La cultura delle emergenze:
le catastrofi naturali non esistono
di Nicola Inversi
Come molti autori hanno fatto notare, se
paragoniamo la storia del nostro pianeta con la storia dell’uomo, questa
ne risulta solo un piccolo frammento. È un dato oggettivo che al di là
di discorsi etici e religiosi, offre comunque una possibilità di
riflessione. La Terra è sempre esistita, esiste tuttora ed esisterà
ancora se mai la specie umana dovesse scomparire. I più radicali ed
estremisti sostengono che sostanzialmente la Terra possa quindi fare a
meno della presenza dell’uomo, quasi fossimo degli ospiti di passaggio e
per giunta poco graditi.
Ma il genere umano c’è ed attivo più che
mai. Il suo ruolo e le sue attività hanno un forte peso e impatto a
livello globale sul futuro di chi un giorno abiterà il pianeta al posto
nostro e sul pianeta stesso.
Per troppo tempo abbiamo avanzato diritti
sullo sfruttamento delle risorse ambientali. Ma non possiamo più
disporne in maniera illimitata e scriteriata. Ma soprattutto non
possiamo più lavarcene le mani senza un’assunzione di responsabilità. E
questo gesto vale tanto per chi ha una personale coscienza ed etica
ambientale, tanto per chi non ne ha.
Che in ballo ci siano interessi politici,
economici o puramente etici, siamo comunque costretti a fare i conti con
le nostre azioni. Abbiamo dei doveri nei confronti del patrimonio
naturale. Tant’è che i soli principi morali non sono più sufficienti, ma
servono veri e propri modelli di comportamento. Va rivisto il ruolo
dell’uomo all’interno dell’ambiente.
Oggi come oggi l’educazione ambientale (che
almeno sulla carta è diventata materia obbligatoria all’interno della
scuola dell’obbligo) sicuramente è un buon punto di partenza, in quanto
non si può prescindere da una corretta e rigorosa conoscenza della
natura e di tutto ciò che la circonda. Credo però che la scuola italiana
non sia pronta, non abbia sempre docenti formati adeguatamente a tale
insegnamento. Inoltre è facile lasciarsi influenzare da ideologie
politiche, limitarsi a sterili slogan pro-ambiente o ancor peggio farsi
strumentalizzare dalla politica. Ognuno di noi dovrebbe costruirsi una
propria coscienza/cultura ambientale. Tutto questo dovrebbe portare a
riflettere sulle nostre azioni, sul fatto che non possiamo perseguitare
sulla strada dello sfruttamento incondizionato e indefinito delle
risorse. Non possiamo più avanzare i nostri soli diritti, ma è ora di
prestare più attenzione ai nostri doveri e alle nostre responsabilità,
soprattutto nei confronti delle generazioni future: questo mondo è tanto
nostro quanto loro.
La storia dell’uomo è costellata da una
miriade di calamità e disastri.
La natura spesso viene additata come
colpevole, come causa di disastri quasi avesse un’indole propria, quasi
la natura fosse cattiva. Ancora oggi i mass media parlano di “catastrofi
naturali”, inculcando ancora di più nell’opinione pubblica un concetto
di fondo completamente errato.
La natura non è cattiva. La natura segue il
suo normale corso, ha una sua ciclicità formata da eventi naturali che
si ripropongono di tanto in tanto. Da quando c’è vita sulla terra, prima
ancora della comparsa dell’uomo, eventi come eruzioni, terremoti,
impatti cosmici, frane, alluvioni, inondazioni, grandi mutamenti
climatici, hanno avuto un forte impatto sull’esistenza degli organismi
viventi, spesso a livello planetario. E anche dopo l’avvento dell’uomo,
questi eventi hanno continuato a susseguirsi. L’uomo è tornato in quelle
zone teatro di grandi disastri, continua ad abitarle e a porre le basi
del proprio futuro. È giusto a questo punto porsi una domanda
provocatoria: è la natura a uccidere o sono scelte errate a portare
disgrazie? È una colata di fango lungo un versante disboscato o la
scelta di costruirci li la nostra villa di campagna? È il terremoto a
fare vittime o le case che ci crollano addosso perché mal costruite?
