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AMBIENTE ED ECONOMIA: ALCUNI LIMITI DEL PIL
di
Roberto Lofaro
«Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra
personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico,
nell'ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito
nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones, né i successi del paese
sulla base del Prodotto Interno Lordo [ndr: PIL].
Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la
pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre
autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto
le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per
coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che
valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini.
Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari,
comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste
bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per
sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si
ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della
salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o
della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della
nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del
nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene
conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei
rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro
coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra
compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve,
eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può
dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere
americani. (Robert Kennedy)».
Tre mesi prima della sua morte, nel mezzo di una campagna
elettorale che lo avrebbe probabilmente consacrato agli onori della Casa
Bianca, Robert Kennedy pronunciava questo discorso presso l’università
del Kansas.
Era il 18 marzo del 1968. Si trattò di una delle prime,
ufficiali prese di posizione da parte di un importante personaggio
pubblico di un’importante nazione contro il criterio adottato dalle
istituzioni americane per la misurazione del benessere della
federazione.
Non si trattò di una mera disquisizione dottrinale sugli
indicatori macroeconomici ed il loro utilizzo, bensì di una severa
critica sul concetto stesso di “benessere” adottato dagli Stati Uniti.
E’ altrettanto chiaro che la critica poteva riguardare - e riguarderebbe
tutt’oggi – la totalità degli altri della Terra che osservano il
medesimo standard di misurazione.
Ma cos’è il PIL?
L’Italia aderisce al Sistema europeo dei conti (c.d.
“SEC95”), e, di conseguenza, la definizione che ne da il nostro istituto
di statistica (ISTAT) discende pedissequamente dal predetto sistema.
Questo definisce il “Prodotto interno lordo ai prezzi di mercato” come
«il risultato finale dell'attività di produzione delle unità produttrici
residenti. Corrisponde alla produzione totale di beni e servizi
dell’economia, diminuita dei consumi intermedi ed aumentata dell’Iva
gravante e delle imposte indirette sulle importazioni. È altresì pari
alla somma dei valori aggiunti ai prezzi di mercato delle varie branche
di attività economica, aumentata dell’Iva e delle imposte indirette
sulle importazioni, al netto dei servizi di intermediazione finanziaria
indirettamente misurati (Sifim)». In altre e più semplici parole: è la
somma dei valori di mercato di tutto ciò che è stato prodotto in Italia
nel periodo di riferimento (normalmente, l’anno). Senza scendere troppo
nell’analisi della definizione dettata dalla scienza della contabilità
nazionale, assai meno banale di quel che può sembrare, quel che vogliamo
qui porre in evidenza è come questo indicatore sia in effetti poco utile
ai fini della misurazione del livello di benessere di una nazione.
Ci chiediamo: può il benessere misurarsi con la
produzione?
A primo acchito, la risposta a questa domanda potrebbe
apparire abbastanza ovvia. Basterebbe far mente locale ad ogni volta che
ci siamo sentiti ripetere, nei periodi di crisi economica come di
“normalità”, che «produzione significa lavoro e quest’ultimo dà da
vivere», o frasi analoghe e simili, per esser tentati a rispondere con
un netto “sì” - tutto sommato - abbastanza convinto. Ma ci siamo mai
chiesti perché produciamo? E, prima ancora, perché lavoriamo?
L’ilarità di famosi pensatori e personaggi della storia
tesi a colorare le lettere di un termine (lavoro) cui attribuiamo spesso
significato di fatica e di sacrificio, ha coniato sarcastici aforismi,
quale, per esempio, quello secondo cui «il lavoro è il rifugio di coloro
che non hanno nulla di meglio da fare» (Oscar Wilde). L’osservazione di
taluni modelli di relazione industriale come quello giapponese
potrebbero tendere, poi, a far pensare che la vita stessa si debba
identificare, in qualche maniera, con il lavoro. Seppur si possa
scorgere un frammento di verità in ciascuna di queste considerazioni,
non vi dovrebbe essere dubbio sul fatto che si lavora per vivere e non
il contrario; si potrebbe anche aggiungere che la dinamica (volontaria)
dell’uomo relativa alla propria situazione lavorativa si
giustificherebbe verosimilmente con l’obiettivo del perseguimento di una
vita migliore.
L’apparente banalità delle predette affermazioni
nasconde, in realtà, il punto di partenza di – almeno - due delicate
questioni correlate, attuali e importanti: il rapporto tra produzione e
benessere, da una parte, e la misurazione di quest’ultimo, dall’altra.
Cos’è il “benessere”?
Per definire questo termine, si potrebbe rispolverarne
un’antica accezione, che stabilirebbe un collegamento forte con il
concetto di “salute”. Quest’ultimo, tuttavia, dovrebbe essere
opportunamente inteso in un senso più ampio di quello - classico - che
si riferisce soltanto all’aspetto fisico, che coinvolga tutti gli altri
aspetti dell'essere (emotivo, mentale, sociale e spirituale). In tal
senso, appaiono particolarmente utili definizioni come quella espressa
nell’ambito della prima Conferenza Nazionale di Educazione Sanitaria
(1966), secondo cui «la salute è una condizione di armonico equilibrio
funzionale, fisico e psichico dell’individuo dinamicamente integrato nel
suo ambiente naturale e sociale». Salute – in senso ampio - e benessere,
quindi, sono in rapporto di proporzionalità diretta, la prima essendo
determinante essenziale della seconda.
