il biorisanamento nella bonifica dei siti
inquinati:
Tecniche di Campo e di Caratterizzazione Microbica
di Chiara Drius
INDICE
TOC
\o "1-4" \h \z \u
1
Il
biorisanamento nella bonifica dei siti contaminati.
PAGEREF _Toc327523453 \h 3
1.1
Trattamenti biologici: principi generali del biorisanamento
PAGEREF _Toc327523454 \h 3
1.2
Bonifica dei siti contaminati: caratterizzazione e biomonitoraggio
PAGEREF _Toc327523455 \h 7
1.3
Inquinamento da solventi clorurati
PAGEREF _Toc327523456 \h 10
1.4
Attività
microbiche dei principali batteri decloranti nel biorisanamento di
solventi clorurati
PAGEREF _Toc327523457 \h 13
2
Principali
tecniche di biorisanamento e tecniche molecolari di caratterizzazione
microbica
PAGEREF _Toc327523458 \h 18
2.1
Tecniche
di biorisanamento
PAGEREF _Toc327523459 \h 18
2.2
Tecniche
di caratterizzazione microbica (biomonitoraggio)
PAGEREF _Toc327523460 \h 22
2.2.1
FISH
PAGEREF _Toc327523461 \h 22
2.2.2
CARD-FISH
PAGEREF _Toc327523462 \h 25
2.2.3
PCR
PAGEREF _Toc327523463 \h 28
3
Considerazioni conclusive
PAGEREF _Toc327523464 \h 30
Il presente lavoro tratterà della possibilità, delle
modalità e degli studi preliminari necessari ad effettuare un intervento
di biorisanamento in situ, il tutto con particolare riferimento alle
tecniche molecolari utilizzate per monitorare sia l’effettiva presenza
nel sito di microrganismi rilevanti per il processo di biorisanamento
sia l’andamento del processo biodegradativo in atto.
Il biorisanamento rappresenta l’applicazione dei
trattamenti biologici alla bonifica di suolo, sottosuolo e acque
sotterranee inquinati e,
in base alla scala di valutazione riportata dall’ente
governativo statunitense per il controllo ambientale, l’Environmental
Protection Agency (E.P.A.), è la tecnologia di bonifica più
promettente, con basso rischio di effetti secondari nei sistemi
ambientali in cui viene applicata.
Con il termine biorisanamento si intende l’insieme delle
tecnologie in cui microrganismi naturali, o geneticamente modificati,
nonché piante o altri elementi con attività biologica, vengono
utilizzati per ridurre la presenza di composti tossici e pericolosi
mediante processi condotti in condizioni controllate che portano alla
conversione degli inquinanti in sostanze innocue, o quantomeno alla
diminuzione della concentrazione della sostanza inquinante, fino al
limite consentito dalla legge, sia in sistemi acquatici che terrestri.
Poiché i microrganismi hanno la capacità naturale di
degradare specifici composti organici, il biorisanamento è basato
sull’accelerazione o l’attivazione dell’attività microbica mediante il
controllo della concentrazione di nutrienti (azoto e fosforo) e
l’aggiunta di altri reagenti (fattori di crescita) che favoriscono la
degradazione del composto organico tossico in prodotti finali inorganici
e innocui, CO2 e H2O, oppure che inducono
modificazioni che non portano alla mineralizzazione, ma trasformano il
composto originario in composti organici diversi. Anche se le comunità
naturali di microrganismi dimostrano estrema versatilità
nell’attivazione della biodegradazione, essendo attive in habitat e
condizioni molto differenti, si individuano quattro classi principali di
reazione, cioè percorsi metabolici:
• ossidazione aerobica. Avviene in presenza di ossigeno,
che funge da accettore finale di elettroni; a seguito di tale processo,
nel sottosuolo si assiste ad una diminuzione della concentrazione di
ossigeno e ad un aumento della concentrazione di anidride carbonica.
• ossidazione anaerobica. In carenza di ossigeno, altri
composti possono fungere da accettori di elettroni, rendendosi
disponibili al modificarsi del potenziale di ossidoriduzione (ORP) del
sottosuolo. Le reazioni coinvolgono in sequenza, al diminuire dell’ORP,
ossigeno, nitrati, manganese (IV), ferro (III), solfati,
metano e anidride carbonica.
• declorurazione riduttiva anaerobica. Comporta la
sostituzione di un atomo di cloro con un atomo di idrogeno e può essere
operata mediante processi diretti o di cometabolismo. Il composto
alogenato funge da accettore di elettroni. Questo trattamento viene
impiegato in particolare per composti ad elevato grado di sostituzione,
quali PCE, TCE e DCE (i composti meno clorurati, come il cloruro di
vinile, possono essere degradati attraverso processi aerobici di
ossidazione). Ad esempio, la degradazione del PCE procede per successive
reazioni di sostituzione di un atomo di cloro con idrogeno fino alla
formazione di cloruro di vinile ed etilene (Fig.1).
Fig.1
- Schema del processo di declorazione riduttiva del PCE ad etilene.
• cometabolismo. In questo processo un composto, il
substrato secondario, viene degradato da un enzima prodotto da organismi
impegnati in altre reazioni e la degradazione del composto inquinante è
considerato un evento fortuito, da cui i microrganismi non traggono
energia.
Premesso questo, per valutare la possibilità di applicare
un determinato trattamento biologico ad un sito contaminato è
fondamentale un’attenta e preliminare caratterizzazione dell’inquinante
e dell’ambiente in cui esso si colloca. Infatti, la messa a punto dei
processi di bio-recupero comprendono una fase di caratterizzazione
dell’inquinante (composizione, concentrazione, disponibilità, tossicità,
caratteristiche chimico-fisiche), una fase di caratterizzazione
idrogeochimica (proprietà geologiche in generale, entità e direzioni dei
flussi, pH, temperature, condizioni redox) ed una fase di
caratterizzazione microbiologica (attività metaboliche, diversità
catabolica, potenziale bio-degradativo, specie...). La struttura
molecolare e le caratteristiche chimico-fisiche dei contaminanti
governano l’attivazione e la cinetica della biodegradazione e quindi la
possibilità di realizzare l’intervento di bonifica in un tempo
ragionevole. Invece, popolazioni microbiche autoctone, presenza di
nutrienti, potenziale di ossidoriduzione, ossigeno disciolto, accettori
di elettroni, umidità, pH e temperatura sono importanti nel definire la
possibilità di attivare e sostenere i processi di biorisanamento ed è
per questo che devono essere quantificati prima di progettare gli
interventi.
In generale, sulla base del luogo nel quale viene
effettuato il trattamento di bonifica, si possono distinguere due tipi
di interventi.
-Interventi
In situ: nei quali il recupero della specifica matrice
contaminata ha luogo nella sua sede geologica.
-Interventi
Ex-situ:
nei quali il trattamento della matrice ambientale
contaminata (aria, acqua o suolo) avviene in un ambiente diverso da
quello naturale. Tali processi sono ulteriormente classificati a seconda
che il trattamento avvenga in prossimità del luogo di origine della
matrice contaminata (on site) o preveda il trasporto verso un sito di
trattamento esterno (off site).
Tendenzialmente questi ultimi sono caratterizzati da una
maggiore flessibilità nella fase di controllo e gestione del processo
alla base della decontaminazione, ma producono un impatto ambientale
maggiore e limitano la fruibilità del sito durante le fasi del processo
di bonifica.
