DEGRADO AMBIENTALE, CAMBIAMENTI CLIMATICI ED
ECOMIGRAZIONI:
LA MEDIAZIONE CULTURALE IN PROSPETTIVA ECOLOGICA E
AMBIENTALE
di
Veronica Leotta
INDICE
Immigrazione e migrazione
……………………………………………………….. p. 3
Le
migrazioni ambientali
………………………………………………………..…. p. 4
La
protezione temporanea
…………………………………………………….….. p. 7
La
direttiva 2001/55/CE del Consiglio dell’Unione Europea
………………… p. 8
I
migranti ambientali
……………………………………………………………...... p. 11
Cause principali delle migrazioni ambientali e possibili soluzioni
…….… p. 13
Ambiente come bene e valore collettivo
…………………………………….......p. 14
La
mediazione culturale
………………………………………………………….................... p. 15
Il
mediatore culturale
................................................................................................
p. 17
L’identità di luogo (place identity)
……........................................................................p.
19
La
mediazione culturale in prospettiva ecologica e ambientale
…………..............… p. 21
Bibliografia
.................................................................................................................p.
23
Articoli, saggi, recensioni e documenti online
……………………………….................... p. 24
Sitografia
....................................................................................................................p.
29
Immigrazione e migrazione
Lo
scrittore Umberto Eco ritiene che si debba distinguere il concetto di
immigrazione da quello di migrazione.
“Si
ha immigrazione quando alcuni individui (anche molti, ma in
misura statisticamente irrilevante rispetto al ceppo di origine) si
trasferiscono da un paese all’altro […]. I fenomeni di immigrazione
possono essere controllati politicamente, limitati, incoraggiati,
programmati o accettati. Non accade così con le migrazioni. Violente o
pacifiche che siano, sono come i fenomeni naturali: avvengono e nessuno
le può controllare. Si ha migrazione quando un intero popolo, a
poco a poco, si sposta da un territorio all’altro (e non è rilevante
quanti rimangano nel territorio originale, ma in che misura i migranti
cambino radicalmente la cultura del territorio in cui hanno migrato).
[…]
Sino
a che vi è immigrazione i popoli possono sperare di tenere gli immigrati
in un ghetto, affinché non si mescolino con i nativi. Quando c’è
migrazione non ci sono più i ghetti, e il meticciato è incontrollabile.
I fenomeni che l’Europa cerca ancora di affrontare come casi di
immigrazione sono invece casi di migrazione. Il Terzo Mondo sta bussando
alle porte dell’Europa, e vi entra anche se l’Europa non è d’accordo. Il
problema non è più di decidere (come i politici fanno finta di credere)
se si ammetteranno a Parigi studentesse con il chador o quante moschee
si debbano erigere a Roma. Il problema è che nel prossimo millennio (e
siccome non sono un profeta non so specificare la data) l’Europa sarà un
continente multirazziale, o se preferite, colorato. Se vi piace,
sarà così; e se non vi piace, sarà così lo stesso”.
Le
migrazioni ambientali
Il
fenomeno migratorio è sempre esistito nella storia dell’umanità e ha
numerose spiegazioni antropologiche, sociologiche, psicologiche,
culturali, religiose, economiche e politiche. Solo recentemente si è
iniziato a parlare anche di migrazioni provocate da fattori
ambientali (Environmentally Induced Migration - EIM),
quest’ultimi ritenuti tra le cause più importanti che inducono le
popolazioni a spostarsi.
