I
CAMBIAMENTI CLIMATICI NELL'“ANTROPOCENE”
di Debora Tollardo
INTRODUZIONE
Da decenni si parla di
cambiamenti climatici, ma sull'argomento scienza, politica, economia e
mass-media sono sempre stati discordi. Non tanto sull'esistenza del
problema, dato ritenuto inconfutabile, quanto piuttosto sulla sua entità
e sui tempi di evoluzione.
Il titolo scelto per il
presente lavoro, volutamente provocatorio, rievoca la tesi di P. Crutzen,
premio nobel per la chimica 1995, che nel suo libro “Benvenuti nell'Antropocene”
sostiene che l'essere umano è la causa principale dei cambiamenti
climatici e che arriverà a distruggere completamente il mondo in cui
vive.
LA
VISIONE DEI MASS-MEDIA
La maggior parte delle
persone ricava le informazioni sull'argomento dai principali mass-media,
siano essi quotidiani, riviste (non scientifiche), programmi televisivi,
telegiornali, ecc.
Ma si sa che tale mezzo
di informazione, soprattutto in ambito scientifico, presenta importanti
limiti e questi invece possono essere svelati con metodo “scientifico”.
Maria Inglisa, nota
giornalista scientifica che ha svolto ricerche al CNR e collaborato con
le principali riviste (Airone, Oasis, Europeo, ecc.), nel rapporto di
ricerca “La rappresentazione dei cambiamenti climatici nei media
italiani”, dimostra che i mass media italiani sull'argomento a volte
informano, a volte vogliono soltanto impressionare il pubblico. Senza
significative differenze tra carta stampata e televisione.
Le sue conclusioni sono
peraltro sovrapponibili a ricerche analoghe svolte in altri paesi
europei e in USA.
Volendo però analizzare
il problema più concretamente e con maggiore rigore scientifico,
cercheremo di fare il punto della situazione suddividendo le varie
argomentazioni e rispondendo ad alcune domande.
PERCHE' DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO
Anzitutto cerchiamo di
capire perché il clima sta cambiando.
Con il tempo il pianeta
terra cambia “fisiologicamente” la propria orbita intorno al sole, e ciò
comporta ovviamente una differente quantità di energia (fondamentalmente
solare) che raggiunge la superficie del pianeta.
I cosiddetti GHG (“Green
House Gases”) o gas-serra, normalmente hanno una funzione “fisiologica”,
in quanto servono per trattenere nelle ore notturne parte del calore che
la terra riceve di giorno dal sole.
Se ciò non avvenisse ci
sarebbero escursioni termiche anche superiori ai trenta gradi in meno
nelle ore notturne rispetto alle ore diurne, con conseguenze facilmente
immaginabili per le forme di vita animali e vegetali.
Altri però sono i
fattori che influiscono sulla variazione del clima, e di fisiologico
hanno davvero poco.
Ad esempio è stato
dimostrato che negli ultimi 200 anni la temperatura terrestre è
aumentata di un grado solo per l'uso dei combustibili fossili e
probabilmente l'aumento raggiungerà i due gradi e mezzo intorno all'anno
2100.
E' quindi importante fin
da subito chiarire quale sia l'importanza del cosiddetto “effetto
serra”, il cui aumento causa il declino della criosfera, lo scioglimento
dei ghiacciai alpini, delle calotte polari e l'aumento della temperatura
dei mari, favorendo gli eventi atmosferici dipendenti dai cicli termici
(uragani, alluvioni, temporali) e creando problemi di abitabilità delle
coste, desertificazione di molte aree, dissesti idrogeologici, ecc.
IL
RUOLO DELL'UOMO NEL CAMBIAMENTO DEL CLIMA
Ma è possibile
quantificare quali siano i limiti di allarme raggiungibili dai gas
serra?
A tale domanda ha
risposto il rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change)
del febbraio 2007, stabilendo che il limite di guardia per la
concentrazione di CO2 è tra 445 e 550 ppm, e che se così
restasse, l'aumento di temperatura sarebbe
reversibile e controllabile.
Quindi in prospetto, nel
2050 le emissioni di CO2 dovrebbero essere del 50-85% in meno
rispetto al 2000.
Dato che l'aumento della
concentrazione di CO2 è dovuta essenzialmente all'utilizzo di
combustibili fossili, si ribadisce inoltre l'importanza di dedicare
tempo e risorse nello sviluppo delle energie rinnovabili.
Il rapporto oltretutto
ritiene non del tutto sufficienti le misure prese con gli accordi di
Kyoto (comunque scadenti nel 2012).