Nel caso specifico di interventi di biorisanamento, per i
trattamenti in situ è richiesto il controllo dei processi microbiologici
nel sottosuolo, mentre per i trattamenti ex situ tali controlli devono
essere fatti in reattori di superficie.
Le
tecnologie di trattamento nell'ambito del risanamento biologico
includono: attenuazione naturale, Bioaugmentation e
Biostimulation.
L’attenuazione naturale è l’insieme di tutti quei
processi fisici, chimici e biologici che si verificano nel sottosuolo
senza l’intervento umano e che concorrono a ridurre la massa, la
tossicità, la mobilità, il volume o la concentrazione delle sostanze
contaminanti presenti. I fenomeni di attenuazione naturale si basano
quindi essenzialmente sulla trasformazione dei contaminanti attraverso
le trasformazioni abiotiche e/o biotiche (biodegradazione) e la
riduzione della mobilità dei contaminanti attraverso l’adsorbimento
sulla matrice solida del terreno. L’Attenuazione Naturale Controllata
utilizza tali processi spontanei per perseguire specifici obiettivi di
bonifica di un sito contaminato, attuando al contempo un programma di
monitoraggio dei fenomeni spontanei che possono avvenire nel suolo e nel
sottosuolo, i quali consentono la diminuzione del livello di
contaminazione. L'attenuazione naturale è il risultato di più fenomeni
di tipo meccanico (connessi alla dispersione del contaminante ed alla
sua diluizione), di tipo chimico-fisico (con effetto sul decadimento
naturale del contaminate) e di tipo biologico (connessi all'attività
degradativa dei microrganismi). Talvolta questo processo può essere
sufficiente ad attenuare lo stato di contaminazione; in una tale
situazione sarà fondamentale identificare e monitorare i meccanismi di
decontaminazione ed infine, laddove necessario, implementare il tasso di
attenuazione intervenendo con processi di stimolazione.
Gli altri due approcci contemplano, appunto, la
possibilità di stimolare l'attività microbica implementandola (Bioaugmentation,
Biostimulation).
La biostimolazione consiste nell’aggiunta di nutrienti,
quali azoto e fosforo, di accettori di elettroni, come l’ossigeno, per
le reazioni aerobiche, o di donatori di elettroni, quali metano,
lattato, H2 per le reazioni di
riduzione.
Nella bioaugmentation, invece, microrganismi alloctoni
del sito contaminato vengono aggiunti per stimolare i processi di
biodegradazione. I microrganismi possono essere selezionati da
popolazioni già presenti nel sito, dopo aver arricchito la biomassa in
reattori di laboratorio o di campo, oppure possono essere ottenute da
varietà isolate in laboratorio da batteri noti per la capacità di
degradare specifici composti.
L’obiettivo ultimo della progettazione di sistemi di
biorisanamento sia in situ che ex situ consiste dunque
nel creare o mantenere le condizioni fisiche (come temperatura ed
umidità) adatte allo sviluppo dei microrganismi e nel fornire adeguate
quantità di reagenti ed ammendanti per favorire l’attacco microbico.
Va comunque ricordato che, per verificare la possibilità
di applicare tali tecnologie, è necessario condurre test di laboratorio,
anche alla scala di microcosmo. Questi test servono a definire la
presenza nel sito inquinato di popolazioni microbiche in grado di
degradare i contaminanti di interesse e le migliori condizioni operative
con cui progettare il biorisanamento (pH, intervallo di temperatura,
percentuale di umidità, necessità di apportare nutrienti e altre fonti
di energia o carbonio per sostenere la crescita microbica delle
popolazioni in grado di degradare i composti di interesse).
È quindi possibile affermare che i processi di
biorisanamento offrono diversi vantaggi: sono processi naturali a basso
costo, richiedono un maneggiamento minimo dei siti contaminati e quindi
anche i possibili impatti ambientali sono ridotti; va comunque ricordato
che si tratta di processi limitati ai composti biodegradabili e che i
prodotti del processo biodegradativo possono non essere innocui. In
questi casi è necessaria non solo l’analisi della comunità microbica e
delle eventuali interazioni metaboliche tra i diversi microrganismi
residenti, ma anche un approfondito studio ingegneristico del processo
per evitare eventuali dispersioni nell’ambiente dei prodotti secondari
del metabolismo.
Il biorisanamento abbiamo visto essere l’applicazione dei
trattamenti biologici all’interno del processo di bonifica dei siti
inquinati.
In generale per bonifica (o recupero) dei siti
contaminati si intende l’insieme degli interventi messi in atto al fine
di ripristinare le condizioni ambientali proprie dello specifico
ecosistema. Tali interventi devono includere:
• individuazione e caratterizzazione delle fonti di
inquinamento;
• rimozione o confinamento della sorgente, finalizzato a
limitare la dispersione nell’ambiente dei contaminati;
• applicazione di processi chimici, fisici o biologici o
di una opportuna combinazione di essi.
L’iter amministrativo per le bonifiche (ex D.Lgs 152/06)
dei siti contaminati prevede essenzialmente sette fasi (Fig.12) quali:
Indagine preliminare
Comunicazione d'accertato superamento delle Csc
Piano della caratterizzazione
Analisi di rischio (calcolo delle CSR)
Piano di monitoraggio
Progetto di bonifica
Certificazione d'avvenuta bonifica
Fig.12.
:Iter amministrativo per interventi di bonifica ex D.Lgs 152/06. (C)
concentrazione,(CSC) concentrazioni soglia di contaminazione, (CSR)
concentrazioni soglia di rischio del contaminate in oggetto
La
valutazione dell’applicabilità ad un sito di un intervento di
biorisanamento viene definita in fase di caratterizzazione del sito in
oggetto, caratterizzazione effettuata, come già detto, sia dal punto di
vista idrogeologico che chimico-fisico e biologico. Ai fini della
valutazione di applicabilità è altresì richiesta la definizione di un
adeguato modello concettuale del sito. A tale riguardo è di fondamentale
importanza disporre di protocolli operativi che, sulla base delle
informazioni preesistenti disponibili e sulla acquisizione di parametri
attraverso misure su campo, consentano di indirizzare la valutazione
della migliore tecnologia disponibile, ottimizzando la qualità e la
quantità di informazioni da raccogliere e minimizzando costi e tempi
della scelta e progettazione degli interventi.
Un protocollo di questo tipo è sostanzialmente una
procedura di caratterizzazione che verifica le ipotesi di intervento
attraverso specifiche misure e test, tenendo conto della tipologia di
contaminanti considerata, della o delle tecnologie di bonifica che si
intendono valutare e delle caratteristiche del sito in oggetto.
Un protocollo di valutazione richiede tipicamente che una
tale fase di caratterizzazione sia condotta e vada a collocarsi
nell’ambito delle attività necessarie alla progettazione preliminare
dell’intervento.
La procedura prevista consta di quattro fasi distinte; la
prima fase è un’ampia ricognizione delle caratteristiche del sito, si
utilizzano informazioni sia di tipo storico, climatico e logistico che
di tipo chimico, geochimico, idrogeologico.
La seconda fase consiste in una più dettagliata
caratterizzazione attraverso attività di campo con misure ad hoc della
distribuzione dei contaminanti e delle caratteristiche idrogeologiche e
geochimiche del sito, si valuterà l’area occupata dal plume di
contaminazione con ubicazione e distribuzione della sorgente primaria (è
la fonte di inquinamento, la cui rimozione è precedente alla bonifica) e
delle eventuali sorgenti secondarie (identificate con i comparti
ambientali, nella zona insatura o satura, oggetto della contaminazione)
nonché le vie di migrazione dei contaminati e i processi che le
influenzano.