Le
migrazioni ambientali vengono distinte in due tipi fondamentali:
1)
migrazioni causate da catastrofi naturali,
come inondazioni, tsunami, terremoti, eruzioni vulcaniche, valanghe,
cicloni, uragani, incendi, disastri chimici e nucleari provocati
dall’essere umano, guerre per il controllo delle materie prime del
territorio (acqua, petrolio, carbone, metano, gas, legname, minerali e
metalli preziosi, ecc.), carestie e progetti infrastrutturali di
sviluppo che obbligano le persone ad abbandonare immediatamente le
proprie abitazioni;
2)
migrazioni causate da lenti cambiamenti ambientali,
come degradazione ed erosione del suolo, deforestazione,
desertificazione, effetto serra, inquinamento dell’acqua, del suolo e
dell’aria, salinizzazione delle terre irrigate, erosione delle coste e
delle rive dei fiumi, estrema aridità, piogge irregolari, innalzamento
del livello dei mari, eccetera.
È
difficile definire le ecomigrazioni proprio per la loro varietà,
dimensione geografica, durata e fattori ambientali che le determinano.
Nel
caso delle migrazioni causate da lenti cambiamenti ambientali, spesso i
migranti non riconoscono i fattori ecologici come causa della loro
decisione di abbandonare la loro terra, giustificando la loro scelta
esclusivamente in base a ragioni economiche e sociali. Un’analisi più
attenta, però, evidenzia come spesso la povertà o la mancanza di
sicurezza sociale, che spingono i migranti a spostarsi, abbiano radici
ambientali. In questi casi, infatti, i fattori ecologici inducono alla
migrazione in maniera indiretta, poiché essi si intrecciano anche con i
fattori sociali, economici e politici del paese coinvolto.
William Lacy Swing, direttore generale dell’OIM (Organizzazione
Internazionale per le Migrazioni), ha fatto notare che “queste
migrazioni sono in larga misura interne – soprattutto dalle zone rurali
alle aree urbane – o dirette verso paesi limitrofi”, e tipiche dei Paesi
in via di sviluppo.
Le
migrazioni indotte dal cambiamento globale dell’ambiente e del clima
sono un tema nuovo e complesso, che richiede da parte dei suoi studiosi
una formazione interdisciplinare, in cui si dovrebbero incrociare
conoscenze e competenze appartenenti a diversi campi del sapere, come le
scienze ecologiche e ambientali, per quanto riguarda i fattori
scatenanti, e le scienze sociali, economiche e giuridiche, per quanto
riguarda le sue conseguenze. Questo fenomeno, inoltre, rivestirà
un’importanza crescente anche per i Paesi industrializzati che, oltre a
essere i maggiori responsabili del caso, attualmente non hanno ancora
sviluppato alcuna politica per rispondere concretamente a tale problema.
Il dibattito
giuridico intorno a questo argomento è molto acceso, soprattutto per ciò
che riguarda la possibilità di “riconoscere” i migranti indotti da cause
ecologiche e climatiche come rifugiati ambientali. Questi ultimi,
infatti, giuridicamente non esistono, non sono riconosciti come
“rifugiati” dalla Convenzione di Ginevra del 1951 né dal suo Protocollo
supplementare del 1967, due strumenti normativi emanati dall’Onu e
sottoscritti da 146 Stati. Secondo la definizione giuridica contenuta
nella
Convenzione firmata a
Ginevra il
28 luglio
1951,
il rifugiato
è colui “che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di
razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo
sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui
è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi
della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e
trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale, a seguito di
tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui
sopra”.
Tale
Convenzione detta chi può essere considerato un rifugiato e le forme di
protezione legale, altra assistenza e diritti sociali che il medesimo
dovrebbe ricevere dagli Stati aderenti al documento. Al contempo, essa
definisce anche gli obblighi del rifugiato nei confronti dei governi
ospitanti e alcune categorie di persone, ad esempio i criminali di
guerra, che non possono accedere allo status di rifugiati.
Questo “strumento” era inizialmente limitato a proteggere i rifugiati,
perlopiù europei, provocati dalla seconda guerra mondiale, ma il
Protocollo di New York del 31 gennaio 1967 ne ha esteso il raggio
d’azione.
