun effetto
sull’aumento di peso perché queste tipologie di problemi non sono
causati dalla ritenzione idrica, anzi, chi è sovrappeso è spesso
disidratato, perché le cellule adipose contengono meno acqua delle altre.
I motivi per
dire no all’acqua in bottiglia sono molti: 1) l’acqua dell’acquedotto
offre maggiori garanzie per quanto riguarda sicurezza e controlli; 2)
imballaggi che aumentano il volume dei rifiuti; 3) aumento del traffico
su gomma per il trasporto del prodotto; 4) elevati sfruttamenti delle
sorgenti, determinano serie ripercussioni sulle falde acquifere
sotterranee, con riduzione e diminuzione della portata di molti
acquedotti; 5) molto spesso l’acqua minerale proviene dalle stesse
sorgenti usate per le acque del rubinetto, solo che costa dalle 500 alle
1000 volte di più.
Ovviamente è giusto evidenziare le criticità di una gestione pubblica
dei servizi che varie volte lascia a desiderare, essendo inefficace,
corrotta e sprecona (non in tutta Italia per fortuna), e quindi è
necessario introdurre elementi di efficienza ed efficacia che
garantiscano una gestione oculata delle risorse comuni, a maggior
ragione per un elemento, l’acqua, che è fondante e primario nella vita
dell’uomo, ma non per questo si deve mercificare l’acqua che non ha
sostituti e di cui, tutti indistintamente, debbono poter usufruire.
Una
gestione partecipata, un coinvolgimento diretto del cittadino, determina
un uso responsabile delle risorse soprattutto sul piano dei consumi, sia
per uso alimentare sia produttivo, mentre la privatizzazione non fa che
espropriare le comunità locali e il singolo dell’onere, e del diritto
alla gestione comunitaria dell’acqua. Ed è proprio in questa direzione
che si è mossa la Sentenza del Consiglio di Stato, numero 5501/2009 che,
chiamato a decidere della battaglia dei cittadini di Aprilia contro il
gestore ed erogatore dei servizi Idrici, “Acqualatina SPA” ha sancito il
diritto dei cittadini di difendere i propri interessi di utenti in
un’aula giudiziaria, sia in forma associata sia singolarmente.
L’acqua deve
rimanere pubblica, anzi
sarebbe auspicabile definire una quantità pro-capite
giornaliera minima gratuita – o a costi minimi (secondo
l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono 40 i litri giornalieri
necessari per garantire una vita dignitosa),
e far pagare il surplus a costi crescenti in relazione alla crescita dei
consumi.
A
livello nazionale dovrebbe essere ripensato il sistema tariffario
con caratteristiche di equità sociale, e orientato al risparmio della
risorsa, e va aggiunto al principio di “chi spreca e inquina paga”,
anche il principio che lo spreco non può essere più accettato. Devono
essere posti severi limiti ai consumi massimi tollerabili, oltrepassati
i quali le sanzioni devono divenire molto pesanti.
L'acqua deve essere gestita con l’apporto dei Cittadini,
l’informazione è fondamentale, quindi l’obiettivo culturale da
promuovere è la “consapevolezza” e la “responsabilità” da parte di tutti
gli utilizzatori a livello di Usi e di Consumi. Vanno promosse forme di
partecipazione che diano la possibilità agli esponenti della società
civile di partecipare ai consigli di amministrazione dei gestori (anche
senza diritto di voto).
Sia
le nuove costruzioni sia le ristrutturazioni devono avere l’obbligo
del doppio circuito, acqua potabile per gli usi alimentari e
non potabile per gli altri usi, come l’acqua piovana per gli sciacquoni
(o le Compost Toilet che non utilizzano acqua ma che, anzi, valorizzano
questi “scarti”, fornendo compost e materiali che rientrano in natura –
come l’urea, molto utile per gli agricoltori).
Promuovere e rilanciare il ritorno all’uso dell’acqua del rubinetto
nei luoghi pubblici (scuole, uffici pubblici, piazze e giardini) al
fine di contrastare il consumo dell’acqua in bottiglia (oggi sono
disponibili anche gasatori che permettono di distribuire acqua gassata
nei luoghi pubblici). Lanciare campagne che promuovano il corretto uso
dell’acqua e come non sprecarla, favorire il recupero delle
acque piovane (anche con incentivi
economici), e incoraggiando l’uso di detersivi
a basso livello di inquinamento, o nullo.
Puntare su
ricerca e innovazione, per usufruire di apparecchiature
innovative, come lo strumento realizzato dell’ingegnere indiano
Ashok Gadgil che ha inventato nella metà degli anni 90 un
depuratore d’acqua non soltanto poco costoso, efficace e resistente ma
sicuro e a basso costo di manutenzione, con un buon rendimento
energetico e di facile utilizzo. La sua invenzione permette ai raggi UV
di distruggere efficacemente il DNA di molti microrganismi patogeni
presenti nell’acqua, tra cui i batteri, i virus e le cisti protozoiche
che provocano il colera, la febbre tifoidea, la poliomelite, la diarrea
e la dissenteria.
Il professor
Eugene Cloete, microbiologo e preside della
facoltà di scienza dell'Università
Stellenbosch del Sud Africa ha sviluppato uno
speciale filtro
a forma di bustina di tè, che inserito
nel collo di una bottiglia
trasforma acqua sporca in acqua perfettamente potabile.
L’obiettivo, ambizioso, è di offrire alle comunità sub sahariane che non
hanno accesso a fonti d'acqua potabile la possibilità di bere, in modo
semplice e al costo di mezzo cent (0,005 dollari è il prezzo di un
filtro-bustina, escluse le spese per la manodopera e la distribuzione).
Innovazioni che, se opportunamente sostenute, potrebbe andare a
vantaggio di tutti.
La
gestione dell’acqua deve avvenire con il pieno coinvolgimento dei
cittadini, perché è un bene pubblico primario e perché una volta
affidata a una SPA il cittadino, cioè noi, scompariamo.
Se anche i beni “Comuni” vengono dati a privati, il senso
del Comune scompare.
Mirco Gigliotti |