La terza fase consiste negli studi di microcosmo, ovvero
in prove di laboratorio condotte incubando il materiale acquifero e/o
l’acqua di falda in condizioni ambientali differenti, sia naturali che
modificate. L’esecuzione di una serie appropriata di microcosmi è un
punto chiave per la comprensione dell’efficacia di un intervento di
accelerazione della decontaminazione biologica.
La quarta ed ultima fase prevede un test di campo per
confermare in situ le indicazioni ricevute dagli studi di microcosmo. Al
termine di quest’ultima fase e ove non esistano le condizioni per
attendere l’attenuazione naturale, il protocollo consente di valutare se
esistano le premesse per un’efficace accelerazione del biorisanamento in
situ attraverso l’aggiunta di ammendanti all’acqua di falda.
È durante la seconda fase, quella di dettagliata
caratterizzazione del sito, che si effettua il biomonitoraggio, ovvero
la determinazione della composizione microbica dell’acquifero
contaminato, passaggio di fondamentale importanza ai fini del
biorisanamento in quanto sono proprio i microrganismi autoctoni i
fautori della degradazione/trasformazione dei contaminanti. Nel caso
specifico del biorisanamento anaerobico di solventi clorurati è stata
più volte messa in evidenza una stretta correlazione tra attività
declorante e microrganismi presenti; in particolare, la completa
declorazione riduttiva di eteni clorurati è stata positivamente
correlata alla presenza nell’acquifero di microrganismi appartenenti al
genere Dehalococcoides.
L’utilizzo, dunque, di tecniche che consentano di
individuare/quantificare Dehalococcoides e/o altri microrganismi
rilevanti per il processo di biorisanamento in situ può consentire un
più accurato monitoraggio e controllo del processo biodegradativo. In
linea generale, la definizione della composizione microbica di biomasse
di interesse biotecnologico viene effettuata tramite approcci
tradizionali coltura-dipendenti o attraverso l’applicazione di metodi
molecolari che esulano dall’isolamento in coltura pura e permettono di
identificare e quantificare specie microbiche di interesse direttamente
nelle matrici di origine.
Il biomonitoraggio dei batteri decloranti può essere
fatto sia su campioni ambientali (acqua sotterranea e suolo contaminati)
che su arricchimenti in scala di laboratorio (ad es. microcosmi).
I solventi clorurati fanno parte di una classe di
composti organo alogenati ampiamente diffusi nell’ambiente che per le
loro peculiari caratteristiche chimico-fisiche rappresentano un pericolo
immane per la conservazione del territorio, delle risorse idriche e di
conseguenza per la salute umana, soprattutto a causa della presunta o
accertata cancerogenicità di alcuni di essi (es: cloruro di vinile,
cloroformio, tetraclorometano, 1,2-dicloroetano). Nell’uomo sono
assorbiti prevalentemente per via respiratoria, ma è possibile anche
un’introduzione per via cutanea o digestiva; gli effetti tossici
riguardano principalmente il fegato, il rene ed il sistema nervoso
centrale. L’inquinamento da solventi clorurati deriva dal loro massiccio
impiego in campo civile e industriale (sgrassaggio di superfici
metalliche, smacchiatura di tessuti, lavorazione di plastica, gomma,
carta, produzione di aerosols, adesivi, vernici) e da operazioni di
smaltimento improprio. A causa della scarsa biodegradabilità di questi
composti, gli effetti sull’ambiente di contaminazioni passate sono
tuttora presenti; ad oggi sono da considerarsi contaminanti ubiquitari
di suoli, acque superficiali ed acque sotterranee.
In Italia, la presenza di composti organo clorurati nei
suoli e nelle acque (sotterranee e superficiali), nonché i valori limite
accettabili negli scarichi, è regolamentata dal D.Lgs. 152/2006 che ha
unificato e sostituito la previgente normativa (essenzialmente il D.Lgs.
152/1999 e s.m.i. e D.M. 471 del 25/10/99 ).
Il destino dei solventi clorurati nell’ambiente è
fortemente dipendente dalle loro peculiari caratteristiche
chimico-fisiche, quali la densità nettamente maggiore di quella
dell’acqua, la limitata solubilità in acqua ed un’elevata volatilità.
Questi contaminanti vengono più generalmente descritti con l’acronimo di
“Dense NonAqueous Phase Liquid” (DNAPL), in quanto si accumulano
stratificandosi sulle zone impermeabili del fondo degli acquiferi. La
loro elevata volatilità fa si che possano contaminare le acque
superficiali essenzialmente in prossimità dei siti di sversamento e che,
nella zona insatura del suolo, tendano a ripartirsi negli interstizi
occupati dalla fase gassosa. Più facilmente, però, essi interessano le
falde acquifere, in quanto la loro densità, più alta di quella
dell’acqua, e la viscosità considerevolmente minore ne favoriscono il
movimento verticale verso le falde, dove si depositano in fase separata.
Il trasporto degli inquinanti attraverso il suolo fino
alle falde è un processo complesso e fortemente dipendente dalle
caratteristiche idrogeologiche del sito interessato, che può comunque
essere descritto con la coesistenza di vari meccanismi, quali (Tab.1):
- convezione: trasporto di composti solubili sotto
l’azione di un gradiente di potenziale idraulico;
- dispersione: variazione di concentrazione dovute a
differenti velocità di flusso nel mezzo poroso;
- adsorbimento: ripartizione di un composto tra la fase
mobile acquosa e la fase solida fissa;
- trasporto di sostanze immiscibili: movimento di
composti insolubili come fase separata da quella acquosa in movimento.
- diffusione: migrazione di molecole di soluto
all’interno di pori o matrici solide sotto l’azione di un gradiente di
concentrazione.