“Tutti i richiedenti asilo che non rientrano nella definizione della
Convenzione di Ginevra vengono classificati come:
·
rifugiati “de facto”,
coloro che di fatto sono ospitati da un Paese per motivi umanitari;
·
rifugiati “in orbita”,
persone che cercano asilo in un Paese terzo, diverso dal primo Paese di
soggiorno;
·
immigrati,
coloro che migrano per ragioni economiche e non possono avvalersi del
fatto di subire persecuzione da parte dello Stato di origine, quindi non
hanno titolo di protezione dall’Alto Commissariato;
·
rifugiati ambientali,
coloro che fuggono dalle catastrofi ambientali a cui l’Alto
Commissariato offre soltanto assistenza primaria per motivi umanitari”.
Accanto al termine di rifugiato, è ormai consuetudinario l’uso
dei termini sfollato e profugo.
Il
rifugiato è il richiedente asilo a cui viene accordata la protezione
del Paese in cui si trova quando si accerta che è stato costretto a
lasciare il proprio Paese a causa di persecuzioni per motivi di razza,
religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o
per le sue opinioni politiche.
Per
sfollato s’intende chi abbandona la propria abitazione a causa di
catastrofi naturali, ma non oltrepassa il confine internazionale,
restando dunque all’interno del proprio Paese.
Il
termine profugo, invece, indica chi è costretto a lasciare il
proprio Paese a causa di guerre, persecuzioni, violazioni di diritti
umani o catastrofi naturali e oltrepassa il confine internazionale.
La
protezione temporanea
E’ una forma
di protezione umanitaria transitoria e generalizzata che viene
rilasciata nelle situazioni di emergenza a un gruppo omogeneo di persone
– profughi o sfollati – provenienti da uno stesso Paese o area
geografica a causa degli sconvolgimenti in atto: guerre, persecuzioni,
violazioni di diritti umani o catastrofi naturali. É una
procedura di carattere
eccezionale
che garantisce, nei casi di afflusso massiccio e imminente di sfollati
provenienti da Paesi non appartenenti all’Unione Europea, una tutela
immediata e temporanea alle persone, in particolare qualora sussista il
rischio che il sistema d’asilo non possa far fronte alla situazione di
emergenza.
La
direttiva 2001/55/CE del Consiglio dell’Unione Europea
“Norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di
afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli
sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le
conseguenze dell’accoglienza degli stessi”
La
direttiva europea, emanata il 20 luglio 2001, stabilisce le norme minime
nel caso in cui il Consiglio dell’Unione Europea decida (a maggioranza
qualificata) di aprire le frontiere agli sfollati che necessitano di
protezione temporanea immediata (art. 5), dunque di dichiarare lo stato
di emergenza e adottare misure di accoglienza temporanea. La direttiva,
attualmente, ha il valore di rappresentare una politica comune a livello
europeo per quanto riguarda la concessione della protezione temporanea
agli sfollati nei casi che di volta in volta si verificano.
La direttiva
europea è stata
recepita dall’Italia con l’emanazione del
Decreto Legislativo 7 aprile 2003, n. 85.
Il
recepimento da parte dell’Italia della direttiva non c’entra nulla con
la facoltà completamente autonoma del Governo italiano di adottare (a
prescindere da una decisione europea) misure di accoglienza per gli
sfollati determinati da eventi eccezionali. Infatti, l’articolo 20
del Testo Unico (Misure straordinarie di accoglienza per
eventi eccezionali) prevede che il Governo, con decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri, possa adottare “misure di
protezione temporanea […] per rilevanti esigenze umanitarie, in
occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di
particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea”.
Lo Stato italiano ha adottato questa procedura nei
confronti di cittadini albanesi, jugoslavi, somali e kosovari.
Quindi la possibilità di aprire le frontiere agli sfollati e di
concedere loro un permesso di soggiorno straordinario per motivi di
protezione temporanea esiste già in base alla legge italiana. A questa
si può aggiungere una decisione del Consiglio dell’Unione Europea che
vincola direttamente e contemporaneamente tutti i Paesi europei
interessati.