Inoltre, si stima che
attualmente la capacità di assorbimento naturale di CO2 fatto
da foreste e oceani, copra solo il 50% della CO2 prodotta
dall'uomo.
Considerando anche il
continuo aumento del fenomeno delle deforestazioni, è facile intuire
come questo aspetto metta in maggiore luce il problema dell'inquinamento
da combustibili fossili.
Non tutti gli scienziati
però concordano col rapporto IPCC.
La comunità scientifica
infatti divide gli esperti dell'argomento in due categorie: “scettici” e
“catastrofisti”.
Il principale scettico,
Lindzen del MIT, sostiene che nel rapporto manca spesso la scientificità
dei dati prodotti e che invece non si tengono in conto molti altri
aspetti clima-influenti (vapor acqueo, l'effetto compensante dei cirri
in alta quota, l'andamento delle radiazioni solari, ecc).
A sostegno delle sue
tesi, in modo volutamente provocatorio, è solito fare la considerazione
che “se oggi ci sono 22000 orsi polari contro i 5000 del 1940 un motivo
c'è”.
K. Mullis, Nobel per la
chimica del 1993, sostiene addirittura che gli uomini non sono in grado
di surriscaldare il pianeta. Anche gli italiani Pagliuca, Ortolani e
Navarra sono per una maggiore cautela rispetto alle tesi catastrofiste.
Il principale
catastrofista è il già citato P. Crutzen. Il termine “Antropocene”,
peraltro inventato dal biologo Eugene Stoermer, infatti
indicherebbe l'era
geologica attuale, nella quale all'uomo e alla sua attività sono
attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali
e climatiche.
Ma come si è evoluta nel
tempo la concezione del problema?
Dal 1979 (conferenza
mondiale sul clima) si parla di come sia necessario mettere in atto
politiche “necessarie al benessere dell’umanità”, ma è poco più che una
dichiarazione di intenti.
Tra gli anni 80 e 90
hanno avuto luogo varie conferenze intergovernative e viene ripreso il
concetto di “sviluppo sostenibile”, in particolare il “rapporto
Bruntland”, presentato alla conferenza di Stoccolma del 1987, dove si
ribadisce l’urgenza di garantire la tutela dell’ambiente, promuovere la
salute, lo sviluppo, l’istruzione e la giustizia sociale per tutti;
tutto con l’ottica di non pregiudicare i diritti delle generazioni
future.
Altro passaggio
fondamentale è la conferenza di Rio de Janeiro del 1992. Viene esteso il
concetto di negoziazione multilaterale per la protezione della fascia di
ozono. Si scrivono i 15 punti dello “sviluppo sostenibile”, che per la
prima volta fissano “il concetto di diritto umano” e come conseguenza
quello di “diritto ad un ambiente sano”.
Va però considerato che
solo una minima parte degli impegni presi dalle
189 nazioni firmatarie della Convenzione di Rio del 1992 è stata
rispettata.
Si potrebbero raggiungere gli obbiettivi prefissati ad esempio
promuovendo nuove tecnologie ed educando le popolazioni al risparmio
energetico, prevenendo le deforestazioni ed investendo sul rinnovabile.
Sulla base di Rio si
arrivò nel dicembre del 1997 al famoso “protocollo” di Kyoto”, dove 160
paesi partecipanti firmarono un protocollo sulla riduzione dei gas serra
(CO2, NH4, N2O, SF6, HCF-23
e HCF-32). La CO2 è di gran lunga il più importante per i
massicci quantitativi immessi in atmosfera sia dalle attività antropiche
che dalle sorgenti naturali, ma non è il più pericoloso ai fini
dell’effetto serra. Si valuta per ogni gas il cosiddetto GWP (Global
Warming Potential) che rappresenta il contributo cumulativo all’effetto
serra in un prefissato intervallo temporale.
L’unione europea e
l’Italia hanno ratificato il protocollo di Kyoto nel 2002, la stessa UE
ha stabilito la quantità percentuale di riduzione delle emissioni di gas
climalteranti che ogni stato membro avrebbe dovuto rispettare. Qualora
questi limiti non si raggiungessero, sarebbero previste delle sanzioni
pecuniarie molto pesanti per acquisto di diritti di emissione (1,5
miliardi di euro l’anno).
La stessa Commissione
Europea ha indicato una serie di mezzi di azioni locali che interessano
tutti i settori (produttivi e non) dei vari paesi, come la produzione di
energia elettrica e quella industriale, la gestione dei rifiuti,
l’agricoltura e alcuni meccanismi di
flessibilità:
- Riduzione delle
emissioni tramite rafforzamento delle politiche nazionali di
settore (energie rinnovabili, aumento dell’efficienza energetica,
agricoltura sostenibile).