Processo |
Descrizione |
Funzione di |
Effetto |
Convezione |
Movimento dei soluti a
seguito del moto di insieme della falda |
Proprietà dell’acquifero
(conducibilità idraulica, porosità effettiva e gradiente
idraulico). Indipendente dalle proprietà dei contaminanti |
Principale meccanismo
attraverso cui i contaminanti si muovono nel sottosuolo |
Dispersione |
Mescolamento dovuto al
movimento della falda ed alla eterogeneità dell’acquifero |
Proprietà dell’acquifero e
scala di osservazione. Indipendente dalle proprietà dei
contaminanti |
Provoca allargamento del
pennacchio longitudinale, trasversale e verticale. Riduce la
concentrazione dei soluti |
Diffusione |
Allargamento e diluizione
dei contaminanti a causa della diffusione molecolare |
Proprietà dei contaminanti
e gradienti di concentrazione. E’ descritta attraverso la legge
di Fick |
Diffusione dei
contaminanti da zone a concentrazione più elevata a zone a
concentrazione meno elevata. Generalmente minore rispetto alla
dispersione |
Ricarica
(Semplice Diluizione) |
Movimento dell’acqua
attraverso la water table nella zona satura |
Proprietà dell’acquifero,
profondità dell’acquifero, interazione con acque superficiali,
condizioni climatiche |
Provoca la diluizione del
pennacchio di contaminazione e può eventualmente rifornire
accettori di elettroni (ad esempio ossigeno disciolto |
Assorbimento |
Concentrazione del
contaminante all’interfaccia solido/liquido e/o all’interno dei
pori |
Proprietà dell’acquifero
(contenuto in carbonio organico e minerali argillosi, area
superficiale e porosità) e proprietà dei contaminanti
(solubilità, idrofobicità, coefficiente di partizione acqua/ottanolo) |
Tende a ridurre la
velocità apparente di trasporto e a rimuovere soluti dall’acqua
di falda attraverso adsorbimento sul materiale acquifero |
Volatilizzazione |
Volatilizzazione dei
contaminanti disciolti in acqua di falda nella fase gassosa (soil
gas) |
Proprietà dei contaminanti
(pressione di vapore e costante della legge di Henry) |
Rimuove i contaminanti
dall’acqua di falda trasferendoli nella fase gassosa del suolo |
Biodegradazione |
Reazioni di
ossidazione/riduzione mediate da microorganismi che trasformano
i contaminanti |
Geochimica dell’acqua di
falda, popolazioni microbiche e proprietà dei contaminanti. Può
avvenire in condizioni aerobiche e/o anaerobiche |
Può comportare la completa
degradazione dei contaminanti. E’ tipicamente il processo più
importante che agisce realmente nella riduzione della massa dei
contaminanti |
Degradazione abiotica |
Trasformazioni chimiche
che degradano i contaminanti senza l’intervento dei
microorganismi |
Geochimica dell’acqua di
falda e proprietà dei contaminanti. |
Può risultare nella
parziale o completa degradazione dei contaminanti. Usualmente le
velocità sono molto inferiori a quelle della biodegradazione |
Ripartizione da Fase
Liquida Non Acquosa (NAPL) |
Solubilizzazione dei
contaminanti da NAPL nell’acqua di falda. I NAPL, sia in fase
mobile che residua, tendono ad agire come sorgente persistente
di contaminazione delle falde |
Proprietà dell’acquifero e
proprietà del contaminante. Inoltre dipende fortemente dalla
modalità di flusso della falda attraverso o intorno al NAPL |
La dissoluzione di
contaminanti da NAPL rappresenta una delle sorgenti primarie di
contaminanti disciolti nelle acque di falda |
Tab.1
- Principali processi che influenzano il destino e il trasporto dei
soluti
In generale, i solventi clorurati, una volta sversati,
migrano velocemente attraverso il suolo fino a raggiungere la falda dove
continuano la discesa fino a depositarsi sullo strato permeabile di
fondo, formando, come già visto, un “pool” di fase separata. Durante la
migrazione verso il basso, una porzione di fase separata viene
intrappolata nelle porosità della fase solida creando una fase
“immobile” distribuita lungo tutta la verticale. Sia durante la
permeazione nel suolo che dai depositi alla base delle falde, gli
inquinanti si disciolgono nell’acqua causandone una contaminazione la
cui entità è funzione della loro solubilità, generalmente non elevata, e
della superficie di interfaccia DNAPL/acqua. Il movimento dei
contaminanti disciolti lungo la direzione di flusso della falda può
essere successivamente rallentato dalla possibilità di interazione con
le particelle solide presenti nell’acquifero. Risulta quindi che, tali
sostanze, se rilasciate nel sottosuolo, possono ripartirsi in una forma
di equilibrio dinamico fra la matrice solida, quella gassosa e quella
liquida.
I composti organo clorurati, in ambiente, possono essere
degradati sia in condizioni aerobiche che in condizioni anaerobiche. La
capacità di svolgere uno dei due processi dipende dalle condizioni redox
esistenti nel sistema, dalla composizione microbica e dal grado di
alogenazione del composto in esame. Numerosi xenobiotici possono essere
soggetti a biotrasformazioni da parte di consorzi microbici naturali
attraverso processi di tipo metabolico o cometabolico. Il primo caso si
verifica quando l’organismo consuma il composto per soddisfare i proprio
bisogni catabolici ed anabolici, rispettivamente energetici e di
carbonio organico. Nel caso di processo cometabolico la
biotrasformazione avviene in maniera fortuita, senza cioè che
l’organismo ne ricavi energia o materiale per la biosintesi.
I principali alcani clorurati sono l’1,1,1 e
l’1,1,2-tricloroetano e l’1,1 e l’1,2-dicloroetano, i quali,
degradandosi in molecole più semplici, tramite una successiva
declorazione, danno luogo ad etano.
Tra gli alcheni ci sono invece il tetracloroetilene o
percloroetilene (PCE) ed il tricloroetilene (TCE o trielina) che,
degradandosi in elementi meno clorurati, portano alla formazione di
trans-1,2 dicloroetilene e cis-1,2 dicloroetilene (cis-1,2DCE), 1,1
dicloroetilene (1,1DCE), cloroetilene o cloruro di etilene o cloruro di
vinile (VC) ed infine etilene. PCE e TCE sono i maggiori contaminanti
acquiferi, ma un grosso problema è rappresentato anche da solventi con
un minor grado di clorurazione, come DCE e VC.
I
batteri detti “decloranti” sono tra i microrganismi che prendono parte
alla suddetta biotrasformazione dei solventi clorurati, la cinetica di
degradazione può avvenire in presenza o in assenza di O2.
Declorazione aerobica
A causa dell’elevato stato di ossidazione e
elettronegatività dei solventi clorurati la dealogenazione avviene in
mezzi a basso potenziale redox, la presenza di nitrato, solfato e O2,
innalzando il potenziale, inibisce quindi il processo seppure
in modo variabile a seconda delle condizioni biologiche.
La velocità di biodegradazione è inversamente
proporzionale al numero di atomi di cloro sulla molecola ed è possibile
la degradazione aerobica dei solventi clorurati a basso grado di
clorurazione tramite sostituzione nucleofila dell’alogenuro, con
formazione dell’alcol derivato. Quest’ultimo, a sua volta, viene
successivamente ossidato, entrando quindi nei cicli catabolici ed
anabolici dell’organismo stesso, o in quelli di altri presenti anch’essi
nella coltura. E’ noto un unico caso in laboratorio di degradazione
aerobica del PCE con mineralizzazione a CO2+HCl+H2O.
Declorazione anaerobica
E’ il processo più frequente nel biorisanamento di
solventi clorurati poiché avviene a basso potenziale di ossidazione.
La velocità di biodegradazione è direttamente
proporzionale al numero di atomi di cloro sulla molecola.
In Figura 2 si può
notare come la cinetica di degradazione dei solventi clorurati produca
HCl, questo abbassa il pH del mezzo al di sotto del valore ottimale. Ciò
può essere evitato con l’iniezione di bicarbonato di sodio nel mezzo di
reazione. Il grafico successivo (Fig. 4) mostra la variazione di
concentrazione dei prodotti che si succedono nella cinetica di
degradazione a partire dalla sorgente del plume. Come si nota alla fine
del processo, avendo sufficiente concentrazione di donatori di
elettroni, si ha formazione dell’innocuo Etilene.
Fig.2
-
cinetica di degrazione anaerobica da PCE a TCE, cis-DCE, VC e infine
etilene.
In
Figura 3 i notano i suddetti processi che coinvolgono alcuni batteri
decloranti.
PCE=============>TCE============>cDCE===========>VC============>Etilene
====================================================èxxxxxxxxxxxxxxxxè
Dehalococcoides Ethenogenes
Strain 195
Xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxè==============================èxxxxxxxxxxxxxxxxxè
Dehalococcoides Spp.
Strain FL2
Xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxè==============================è
Dehalococcoides Spp.
Strain BAV1
===============================è
Dehalococcoides Spp.