La
direttiva europea 2001/55, resa esecutiva anche in Italia in seguito al
suo recepimento nel 2003, prende in considerazione alcuni aspetti
interessanti:
Ø
Permesso di soggiorno
Secondo l’articolo 4 della direttiva, la durata della protezione
temporanea è pari a 1 anno, salvo proroga automatica di 6 mesi in 6 mesi
per un periodo massimo di 1 anno, con possibilità di proroghe ulteriori,
qualora persistano ancora motivi per la concessione della protezione
temporanea. Quest’ultima può essere revocata anticipatamente (art. 6)
nel caso in cui venga meno (prima del tempo previsto) lo stato di
emergenza nelle zone di provenienza degli sfollati e sia, quindi,
possibile un “rimpatrio assistito” nei paesi d’origine. La protezione
temporanea, in ogni caso, può durare al massimo 3 anni.
Alla
fine del periodo di protezione temporanea si applicano le norme vigenti
in materia di stranieri (art. 20); nei casi precedenti che si sono
verificati (crisi dei Balcani, Albania, e Kosovo), in genere è stata
ammessa la conversione del permesso di soggiorno da motivi umanitari a
lavoro, a coloro che avevano i requisiti previsti dalla Legge per
ottenere tale permesso di soggiorno.
Ø
Diritto ai documenti
Chi è
in possesso del permesso di soggiorno rilasciato sulla base della
protezione temporanea ha diritto all’iscrizione anagrafica presso il
Comune di residenza, che può quindi rilasciare la carta di identità. Se
i soggetti ritengono pericoloso per se stessi chiedere l’intervento
delle proprie rappresentanze diplomatiche per il rilascio/rinnovo dei
passaporti nazionali, possono chiedere alle Questure il rilascio del
Titolo di Viaggio, documento equipollente al passaporto.
Si
precisa che molti documenti italiani, certificati, patente di guida,
eccetera, sono legati al requisito dell’iscrizione anagrafica presso il
Comune di residenza.
Ø
Diritto al Lavoro
E’
consentito alle persone che godono della protezione temporanea, per il
periodo della durata di quest’ultima, di esercitare qualsiasi attività
di lavoro subordinato o autonomo (art. 12).
Ø
Diritto allo studio e alla formazione professionale
E’
garantito l’accesso al sistema scolastico pubblico per i minori di anni
18 (art. 14); è consentita la formazione professionale, la formazione
degli adulti e gli stage lavorativi (art. 12).
Ø
Diritto alla salute
E’
garantita l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, sulla base della
residenza anagrafica (art.13).
Ø
Diritto all’assistenza
Gli
interventi di natura previdenziale (assegni familiari, assicurazione
obbligatoria contro gli infortuni, indennità di disoccupazione) sono
legati all’aver instaurato un regolare rapporto di lavoro; gli
interventi di assistenza sociale sono legati al possesso della residenza
anagrafica ed erogati dal Servizio Sociale del Comune di residenza,
sulla base di specifici regolamenti. Alcuni benefici presuppongono però
l’ottenimento della carta di soggiorno e non del semplice permesso di
soggiorno.
Ø
Ricongiungimento familiare
E’
garantito il diritto al ricongiungimento familiare (art. 15) secondo le
modalità e i requisiti previsti per tutti gli altri stranieri. A
differenza dei rifugiati riconosciuti quindi, sono necessari i requisiti
del
reddito e dell’alloggio idonei.
Ø
Protezione ulteriore
E’
garantito, in ogni momento, a chi gode della protezione temporanea il
diritto a presentare domanda di asilo (articoli 17, 18 e 19).
Ø
Cittadinanza italiana
In
questo caso la
cittadinanza italiana
può essere concessa dopo 10 anni di permesso di soggiorno e di residenza
legale.
Tutti questi provvedimenti in materia di protezione
temporanea non possono pregiudicare in nessun modo l’esercizio del vero
e proprio diritto al riconoscimento dello status di rifugiato ai
sensi della Convenzione di Ginevra (art. 3).