La definizione appena citata risulta particolarmente
interessante anche per il fatto di esplicitare l’importanza
dell’«ambiente naturale», quale condizione vitale, unitamente
all’ambiente sociale, che interagisce con le sfere funzionale, fisica e
psichica delle persone, contribuendo a determinarne, in ultima analisi,
lo stato di salute. In breve: il benessere dipende anche dalla qualità
dall’ambiente naturale.
Vediamo, adesso, quali risvolti vi siano in termini di
benessere collettivo nell’interazione tra produzione ed ambiente.
Facciamo parlare alcuni esempi. Quando si costruisce una
casa in violazione delle norme a tutela del paesaggio o si abbandonano
rifiuti in località agresti, si compiono attività che generano domanda
per beni e servizi economici (progettazione e costruzione edili, nel
primo caso; rimozione e bonifica dell’area interessata, nel secondo),
che determinano, come sappiamo, una crescita del PIL. Tali attività,
tuttavia, intaccano il patrimonio naturale, determinando una
modificazione del paesaggio e la limitazione della fruizione del
medesimo da parte della collettività: il benessere collettivo
diminuisce.
La discrasia tra l’aspetto economico e quello ambientale
non si annulla neppure nei casi in cui pure non v’è alcun
disattendimento delle prescrizioni legislative, nemmeno di quelle
specificamente ambientali. Due esempi emblematici: l’utilizzo in
concessione di aree demaniali per l’installazione di insediamenti
turistici e l’esercizio dell’attività di cava. Nelle fattispecie, lo
sfruttamento economico del bene ambientale, che genera reddito e che,
quindi, accresce il PIL, causano una distrazione, nel primo caso, o un
vero e proprio e definitivo depauperamento ambientale e deturpamento
paesaggistico, nel secondo, che diminuiscono il valore dell’ambiente
naturale talora in maniera notevole e non reversibile.
In tutti questi casi, se volessimo proporre un’identità
metrologica per il fenomeno produttivo ed il benessere collettivo, il
PIL, a stretto rigore, anziché crescere, dovrebbe rimanere esattamente
invariato.
Schematicamente ed esemplificativamente, possiamo
evidenziare quanto segue.
Il PIL:
·
contabilizza il valore di attività di ripristino di danni
ambientali provocati dall’uomo, come, per esempio, quelli per: la
bonifica di siti inquinati, l’eliminazione di cause di inquinamento, gli
interventi di spegnimento degli incendi boschivi dolosi, la
riforestazione delle aree incendiate, la costruzione e la gestione delle
discariche
·
non contabilizza il valore di alcune attività in favore
dell’ambiente, come, per esempio, le numerose svolte dalle associazioni
non profit ovvero il recupero e il riutilizzo dei rifiuti effettuato in
ambito domestico;
·
non contabilizza i servizi forniti dall’ambiente che non
transitano attraverso il mercato, come, per esempio: il panorama su un
ambiente intatto; l’incanto della vista di un’alba o di un tramonto; il
relax di una passeggiata in un bosco; il beneficio di una “tintarella”
sulla spiaggia assolata; il divertimento di una nuotata in mare; la
rigenerante immersione in una cascata di montagna; il dissetante
sorseggio dell’acqua di una sorgente naturale; il romanticismo di una
notte stellata;
·
contabilizza il valore delle risorse ambientali usate o
utilizzate nella produzione secondo criteri o modalità che intaccano lo
stock di capitale naturale. Si tratta, in taluni casi, di conseguenze
totalmente o parzialmente reversibili, come l’inquinamento luminoso,
acustico e olfattivo, mediante interventi che, al pari dei precedenti,
dovrebbero essere scomputati dal PIL; in molti altri casi gli effetti
sono difficilmente reversibili o irreversibili: il depauperamento delle
risorse ittiche a causa delle attività di pesca non regolare; il
depauperamento delle risorse forestali a causa delle attività di
disboscamento “selvaggio” e di incendio doloso; il deturpamento
paesaggistico causato dalle predette attività nonché del fenomeno
dell’abusivismo edilizio; lo sfruttamento del suolo e del sottosuolo per
via delle attività estrattive e minerarie; l’inquinamento atmosferico e
l’effetto serra; l’estinzione di specie animali e vegetali.
C’è da evidenziare, per completezza di ragionamento, che,
per converso, la diminuzione del PIL non ha, in ottica etico economica e
ambientale, necessariamente un significato negativo. Si pensi, per
esempio, al minor uso dell’energia a seguito della diffusione di lampade
ed elettrodomestici più efficienti o anche al minor acquisto di
carburante dovuto al mutamento delle abitudini dei cittadini verso un
maggior ricorso al mezzo pubblico o all’acquisto di automobili più
ecologiche. In questi casi si assisterebbe, ceteris paribus, ad una
diminuzione del PIL per un importo corrispondente all’energia e ai
carburanti non consumati (ove questi siano prodotti interamente
all’interno), a beneficio dell’ambiente e, quindi, della collettività.
Lungi comunque dal rappresentare, a parere di chi vi
scrive, il benessere collettivo di una nazione, il PIL, rettificato
mediante l’applicazione di tali variazioni in aumento e in diminuzione,
costruirebbe un numero un po’ meno ipocrita e, sicuramente, più utile ai
fini delle scelte e delle strategie di politica economica di un paese.
(Dic. 2010)
Roberto Lofaro |