Strain VS
================================================è
Dehalococcoides Spp.
Strain GT/KB1-VC
=================================ètransDCE
Dehalococcoides Spp.
Strain CBDB1
=================================ècis-DCE
Geobacter Spp., Desulfuromonas spp., Dehalobacter
spp., Desulfitobacter spp., Sulfurospirillum spp |
Fig.3-
Ruolo dei diversi ceppi di batterici nel processo di declorazione
riduttiva anaerobica del PCE e TCE ad etilene. Le linee = e x indicano
rispettivamente i processi metabolici e cometabolici.
Fermentazione
Contribuisce ai processi respiratori con una prima e parziale
detossificazione o con una degradazione della sostanza organica di
partenza, l’ossidazione dei donatori di elettroni primari fornisce
prodotti che fungono da accettori terminali di elettroni e il trasporto
di elettroni avviene all’esterno della cellula per mezzo di prodotti
diffusibili. La produzione di ATP e biomassa è molto inferiore rispetto
ai processi respiratori.
Fig.4
- Variazione di concentrazione dei solventi clorurati nel plume (la
sorgente è a sinistra)
Nella tabella seguente (Tab.2) sono presentati i generi
di batteri decloranti che degradano i solventi clorurati per
dealogenazione riduttiva. I batteri appartenenti al genere
Dehalococcoides sono capaci, a partire da TCE o PCE o cis-DCE, di
produrre l’innocuo etilene tramite processi metabolici e cometabolici,
tutti gli altri generi si fermano a cis-DCE.
Batterio declorante
|
Donatori elettroni |
Prodotto finale/
accettore elettroni |
Range
pH/pH ottimale |
Range
Temper.
ottimale |
Desulfitobacterium ethenogenes |
H2 |
cDCE |
7.5 |
38°C |
Desulfitobacterium
metallireducens |
H2 |
cDCE |
7 |
20-37 °C |
Dehalobacter restrictus |
H2 |
cDCE |
6.8-7.6 |
25-35°C |
Desulfuromonas chloroethenica |
Acetate |
cDCE |
7.4 |
21-31°C |
Geobacter Lovely |
H2, Acetate |
cDCE |
6.5-7.2 |
10-40°C |
Sulfurospirillum halorespirans |
H2 |
cDCE |
7 |
25-30°C |
Dehalococcoides ethenogenes
195 Cornell |
H2, lattato |
PCE=>VC, ethene |
6-8
(optimum pH 7) |
10-37°C |
Dehalococcoides
FL2 Pinellas |
H2, lattato |
TCE=>VC, ethene |
6-8
(optimum pH 7) |
10-37°C |
Dehalococcoides
BAV-1 Pinellas |
H2, lattato |
ethene |
6-8
(optimum pH 7) |
10-37°C |
Dehalococcoides
VS Victoria |
H2, lattato |
ethene |
6-8
(optimum pH 7) |
10-37°C |
Dehalococcoides
GT Pinellas |
H2, lattato |
ethene |
6-8
(optimum pH 7) |
10-37°C |
Dehalococcoides CBDB 1
Pinellas |
H2, lattato |
tDCE |
6-8
(optimum pH 7) |
10-37°C |
Tab.2
- Principali batteri decloranti e condizioni di crescita.
In studi di laboratorio e di campo in sostituzione di H2
sono utilizzati lattato, butirrato, benzoato,
metanolo.
In condizioni ambientali i batteri dealogenanti e
non-dealogenanti si uniscono sintroficamente in “consorzi batterici”
competendo per il donatore di elettroni e per il substrato e completando
metabolicamente la catena riduttiva da PCE a etilene con produzione di
energia e biomassa.
L’H2
può essere prodotto da acetato non
fermentato, dal mezzo di reazione o dai batteri acetogeni che fermentano
un substrato carbonioso. Nel consorzio microbico vi sarà competizione
per l’ H2
da parte di batteri acetogeni, metanigeni, solfato riduttori, decloranti
(Fig.5).
Fig.5
- Relazioni metaboliche in un ecosistema anaerobico declorante
Con il procedere del processo cinetico, i ceppi batterici
più sensibili agli effetti nocivi dei solventi clorurati e incapaci di
procedere in tutte le fasi di degradazione, non potranno competere per
il substrato e si creeranno condizioni favorevoli per la dominanza di
pochi generi e specie e i Dehalococcoides
saranno preponderanti.
Per avere un tasso di attenuazione naturale di primo
ordine di (0.3/anno) è necessaria una concentrazione di Dehalococcoides
di 1x107/L e si è riscontrato che, in queste condizioni, si
rileva etilene nell’83% dei piezometri analizzati.
Attualmente vi sono svariate tecniche di biorisanamento
disponibili. Il principio di base è l’utilizzo di batteri o funghi per
una rimozione controllata degli inquinanti presenti nel suolo e/o nelle
acque di falda
I batteri possono essere alloctoni e quindi inoculati nel
mezzo inquinato o autoctoni laddove vi siano i nutrienti (inquinanti) e
condizioni geologiche e chimico-fisiche adatte, inoltre sono
caratterizzati da ridotte dimensioni (0.2 -4 μm), rapporto
superficie/volume elevato, veloce trasporto dei nutrienti.
Vantaggi:
- trasformazione dei contaminanti in prodotti innocui
come CO2, H2O, etilene e produzione di biomassa in
contrasto con il trasferimento fisico e trattamento o il cambiamento di
fase degli altri metodi che comportano anche un possibile depauperamento
della falda;
- bassi costi di installazione ed esercizio rispetto alle
tecnologie ad alta richiesta energetica come il Pump and Treat,
l’escavazione, il trattamento in impianti di smaltimento, il soil vapor
extraction ecc.;
- applicabile in aree difficilmente accessibili e/o
particolarmente estese come nel caso di un plume insistente al di sotto
delle fondamenta di un impianto industriale di ampie dimensioni o di un
complesso residenziale;
- l’impatto ambientale e
urbanistico è quasi nullo, si può in alcuni casi continuare a utilizzare
l’area sottoposta a risanamento, poiché si utilizzano organismi già
presenti nel mezzo.
Svantaggi:
- in fase progettuale è necessaria
una approfondita caratterizzazione del sito (idrogeologica, geochimica,
microbiologica) e una conoscenza dei contaminanti coinvolti;
- una bassa velocità di reazione
richiede lunghi tempi per una riduzione dei contaminanti a
concentrazioni accettabili per legge, ciò porta a una necessaria
associazione con altre tecniche;
- inapplicabilità a suoli e/o
acquiferi a bassa permeabilità;
- conoscenza dei microrganismi
coinvolti nei processi, in particolare per gli idrocarburi clorurati,
PCB, pesticidi e solventi clorurati e utilizzo di tecniche
microbiologiche (qPCR , FISH, CARD FISH) qualitative e quantitative per
saggiare la composizione e la concentrazione del consorzio microbico
autoctono.
Tecniche principali:
Ø
Landfarming
(Fig.13):
Fig.13
– Unità operativa tipica nel trattamento Landfarming
- usato per trattare le contaminazioni in fase solida di
sostanze non volatili.
Tipiche applicazioni sono la bonifica della contaminazione del suolo e
delle acque di falda da parte di idrocarburi (inquinamento localizzato)
e pesticidi (inquinamento diffuso) composti di sintesi dell’industria
petrolifera, conciaria, metallurgica e del legno lavanderie industriali,
industrie della plastica.