I
migranti ambientali
In
che categoria collocare i migranti ambientali? È possibile estendere
loro le garanzie offerte ai rifugiati? Purtroppo, è da sottolineare
l’attuale assenza di riconoscimento e protezione legale per queste
persone, costrette a migrare a causa di fenomeni ecologico-ambientali a
volte lenti ma devastanti. Si tratta di individui estremamente
vulnerabili, poiché non tutelati dalle leggi internazionali: la
definizione classica di rifugiati infatti non li include.
Le
statistiche, però, attestano che oggi i rifugiati ambientali sono di più
dei rifugiati per motivi politici, religiosi e per conflitti bellici (OIM).
A
livello internazionale non esiste ancora una definizione unanimemente
accettata di “rifugiato ambientale”. Al momento, inoltre, né il diritto
italiano né quello dell’Unione Europea contengono “specifiche tutele”
per questa nuova categoria di profughi.
La
tutela che più si avvicina ai cosiddetti rifugiati ambientali è attiva
dal 1990 negli USA, dove una legge (Immigration Act) assicura
protezione temporanea ai cittadini di Paesi colpiti da “terremoti,
inondazioni, siccità, epidemie o altri disastri ambientali che abbiano
dato luogo a uno sconvolgimento sostanziale ma temporaneo delle
condizioni di vita e a condizione che lo Stato colpito abbia richiesto
ufficialmente la protezione temporanea dei propri cittadini agli USA”.
Considerato ciò, serve una legislazione ancora più coraggiosa che
permetta di concedere asilo e tutele a lungo termine a chi fugge per
eventi di tipo ambientale e climatico irreversibili, e non solo per
calamità temporanee. Attualmente, comunque, il problema più
urgente è quello di dare una definizione di migrante ambientale che:
a)
sia facilmente comprensibile;
b)
raccolga un vasto consenso;
c)
garantisca facile documentazione e quantificazione;
d)
risulti accettabile ai politici e agli studiosi.
I
tentativi di delineare le caratteristiche essenziali dei migranti
ambientali sono stati numerosi.
Nel
1985 Essam El-Hinnawi, allora direttore dell’UNEP (United Nations
Environment Programme), ha usato il termine profughi ambientali
per comprendere tre categorie di persone:
1)
sfollati a causa di spostamenti temporanei dovuti a
calamità naturali,
2)
sfollati a causa di degrado ambientale permanente,
3)
coloro che migrano in modo permanente o temporaneo a
causa di cambiamenti ecologici nel loro ambiente, poiché non riescono a
ridurre l’incidenza di tali cambiamenti.
Jodi
Jacobson, del Worldwatch Institute, li ha invece definiti come:
“Quelle persone temporaneamente sfollate a causa di sconvolgimenti
ambientali locali; quelle che migrano perché il degrado ambientale ha
minacciato i loro mezzi di sostentamento oppure presenta rischi
inaccettabili per la salute; quelle che si stanziano altrove perché il
degrado del suolo è sfociato nella desertificazione o a causa di altre
mutazioni permanenti nell’habitat”.
Norman Myers, uno dei maggiori studiosi della disciplina, tenendo conto
di tutti i fattori ambientali, ecologici e climatici in questione, ha
fornito a tal proposito la definizione di rifugiati ambientali:
“[…] sono
persone che non possono più garantirsi mezzi sicuri di sostentamento
nelle loro terre di origine a causa di fattori ambientali di portata
inconsueta, in particolare siccità, desertificazione, deforestazione,
erosione del suolo, ristrettezze idriche e cambiamento climatico, come
pure disastri naturali quali cicloni, tempeste e alluvioni. Di fronte a
queste minacce ambientali, tali persone ritengono di non avere
alternative alla ricerca di un sostentamento altrove, sia all’interno
del loro paese che al di fuori, sia su base semipermanente che su base
permanente”.