La più nota eruzione del Vesuvio risale al
79 d.C. Dopo di essa ce ne sono state molte altre anche se meno note,
fino all’ultima del 1944. Eppure l’area vesuviana continua ad essere
densamente popolata, fin quasi all’interno del cratere stesso. Ma casi
simili si registrano in tutta Italia, anche dove spesso la toponomastica
ci viene in aiuto e dove i nomi delle località fanno riferimento ad
eventi calamitosi: uno dei più famosi è probabilmente il Monte Toc.
Da qui il passo a trasformare in catastrofe
quella che è semplicemente l’evoluzione naturale del pianeta, è breve.
L’uomo sembra non tenere traccia degli
eventi passati, non ha una memoria storica che li riguardi. In parte è
sicuramente dovuto al periodo di ritorno di tali eventi che,
fortunatamente, tende ad essere piuttosto lungo o al massimo a rimanere
nella memoria della generazione che l’ha vissuto. Fatto sta che quando
una calamità arriva, la popolazione è impreparata, non sa come reagire e
quasi sempre davanti ad eventi di piccola portata siamo costretti a
registrare ingenti danni e perdite di vite umane.
Il 26 dicembre del 2004 è ormai una data
nota a molti a causa dello Tsunami di Sumatra. Il terremoto che lo ha
provocato è stato il più violento (secondo alcuni esperti, il secondo)
per energia sprigionata da quando esistono i sismogrammi. Secondo le
stime ci furono circa 230.000 morti. In pochi però sono a conoscenza che
in quella regione vivono alcune tribù di popolazioni primitive: molti le
diedero per spacciate, per estinte. Ma le cose andarono diversamente.
Queste popolazioni hanno conservato un rapporto profondo con la natura,
ne sanno interpretare i segnali, la rispettano e ne difendono
l’integrità, ma soprattutto non hanno dimenticato che quelle regioni
sono teatro di eventi quasi apocalittici. Ai primi sentori, non appena
hanno notato cambiamenti anomali del livello della marea, si sono
rifugiati nella boscaglia. Questi uomini primitivi si sono salvati,
eppure non possiedono certo le nostre tecnologie, i sistemi di
monitoraggio e di allerta. Dove invece si sarebbe dovuto non solo
prevedere, ma prevenire una catastrofe simile abbiamo avuto centinaia di
migliaia di vittime, oltre che danni economici considerevoli.
Oltre la memoria storica, un altro fattore
determinante è quindi il diverso rapporto con l’ambiente circostante,
che sia un ambiente naturale o artificiale. E qui il paradosso è forte.
Paesi, città, ambienti “costruiti” dall’uomo sono a forte rischio.
Nonostante il progresso tecnologico, per molti versi la nostra
vulnerabilità è aumentata.
Manca completamente una cultura degli
eventi, una conoscenza profonda dei fenomeni naturali. Forse anche per
questo nel nostro Paese la politica della prevenzione è piuttosto
debole. E questa ignoranza ingiustificata colpisce l’intera società, dal
cittadino comune al politico.
Serve una corretta e adeguata formazione
scolastica che l’educazione ambientale, ma non solo, può dare.
Ma è anche necessaria una corretta
informazione e conoscenza dei rischi presenti all’interno del nostro
territorio.
La realtà delle cose però è ben diversa.
L’educazione ambientale prevista nella
scuola dell’obbligo, troppo spesso è completamente assente o fatta male.
L’opinione pubblica è poco interessata se
non addirittura indifferente e certe tematiche.