-
caratterizzazione microbiologica (cells/ml, UFC/ml), in
laboratorio, dei ceppi microbici indigeni e successiva definizione dei
parametri di crescita
- in situ o ex situ
- si prepara, in un bacino impermeabile di spessore <0.5
m, un letto di terreno inquinato posto al di sopra di uno strato
drenante e di un manto impermeabile
- in presenza di batteri autoctoni si irriga con acqua
ricca di ossigeno (o di un donatore di elettroni) e macronutrienti
(nitrati e fosfati) e
micronutrienti (fattori di crescita e vitamine) il percolato metabolico
prodotto è
raccolto e ricircolato subito o prima della depurazione tramite ENA
- processo biodegradativo: 6 –20 mesi
Ø
Bioventing
(Fig.14):
Fig.14
– Rappresentazione grafica della tecnica del Bioventing.
- Sistema utilizzato per la decontaminazione di terreni
inquinati da idrocarburi (kerosene e carburanti per aviazione, diesel).
- La bonifica è
effettuata dai microrganismi aerobici autoctoni
-
caratterizzazione microbiologica (cells/ml, UFC/ml), in
laboratorio, dei ceppi microbici indigeni e successiva definizione dei
parametri di crescita
- intervento in situ
- si insuffla ossigeno (o un altro donatore di elettroni)
nel terreno contaminato per stimolare la crescita batterica, il mezzo
deve essere poroso (non adatto a zone sature o di falda)
- il mezzo necessita minimo una concentrazione di
colonie microbiche di 1000 – 1500 UFC/ g di terreno secco.
- possibile raccolta dell’effluente gassoso tramite soil
vapor extraction
- il tempo di risanamento va da alcuni mesi a 2 anni
Ø
Biopile
(Fig.15):
Fig.15
– Rappresentazione grafica della tecnica del Biopile.
- l’inoculo di ceppi fungini è usato per il trattamento
di composti aromatici e alogenati, mentre l’inoculo di ceppi batterici
mesofili e/o termofili è usato per l’attività catabolica nei confronti
degli idrocarburi a catena aperta.
- sono inoculati nel terreno ceppi fungini o batterici
-
caratterizzazione microbiologica (cells/ml, UFC/ml), in
laboratorio, dei ceppi microbici indigeni e successiva definizione dei
parametri di crescita
-
tecnica on site o in
situ
- il terreno contaminato è posto nelle pile nelle quali
sono ottimizzati tutti i parametri fisici (potenziale redox , T, pH) e
nutrizionali (fattori di crescita, macro e micronutrienti) ed è
omogeneizzato a formare delle pile coperte da geomembrana
- raccolta di percolato metabolico e biogas
- degradazione in 3-12 mesi
Ø
Biorisanamento anaerobico di solventi clorurati
(CAHs):
- il processo porta alla completa declorazione del PCE,
TCE, DCE, VC a etilene
- necessari consorzi di batteri
decloranti autoctoni dei generi Dehalococcoides, Geobacter,
Desulfuromonas, Dehalobacter, Desulfitobacter, Sulfurospirillum ecc.
- intervento in situ
- l’acquifero e la distribuzione del substrato
devono possibilmente essere omogenee la permeabilità alta, il plume non
troppo esteso e la sua sorgente accessibile, le condizioni adatte allo
sviluppo dei suddetti consorzi batterici
- si possono risanare mezzi con concentrazioni di CAHs da
0.01 a 100 mg/L
- possibile intervento a più di 100 metri di profondità e
con velocità di falda da pochi centimetri a metri al giorno
-
possibile biostimulation tramite substrati come:
Melassa o lattato che solubilizzano nel flusso di falda e
diffondono ad alta velocità, sono utilizzabili all’inizio del processo e
periodicamente per una rapida induzione della biodegradazione.
Oli vegetali o composti a rilascio di idrogeno HRC® che
solubilizzano lentamente, sono utilizzabili durante il processo a lunghi
intervalli per rendere costante l’attività della zona di degradazione.
Compost per accellerare la proliferazione microbica sono
aggiunti all’inizio del processo.
Ammendanti come azoto, fosforo e estratto di lievito.
- la bioaugmentation con Dehalococcoides spp. è
consigliata in caso di assenza di consorzi decloranti o di una
eccessivamente bassa attività batterica
- utilizzo di tecniche microbiologiche (FISH, CARD FISH,
qPCR ecc.) qualitative e quantitative per saggiare la composizione e la
concentrazione del consorzio microbico autoctono per decidere la
fattibilità dell’intervento.
La FISH (Fluorescence In Situ Hybridization) è una delle
tecniche di biologia molecolare in cui si impiegano sonde
oligonucleotidiche al fine di eseguire un’analisi di tipo quantitativo
in situ per identificare, quantificare e caratterizzare
popolazioni microbiche filogeneticamente definite in ambienti con
diversi livelli di complessità.
Tali sonde, cui è stato precedentemente legato un
composto fluorescente, messe a contatto con un campione biologico da
analizzare, penetrano nelle cellule e, se trovano gli acidi nucleici con
sequenza complementare, si legano tramite legami a idrogeno. Il
preparato, dopo semplice lavaggio per rimuovere le sonde non legate, può
essere osservato con microscopia ad epifluorescenza per identificare le
cellule in cui la sonda si è legata
Questo sistema permette, appunto, di caratterizzare una
biomassa mista, identificando i singoli componenti di comunità
microbiche e di studiarne la presenza e l’andamento nel tempo; il punto
di forza di questo approccio riguarda pertanto essenzialmente le sue
potenzialità nel monitoraggio delle dinamiche di popolazioni microbiche
direttamente nei campioni ambientali.
La caratterizzazione di una biomassa mista tramite sonde
molecolari può procedere in modo piramidale attraverso l’utilizzo
iniziale di sonde generali per grandi gruppi (es.: Bacteria e Archaea)
per poi passare gradualmente a sonde più specifiche che consentono
un’identificazione rigorosa fino a livello di specie.
Il protocollo della FISH prevede una preliminare scelta
della sonda, attualmente, sono disponibili diverse banche-dati (una
delle più utilizzate e complete è ProbeBase), una prima fase di
fissaggio del campione (essenziale per mantenere l’integrità morfologica
delle cellule in tutte le successive fasi) ed una di ibridazione della
sonda.
Per quanto riguarda la fase di fissaggio dei campioni, in
letteratura, sono disponibili diversi protocolli, ma, nella pratica, è
spesso necessario eseguire un fissaggio rapido che consiste
nell’aggiunta diretta del fissativo al campione senza specifici
pretrattamenti che potrebbero far perdere biomassa (quali, ad es.,
rimozione del supernatante e lavaggio delle cellule).
La successiva fase di ibridazione, invece, è quella che
richiede maggior accortezza e precisione; scelta la sonda, è necessario
ottimizzare le condizioni di ibridazione, ovvero temperatura di lavoro,
tempo di ibridazione, composizione del tampone utilizzato (in cui sono
presenti cationi monovalenti importanti per la velocità di formazione
dell’ibrido e per la stabilità del duplex risultante). Anche
l’efficienza del legame della sonda può essere modificata,
questo lo si ottiene intervenendo sulla stringenza (intesa come
capacità che ogni sonda ha di appaiarsi alle sequenze complementari di
rRNA), ossia usando agenti denaturanti come la formammide che è in grado
di modificare la stringenza senza alterare la temperatura di
ibridazione.