William B. Wood, il geografo ufficiale del Dipartimento di Stato USA, ha
proposto il termine ecomigranti per far riferimento a persone che
si spostano per cause ecologico-ambientali. Questo termine, secondo lo
scienziato, permetterebbe di raggruppare i molteplici fattori
riguardanti il legame tra degrado ambientale, sostentamento delle
persone e migrazioni forzate.
Cause principali delle migrazioni ambientali e possibili soluzioni
Nel
2000 i rifugiati ambientali erano circa 25 milioni. Nel 2010 questo
numero è raddoppiato e, secondo una valutazione fornita dall’OIM, nel
2050 i rifugiati potrebbero raggiungere i 250 milioni.
Secondo uno studio dell’ONU, le cause principali delle migrazioni
ambientali sono soprattutto tre:
1)
riduzione della piovosità
in America centrale e in Africa occidentale. Nella maggior parte dei
territori la disponibilità di acqua si potrebbe ridurre almeno del 25%
nella seconda metà del secolo;
2)
riduzione dei ghiacciai in Asia.
Questo porterà a inondazioni nel breve periodo e a siccità estive nel
medio-lungo periodo;
3)
innalzamento dei mari,
con conseguente riduzione della terra abitabile e salinizzazione.
Secondo il rapporto dell’Agenzia per le Migrazioni, sarebbero 192
milioni le persone (pari a circa il 3% della popolazione mondiale) che
vivono fuori dal loro luogo di nascita. Secondo i maggiori studiosi del
fenomeno, sarebbero quattro i punti fondamentali per liberare questi
“prigionieri” del degrado ecologico-ambientale e del cambiamento
climatico globale (global warming):
1)
riconoscimento da parte della comunità internazionale del
problema,
2)
politiche contro la vulnerabilità,
3)
mantenimento alto del livello della ricerca,
4)
aiuto ai Paesi in via di sviluppo.
Ambiente come bene e valore collettivo
Per
ambiente s’intende la totalità dei fattori abiotici esterni che formano
lo spazio in cui si muovono e vivono gli organismi, che invece
costituiscono i cosiddetti fattori biotici. Lo spazio viene considerato
come il complesso delle condizioni che consentono e favoriscono la vita
degli organismi biologici (umani, animali e vegetali). Tutti i
componenti ambientali interagiscono strettamente tra loro e con la vita
degli esseri umani, con il loro stato fisico, psicologico e spirituale,
e quindi con la loro salute. La buona qualità dell’ambiente risulta
dunque di estrema importanza per la salvaguardia dei fattori che
determinano il benessere fisico, psicologico e spirituale
dell’individuo. L’ambiente è, pertanto, un bene collettivo, la cui
tutela costituisce un impegno essenziale per la salute dei singoli e
della collettività. Il “bene” ambiente è un concetto a cui finalmente si
è dato dignità; esso viene ormai accettato come un “valore”, infatti non
ci si riferisce più solo ai beni oggettivamente ed esteticamente belli e
quindi da tutelare, quali le opere artistiche, i paesaggi e le bellezze
naturali, ma anche alle risorse naturali quali l’aria, l’acqua e il
suolo, la fauna e la flora, non soltanto utili, ma indispensabili per la
sopravvivenza della specie umana e di tutte le forme biologiche
esistenti sul Pianeta.
Tutti
insieme gli elementi elencati rappresentano un patrimonio pubblico, che
la stessa Costituzione della Repubblica Italiana propone e tutela
attraverso l’articolo 9:
“La
Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e
tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della
Nazione”.
Il
Parlamento italiano sta valutando le proposte di riforma di tale
articolo, il cui testo attualmente in esame prevede l’aggiunta di un
terzo comma, che menziona le generazioni future come titolari di
interessi giuridicamente rilevanti:
“La
Repubblica riconosce la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi quale
valore fondamentale anche nell’interesse delle future generazioni”.