La popolazione non è preparata ad affrontare
un’emergenza di qualsiasi tipo. Non sa quali sono i comportamenti
adeguati da assumere per evitare quanto più possibile i danni arrecati
da un evento calamitoso. Eppure spesso basterebbero piccoli
accorgimenti, per esempio: non precipitarsi fuori in strada durante una
scossa sismica; evitare di fuggire in macchina intasando le strade per
ore e bloccando l’afflusso dei mezzi di soccorso; usare il telefono ben
sapendo di sovraccaricare la linea fino all’inevitabile blocco. Questa
preparazione risulta carente non solo da un punto di vista
comportamentale, ma anche da un punto di vista psicologico: se manca una
cultura dell’emergenza, figuriamoci una psicologia dell’emergenza. Le
persone si ritrovano puntualmente in balia degli eventi.
Anche l’informazione data dai mass media non
aiuta durante la fasi più critiche. Spesso la TV in primo luogo tende a
focalizzare l’attenzione sulle immagini più cruenti dell’evento:
trasmettere ininterrottamente immagini di palazzi crollati dopo un
evento sismico, senza mostrare all’opinione pubblica che la stragrande
maggioranza degli edifici è ancora in piedi, vuol dire dare un pessimo
contributo a chi gestisce l’emergenza.
Non è affatto facile comunicare in
emergenza: da un lato bisogna dare informazioni quanto più precise e
chiare possibili, dall’altra non bisogna allarmare la gente con il
rischio che si scatenino situazioni di panico collettivo. Ci sono
diversi studi portati avanti da esperti in Disaster Management con
l’aiuto di psicologi qualificati: in situazioni di potenziale pericolo e
in assenza di informazioni o di qualcuno che prenda decisioni e dia
direttive, sembra che gli individui tendano ad adeguare il proprio
comportamento a quello degli altri.
Gli esperti ritengono che il comportamento
di una folla non sia riconducibile alla somma dei singoli comportamenti
individuali, ma il tutto sembra avere una propria dinamica. Bisogna dire
che solitamente le situazioni di panico (sia collettivo che individuale)
sono molto meno frequenti di quanto si pensi o di quanto mostrino la
televisione e il cinema, ma nel caso dovessero verificarsi bisogna tener
presente che sono situazioni al limite, difficile da gestire e
controllare.
Altro ruolo importante nella comunicazione
in emergenza lo hanno le cosiddette “voci”. E spesso voci scaturite dai
mass media acquisiscono un’autorevolezza tale da trasformarle in notizie
prese per certe. Negli ultimi anni abbiamo assistito spesso ad uno
scambio paradossale tra esperti/scienziati e giornalisti, con il
risultato che negli spettatori i primi acquisivano più fiducia e
considerazione dei secondi. E anche le polemiche tra esperti stessi
(vedi le tante discussioni attorno alla misurazione della quantità di
radon come strumento di previsione dei terremoti) hanno il solo
risultato di confondere la popolazione e, ancor peggio, perderne la
fiducia.
Altro rischio da evitare, soprattutto nella
fase di allarme, è quello del “al lupo al lupo”. Sono tanti gli episodi
in passato in cui le persone sono state fatte evacuare davanti ad un
pericolo dato per certo o semplicemente per precauzione, per poi
rendersi conto che tale pericolo non si verificava. Sono situazioni
molto difficili da gestire, in cui bisogna pensare alla sicurezza delle
persone coinvolte senza allarmarle e senza perderne la fiducia.
Emblematico è il caso di Stromboli nel 2006, quando una frana caduta in
mare provocò un piccolo tsunami. In seguito furono posti degli apparati
acustici in grado di dare l’allarme per l’evacuazione nel caso in cui la
frana avesse continuato a muoversi: dopo i primi allarmi risultati poi
infondati, la gente ha poi ignorato i successivi e si è addirittura
arrivati al punto che alcuni apparati furono disinstallati dagli
abitanti stessi.