Il saggio FISH prevede quattro fasi principali (Fig.16):
1-
Fissaggio e permeabilizzazione delle cellule;
2-
Incubazione con la sonda fluorescente;
3-
Lavaggio;
4-
Analisi microscopica.
Fig.16
- Schema della tecnica di ibridazione dell’rRNA mediante fluorocromo.
La prima fase è importantissima ai fini di una buona
ibridazione della sonda e, per far questo è necessario rendere la
cellula facilmente accessibile a quest’ultima. Il fissaggio del
campione, effettuato prevalentemente con formaldeide o etanolo, consente
di preservare l’integrità strutturale delle cellule, mantenendo quindi
il maggior numero possibile di sequenze specifiche di RNA, ed anche di
aumentare la permeabilità della parete cellulare batterica; permeabilità
che può essere anche aumentata ricorrendo a trattamenti enzimatici più
specifici quali l’uso di proteinasi K e/o lisozima. Per ottimizzare
l’accessibilità delle sonde al sito bersaglio, infine, è possibile
aggiungere oligonucleotidi (“helper probe”) non marcati che
legano una sequenza in prossimità del sito target della sonda.
La seconda fase, quella di incubazione, deve durare da un
minimo di un’ora e mezzo ad un ottimo di tre ore, tempo necessario alla
penetrazione della sonda all’interno delle cellule e alla formazione del
duplex, ibrido sonda/rRNA, tramite legami idrogeno.
Il tampone di ibridazione e le sonde che non si sono
legate vengono eliminate nella terza fase con un apposito tampone di
lavaggio a 48°C ed, infine, il preparato viene sciacquato con acqua
distillata fredda e rapidamente asciugato.
La quarta ed ultima fase consiste nel montaggio di ogni
filtro su un vetrino e sull’osservazione dei segnali fluorescenti al
microscopio ad epifluorescienza. L’avvenuta ibridazione della sonda è
rilevata mediante un segnale fluorescente dovuto alla marcatura del 5’
terminale con specifici fluorofori caratterizzati da diversi spettri di
assorbimento ed emissione (i più usati sono: 5’-FITC, Cy3 e Cy5). I dati
quantitativi vengono espressi in percentuale relativa (o in numero di
cellule/ml o L) di ogni ceppo batterico analizzato rispetto
all’abbondanza di tutti i procarioti presenti nel campione, abbondanza
stimata attraverso una conta delle cellule con il
4-6-diamino-2-fenilindolo (DAPI) che lega il solco maggiore del DNA di
tutte le cellule rendendole fluorescenti, e di tutti i batteri presenti,
stimata con una conta delle cellule che ibridano la sonda EUB.
Il più grosso limite di questa tecnica, soprattutto
quando si lavora con campioni ambientali complessi caratterizzati da
bassa abbondanza di cellule e basso
contenuto di ribosomi (quest’ultimo conseguenza di una bassa attività
cellulare), è che, quando la disponibilità di sequenze bersaglio è
limitata, l’intensità del segnale fluorescente è debole. La FISH può
rilevare un numero minimo di 1000 ribosomi per cellula per avere un
segnale apprezzabile.
Per
far fronte a questo problema si può ricorrere ad una variante della FISH
tradizionale in cui si amplifica il segnale fluorescente aumentandone
l’intensità, principio su cui si fonda la CARD-FISH (Catalyzed Reported
Deposition-FISH).
La CARD-FISH (Catalyzed Reported Deposition-FISH), come
già anticipato, è un metodo che viene in aiuto ai limiti riscontrati
nella FISH essendo in grado di aumentare, per via enzimatica,
l’intensità del segnale emesso dalla cellula batterica; in questa
tecnica l’ibridazione coinvolge un solo oligonucleotide che lega
covalentemente al 5’ terminale una perossidasi estratta dal rafano (horseradish
peroxidase HRP) che interagisce con un composto fenolico, la tirammide,
che lega un fluorocromo. La sonda con HRP si lega alla sequenza
complementare del 16s rRNA e catalizza la dimerizzazione della
tirammide marcata attivandola. La tirammide attivata si lega dunque, in
modo permanente ai suoi siti bersaglio, residui di tirosina presenti
nelle proteine della parete batterica; in questo modo viene emesso un
segnale fluorescente diffuso e molto intenso. L’amplificazione del
segnale è dovuta al fatto che una singola molecola di HRP è in grado di
dimerizzare più molecole di tirammide (Fig.17) favorendo la deposizione
di molti composti fluorescenti attivati all’interno della parete della
cellula bersaglio. In questo modo numerose molecole fluorescenti possono
essere legate portando ad un potenziamento del segnale rispetto alla
FISH dove invece viene usato un singolo fluorocromo direttamente legato
alla sonda. La metodica identifica tutti i batteri, con rRNA
complementare alla sonda, presenti nel campione sia attivi che inattivi,
ma non è proporzionale alla loro attività. Si aspetta quindi che la
percentuale di biomassa che si riscontra con la FISH sia sempre più
bassa rispetto a quella analizzata con la CARD FISH.
a
b
Fig.17 - a)
Reazione di attivazione della tirammide da parte della perossidasi (HRP);
b) Amplificazione del segnale dovuto al legame tirosina-tirammide.
Il
problema di base di questa tecnica consiste nel passaggio all’interno
della cellula di grosse molecole (sonde HRP) senza provocarne la lisi;
per questo motivo la permeabilizzazione della parete cellulare
rappresenta un passaggio cruciale. L’uso di questa tecnica è quindi
raccomandato per lo studio di specie batteriche per le quali sono stati
sviluppati adeguati protocolli di permeabilizzazione e non per lo studio
di più vasti gruppi batterici caratterizzati da una diversa composizione
della parete batterica. Un altro inconveniente riguarda la presenza di
perossidasi batteriche endogene che potrebbero causare la formazione di
uno sfondo fluorescente sul campione, ma questo problema è stato risolto
utilizzando il perossido d’idrogeno (H2O2) che
disattiva le perossidasi interne.
Il procedimento prevede che, i campioni, raccolti su
filtro, vengano immersi in una soluzione liquida di agarosio per evitare
di perdere le cellule durante la fase successiva di permeabilizzazione
che avviene tramite l’utilizzo di enzimi quali il lisozima, l’acromonopeptidasi,
la proteinasi K. Inattivate le perossidasi endogene, seguono la fase di
ibridazione, in cui la sonda penetra e si lega al sito bersaglio, e la
fase di amplificazione del segnale in cui viene aggiunta la tirammide
marcata con un fluorocromo che, attivato in presenza della perossidasi,
si lega alle proteine della parete batterica. A questo punto si
effettuano lavaggi per rimuovere i reagenti in eccesso e si conclude con
la monta del vetrino e l’analisi al microscopio. Come per la FISH,
infatti, la conta delle cellule marcate avviene attraverso l’uso del
microscopio ad epifluorescenza. Anche in questo caso, la stima delle
cellule ibridizzate viene effettuata
attraverso la conta diretta, calcolando l’abbondanza delle cellule
ibridizzate sul totale delle cellule DAPI
positive.
In sintesi, la FISH e la CARD-FISH, permettono di
identificare e quantificare in situ i singoli componenti della comunità
microbica presente; consentono, sia sui campioni ambientali che di
laboratorio, una quantificazione diretta della comunità batterica e
della sua struttura permettendo di stimare la frazione che ciascun
componente rappresenta rispetto alla biomassa totale. Offrono la
possibiltà di lavorare a livelli diversi di specificità (da dominio a
specie specifico) e di avere informazioni riguardo allo stato di
attività delle popolazioni microbiche identificate, il tutto con elevata
sensibilità, in tempi rapidi ed a costi contenuti.