La
mediazione culturale
Quasi
tutte le società umane sono multiculturali. Attualmente, però, il
problema fondamentale è quello di promuovere e far convivere in modo
pacifico le diverse culture. Una società monoculturale rallenta
lo sviluppo delle capacità critiche, alimenta il pensare per stereotipi
e il razzismo. Una società multiculturale, invece, forma (educa e
istruisce) i suoi cittadini all’alterità; si tratta di una
società che non si limita a illustrare le culture altrui, ma cerca di
coltivare e far penetrare nei codici che la caratterizzano una cultura
basata principalmente sul rispetto reciproco.
La
scoperta della mediazione culturale o interculturale in
Italia è piuttosto recente, infatti il problema degli altri si è
risvegliato soprattutto in relazione ai flussi migratori. In questa
circostanza inizialmente è prevalso soprattutto un atteggiamento di
assimilazione, che spesso presupponeva per gli stranieri percorsi di
adattamento alla nostra cultura. Il superamento di questo atteggiamento,
invece, si è avuto attraverso l’integrazione, in cui le agenzie
formative si sono rese responsabili dell’effettiva attuazione del
“diritto alla diversità” dei migranti. La mediazione culturale dovrebbe
coinvolgere tutti in percorsi di crescita personale globale
in cui è possibile sperimentare e acquisire anche una “cultura
dell’Altro”. Una “mentalità mondiale”, così come è stata definita dal
pedagogista e filosofo americano William H. Kilpatrick (1871-1965), è
una mentalità in cui trovano posto processi come l’integrazione dei
diversi e la cooperazione.
La
condivisione di modelli e valori interculturali comuni può rappresentare
una grande risorsa per la pacifica convivenza dei popoli e per il loro
sviluppo. Per tali ragioni, diviene sempre più importante trovare
strumenti adeguati che favoriscano, da un lato, l’integrazione delle
persone immigrate, dall’altro, la conoscenza di informazioni utili per
tutti coloro che vivono l’accoglienza e la condivisione come difficoltà.
La
mediazione culturale è dunque un’attività in grado di facilitare le
relazioni tra i cittadini italiani e gli stranieri, la comunicazione, la
conoscenza, la comprensione, l’integrazione e l’educazione alla
cittadinanza terrestre di ogni singolo individuo.
Il
mediatore culturale
La
figura del mediatore culturale nasce dall’esigenza di conciliare più di
un interesse e di salvaguardare alcuni valori culturali e religiosi
delle numerose comunità immigrate presenti sul territorio. Si tratta di
uno specialista, la cui formazione richiede un’attenta conoscenza e un
continuo aggiornamento sulle tematiche riguardanti l’immigrazione, la
pedagogia interculturale e i diritti umani.
Un
buon mediatore culturale dovrebbe possedere le seguenti caratteristiche:
·
solida formazione culturale,
·
conoscenza dei meccanismi della comunicazione,
·
capacità di mediazione,
·
pazienza,
·
tolleranza,
·
solidarietà,
·
empatia,
·
ascolto attivo,
·
adattamento,
·
creatività,
·
integrazione,
·
conoscenza sia del Paese di accoglienza sia del Paese di
provenienza dello straniero (cultura, religione, tradizioni, valori,
leggi, ecc.).
Altri
requisiti fondamentali per un operatore culturale sono:
·
padronanza della lingua italiana e, almeno, di un’altra
lingua straniera;
·
conoscenza di base della legislazione italiana;
·
elasticità nell’interpretazione del proprio ruolo;
·
possibilità di accesso ai servizi e alle modalità di
espletamento delle principali pratiche.
Il mediatore
culturale è un interprete della cultura di appartenenza dello
straniero immigrato, dove per cultura si intende il complesso delle
norme sociali e religiose, delle consuetudini, delle abitudini, dei
modelli e stili di vita sia educativi che comportamentali. Tale figura
professionale
ha il compito di
favorire gli scambi culturali tra
italiani e stranieri, per produrre valore sociale e civile grazie a un
positivo e continuo confronto fra i migranti e gli operatori delle
realtà educative, economiche, sociali, giudiziarie e sanitarie.