Si capisce facilmente quanto sia difficile
gestire un’emergenza o una fase di allarme. Ma nel nostro paese è
altrettanto difficile, se non di più, attuare una politica di
prevenzione. La prevenzione dovrebbe richiedere la gran parte delle
energie spese dagli enti e dalle autorità preposti alla protezione e
alla difesa civile. Ma spesso in Italia la previsione di un potenziale
pericolo non si traduce in una consapevolezza della popolazione
interessata e in alcuni casi dalle strutture pubbliche stesse. Troppo
spesso manca completamente la percezione del rischio e dove c’è, la
continua esposizione tende a ridurne tale percezione.
Oltre ad un problema culturale vi è quindi
un problema politico. La prevenzione è spesso un lavoro “invisibile”
agli occhi del cittadino e di cui sicuramente non ne ha un immediato
guadagno. Ha molto più risalto per esempio la rivalutazione di spazi
verdi e ricreativi che non la messa in sicurezza degli edifici o
l’attuazione di norme sismiche sulla costruzione degli edifici stessi.
Il tutto si riduce ad un semplice discorso politico e quindi elettorale.
Un altro ostacolo alla prevenzione sono
certamente i costi. Fare prevenzione costa molto e come detto
precedentemente il cittadino comune non sempre ne ha un immediato
rientro (anzi si spera che non ne abbia proprio visto che vorrebbe dire
mettere alla prova la solidità di un edificio durante un evento sismico
per esempio). Nonostante spendere in prevenzione costi decisamente meno
che spendere dopo un’emergenza, la strada intrapresa quasi sempre in
Italia è la stessa: si attende una calamità e si ricostruisce.
Sempre da un punto di vista prettamente
politico poi, ci sarebbe anche da dire che condoni edilizi e
finanziamenti statali a seguito di calamità, sono ulteriori ostacoli
alla cultura della prevenzione. Si costruisce dove non si dovrebbe
costruire e come se ciò non bastasse lo si fa anche male. Ma non è
finita qui: a seguito di una calamità, ci sono anche i contributi per la
ricostruzione. Una politica della prevenzione dovrebbe andare di pari
passo con una pianificazione territoriale. Quando questa si scontra con
vincoli normativi, interessi malavitosi, impianti abusivi non può che
uscirne sconfitta. L’esperienza dell’Abruzzo non ha fatto altro che
confermare, anche se per molti è stata una novità, che speculare sui
disastri e sul degrado ambientali frutta molto più che una politica di
prevenzione. E troppo frequentemente nessuno paga i propri errori.
Sono fermamente convinto che la strada
giusta per cambiare qualcosa, sia quella di perseguire una politica di
prevenzione, supportata però da una cultura dell’ambiente, da un’attenta
conoscenza del proprio territorio, dei rischi legato ad esso, da una
buona formazione scolastica (che non si limiti alla scuola dell’obbligo)
e da un’accurata pianificazione territoriale.
Ma è un percorso che cittadini, politici e
istituzioni pubbliche devono compiere assieme. Se questo bisogno di
sicurezza diventa un volere collettivo, allora le cose cominceranno a
cambiare.
Bisogna tenere conto e convincersi che
chiunque nel suo ambito può fare qualcosa. Non dobbiamo aspettare una
politica che parta dall’alto per cominciare a muoverci o di imposizioni
e sanzioni rigide dal punto di vista normativo. Fare qualcosa per il
nostro ambiente è possibile anche con i scarsi mezzi a cui ha accesso un
comune cittadino, tenendo conto che quanto fatto va a sommarsi a quello
fatto da altri, che nel complesso diventa qualcosa di sostanzioso.
Bisogna far nostra la cultura dell’autoprotezione, prendere coscienza
dei rischi e delle problematiche ambientali, acquisire adeguati
comportamenti per farvi fronte (quando non possono essere prevenuti),
prenderci le nostre responsabilità nei confronti delle generazioni
future rivedendo i nostri modelli e stili di vita, mutando il nostro
rapporto e ruolo all’interno dell’ambiente.
Nicola Inversi |