-
Contabilizzazione a favore delle emissioni sequestrate coi cosiddetti
pozzi di assorbimento (come le foreste).
- Possibilità di
commerciare i cosiddetti “diritti di emissione” in paesi soggetti al
vincolo che riescano ad ottenere un surplus nella riduzione delle
emissioni. In pratica possono “vendere” tale surplus ad altri paesi che,
al contrario, non riescano a raggiungere gli adempimenti assegnati.
Si può dire che tutto il
mondo sembra essersi accorto che il problema del profondo e rapido
cambiamento climatico (sul quale però come abbiamo visto molti
scienziati sono scettici) è un problema che se deve essere affrontato,
va affrontato da tutti i paesi, compresi quelli in via di sviluppo, e
con un’etica comune. Peccato che però si rileva che la crescita
economica dei paesi industrializzati è modesta e incerta, che le
tecnologie di produzione ad emissione “zero” non sono ancora a punto,
che la barriera di una burocrazia pesante soffoca ogni iniziativa
innovatrice, che gli investimenti finanziari reali dei vari governi
attualmente sono infinitamente al di sotto di quelli ipotizzati e
promessi.
Inoltre, i paesi in via
di sviluppo spesso sono soggetti ad instabilità politica e molto
arretrati nel settore energetico, oltre ad avere una palese avversione
alla riapertura del discorso “nucleare”.
Interessante sembra
anche citare il direttore della Banca Mondiale “Se i governi, i settori
privati dell'economia e le istituzioni internazionali preposti allo
sviluppo
agiranno all'unanimità, potremo trasformare in azioni concrete questo
consenso globale sui mutamenti climatici e finanziarne le innovazioni
che ci permetteranno di raggiungere vere soluzioni”
ANALISI ECONOMICA
Con queste premesse ci
si domanda: viste le difficoltà a ridurre la produzione di gas
clima-alteranti con la sola motivazione ambientalistica, riuscirebbe
comunque il petrolio a tenere il passo di una richiesta di energia
sempre maggiore? Probabilmente no, anche a prescindere dal prezzo,
pertanto appare evidente che la ricerca di fonti energetiche alternative
ha anche un grosso significato economico, non solo ambientale.
Appare quindi
imprescindibile che si proceda al cambiamento della struttura energetica
mondiale per adattarla alle nuove esigenze dell’ambiente, magari
mettendo in cantiere una legislazione comune e possibilmente un’autorità
sovranazionale, capace di monitorare ed eventualmente punire gli
inquinatori. Carraro ed Altri (2008), nel libro “Cambiamenti climatici e
strategie di adattamento in Italia”, fanno un'accurata analisi delle
possibili conseguenze dei cambiamenti del clima dal punto di vista
strettamente economico, concludendo che nel periodo 2001-2050 in Italia
il riscaldamento globale comporterebbe una perdita di PIL tra lo 0,16%
ed il 0,2%, che significherebbe (calcolo sul 2050 a prezzi correnti) una
diminuzione del reddito nazionale di 20-30 miliardi di euro. I settori
maggiormente danneggiati sarebbero quello energetico, quello agricolo e
quello dei servizi. Siamo davvero informati nel modo corretto? Va da se
che la comunità scientifica non è affatto unanime nella definizione
della gravità del problema “riscaldamento globale”, ma in più è noto che
la maggior parte della gente ricava le informazioni sull'argomento dai
mass media, che notoriamente creano una loro realtà tramite il modo con
cui rappresentano le informazioni che trasmettono.
CONCLUSIONI
La conclusione più
corretta sembra essere che ANCHE l'uomo può agire sul
clima. Principalmente accelerando determinati meccanismi climatici e
riducendo le difese “fisiologiche” del pianeta.
Il progresso richiede
sempre più energia, ma tale energia ovviamente non può essere
ricavata in eterno dai combustibili fossili (destinati in ogni caso ad
esaurirsi).
Il PIL non può essere
l'unico indice di benessere perché anche
l'ambiente presenta i suoi conti. Pertanto appare sensata la proposta
della
Commissione Europea di ridurre entro il 2020 del 20% i consumi
energetici,
aumentando l'efficienza energetica del 20% sia nel civile che
nell'industriale, con l'impiego del 10% di biocarburanti.
Il PIL non può quindi
essere considerato come unico indice di benessere, perché appare
fondamentale ricordare che anche l'ambiente, presto o tardi, presenta il
conto.
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Debora Tollardo |