Per contro, però, non forniscono
alcuna indicazione riguardante le caratteristiche fisiologiche e
metaboliche delle cellule, cioè non danno informazioni sul ruolo
funzionale delle diverse classi di organismi presenti. Per questo
motivo, e a causa di una sempre più crescente necessità di approfondire
le conoscenze sulla relazione tra funzionalità e filogenesi, una
particolare attenzione è stata rivolta allo sviluppo di tecniche che
accoppiano la FISH e la CARD-FISH con metodi di studio del metabolismo
di singoli ceppi batterici e che permettono la stima dei tassi di
divisione cellulare o della produzione batterica.
La Polymerase chain reaction (P.C.R.) è un tecnica di
replicazione del DNA messa a punto negli anni ’80 da Kary Mullis,
rispetto alle precedenti tecniche che necessitavano di un vettore nel
quale si inseriva la sequenza di DNA da replicare e che risultavano
dispendiose in termini di tempo e di denaro, la PCR ha la potenzialità
di produrre un numero estremamente grande di copie di una specifica
sequenza di DNA a partire da una miscela di DNA senza utilizzare un
vettore di clonazione, il processo è detto amplificazione.
Nel corso degli anni le applicazione della suddetta
tecnica hanno spaziato in numerosi campi, dall’identificazione di
microrganismi alla medicina, dalla criminologia alla paleontologia ecc.,
poiché ha i vantaggi di essere veloce precisa e non richiede una
particolare abilità dell’operatore poiché la procedura di amplificazione
è affidata a un ciclatore termico.
Per procedere con la tecnica è necessario conoscere la
sequenza nucleotidica (da 100-600 bp) che si vuole amplificare
necessaria per sintetizzare i primers forward e reverse (da 15-30bp) che
a essa si assoceranno.
A essi vanno aggiunti:
- Taq DNA Polimerasi: è l’enzima, stabile fino a 95°C,
che catalizza l’amplificazione ed è estratto dal microrganismo termofilo
Termus acquaticus . L’enzima non possiede la capacità di correggere gli
appaiamenti scorretti.
- dNTPs: deossinucleotidi trifostato che sono aggiunti al
DNA stampo dalla polimerasi
- Mg++ o Mn++, MgCl2:
cofattori necessari per una ottimale attività e amplificazione
enzimatica
Le fasi di ogni ciclo di amplificazione (Fig.18) che
avvengono nel ciclatore termico sono le seguenti:
1)Denaturazione (5 minuti): il doppio filamento di DNA è
sottoposto alla temperatura di 94-96°C che lo separa in due singoli
filamenti
2)Annealing (30 secondi): la temperatura cala a 37-55°C e
i primers scelti per la sequenza d’interesse si legano al DNA a singolo
filamento. Tm è la “melting temperature” alla quale il 50% dei primers è
appaiato al sito target
3)Estensione (2-5 minuti): a 72°C l’enzima Taq DNA
Polimerasi allunga il DNA a singolo filamento utilizzando i dNTPs e
avviene in direzione 5’=> 3’ e aggiunge 2000 bp al minuto.
Fig.18
- Le diverse fasi della PCR
La PCR è divisa in “n” cicli, per ogni ciclo si ha un
raddoppiamento delle molecole iniziali di DNA (templato) “T” presenti
secondo l’esponenziale P=2nT. Così, partendo da una sola
copia di templato, dopo 10 cicli si hanno 1.024 copie del DNA
originario e, considerando che ogni ciclo necessita di pochi minuti per
completarsi, si evince che in poco tempo si possano ottenere fino a un
miliardo di copie.
Il numero ottimale di cicli è 30-40 poichè più questo è
elevato maggiore sarà la possibilità che vi siano errori di
amplificazione e che questi vengano replicati nei cicli successivi con
aumento del rumore di fondo
Ponendo infatti in ascissa il numero di cicli e in
ordinata il numero di copie di DNA presente, alla fine dei cicli di
amplificazione si avrà una curva di forma sigmoide, il suo ultimo tratto
è influenzato dall’effetto plateau che comporta una sensibile
attenuazione del numero di copie geniche prodotte e una aumento del
numero di prodotti non specifici (copie geniche scorrette) derivanti da
pregressi errori di appaiamento, formazione di dimeri di primers,
competizione dei reagenti, instabilità enzimatica ecc..
La PCR è una tecnica qualitativa e difatti nel corso
degli anni si sono sviluppati vari metodi di manipolazione post-PCR (blotting
con sonde fluorescenti, elettroforesi su gel) per poter quantificare il
numero degli ampliconi (copie di DNA) prodotti. Tali metodiche però
comportano una manipolazione, e possibile contaminazione o perdita
ulteriore del DNA nonché una ovvio costo in termini di tempo e denaro.
Dalla trattazione si evince
chiaramente quanti e quali sono i vantaggi, rispetto alle tecniche
tradizionali, nella scelta di pratiche di biorisanamento per la bonifica
dei siti contaminati; ad oggi, esse, si rivelano essere le tecniche più
promettenti ed a minor impatto ambientale esistenti.
Per poter essere correttamente
applicate, abbiamo visto l’importanza di una preliminare, attenta ed
approfondita caratterizzazione del sito contaminato, soprattutto dal
punto di vista microbiologico. A tal fine le tecniche di ibridazione in
situ rappresentano uno strumento rapido
e specifico per identificare i microrganismi responsabili della
biodegradazione e studiarne la presenza e l’andamento nel tempo.
Il maggior punto di forza di
queste tecniche riguarda la possibilità di ricostruire la struttura
delle comunità microbiche analizzando i campioni con sonde biomolecolari
a specificità crescente (da dominio a livello di specie).
L’applicazione della tecnica FISH
permette di definire la frazione attiva della biomassa microbica, ovvero
delle cellule con contenuto ribosomiale ≥ 103, condizione
raramente riscontrabile nell’analisi dei campioni ambientali che risulta
quindi essere più difficoltosa e dispendiosa in termini di tempo
rispetto alla caratterizzazione delle colture di laboratorio.
L’utilizzo della variante della tecnica convenzionale FISH, la CARD-FISH,
permette di ovviare a queste limitazioni e a garantire una accurata
analisi dei campioni ambientali rilevando la frazione attiva e inattiva
della biomassa microbica.
Rispetto ai metodi tradizionali basati sull’utilizzo di metodologie di
PCR, le metodologie di ibridazione in situ consentono di valutare il
livello di conoscenza acquisito nell’analisi offrendo la possibilità di
determinare la frazione di biomassa totale identificata con le sonde
impiegate nel saggio CARD-FISH. Tali metodologie condividono con la Real
Time PCR, l’elevata sensibilità, la rilevabilità dei microrganismi di
interesse in tempi rapidi, con il vantaggio di un costo di analisi
sensibilmente più basso.
L’applicazione di metodi molecolari rispetto ai metodi tradizionali
coltura-dipendente, esula dall’isolamento in coltura pura e permette di
identificare e quantificare specie microbiche d’interesse direttamente
nelle matrici di origine. Di contro, le tecniche di ibridazione
richiedono una maggiore esperienza dell’operatore nell’analisi
microscopica.
In
ogni caso, dall’accuratezza di tali analisi dipende la corretta scelta
della tecnica e riuscita dell’intervento di biorisanamento in sito.
Chiara
Drius |