“Il
mediatore culturale è quel professionista in grado di collaborare con
terzi soggetti, come libero professionista o lavoratore dipendente, per
creare un servizio che consenta allo straniero di integrarsi con il
territorio e i cittadini, evitando i rischi connessi alla clandestinità
e all’ignoranza”.
Il
lavoro svolto da tale figura professionale si rende quindi utile, e a
volte indispensabile, in diversi settori sociali:
·
Settore Scolastico:
fornendo indicazioni sul sistema scolastico italiano, sulla normativa,
per agevolare la programmazione e l’organizzazione della didattica
favorendo la relazione fra le famiglie immigrate e i docenti e rendendo
partecipi i genitori stranieri del processo formativo (educativo e
istruttivo) dei figli all’interno delle Istituzioni scolastiche.
·
Settore dell’Orientamento, Informazione e Formazione
professionale:
fornendo le competenze necessarie all’utente straniero per l’ingresso
nel mondo del lavoro.
·
Settore Giuridico:
fornendo le conoscenze relative alla legislazione statale, regionale,
provinciale e comunale in materia di immigrazione e agevolando i
rapporti con le istituzioni giudiziarie e amministrative.
·
Settore Socio-Sanitario:
affiancando e aiutando il personale dei servizi sociali e sanitari e
semplificando le relazioni fra i cittadini immigrati e le U.S.L.
“Il
mediatore culturale denuncia un malessere per conto dell’immigrato, si
fa portavoce del suo bisogno di giustizia, lancia un allarme alla
società invitandola ad affrontare e a risolvere il problema che lui ha
studiato ma che non può risolvere autonomamente perché investe la
competenza di altri soggetti”.
Tale
figura, pertanto, deve essere in grado di lavorare in rete con
più enti del territorio. Le principali strutture pubbliche presso le
quali la sua presenza risulta utile, e sempre più spesso indispensabile,
sono gli ospedali, le carceri, i provveditorati agli studi – al fine di
accompagnare l’inserimento degli studenti immigrati nelle scuole – i
servizi sociali, i tribunali, i centri di prima accoglienza,
orientamento, consulenza, informazione e formazione. L’operatore
culturale, agendo con imparzialità, utilizza il proprio patrimonio di
conoscenza individuale e la capacità di gestione delle relazioni e delle
interazioni personali per rappresentare, nel modo migliore possibile, le
esigenze e le caratteristiche degli stranieri. Egli gode della loro
fiducia, sia per i suoi requisiti personali che per le sue
caratteristiche culturali, ed esercita la funzione di tramite tra i
bisogni dei migranti e le risposte offerte dai pubblici servizi.
Il
mediatore culturale è un operatore essenziale al giorno d’oggi, non
riconoscere e non valorizzare tale figura, e l’utilità sociale che
deriva dal suo operato, vuol dire ignorare la complessità del fenomeno
immigrazione.
L’identità di luogo (place identity)
Il
concetto di identità di luogo (place identity), spesso
definita anche identità territoriale o territorialità, è
intimamente correlato a quello di identità personale (personal
identity) e culturale (cultural identity). Esso è stato
introdotto in psicologia ambientale (un ramo della psicologia sociale) a
partire dagli anni Settanta, per indicare quella parte dell’identità
delle persone che deriva dall’essere nato, dal vivere o abitare in un
determinato luogo o ambiente socio-fisico. Questo tipo di identità si
riferisce quindi al legame emotivo-affettivo che unisce una persona al
proprio spazio, al proprio luogo di origine, all’ambiente dove vive o ha
vissuto, e quindi al proprio territorio. Si tratta di un fenomeno
naturale, comune a molti animali, e riguarda per prima cosa la difesa
dello spazio personale dall’intrusione degli “estranei”. Indica la
relazione tra uomo e ambiente in un contesto tridimensionale
società-spazio-tempo. Rappresenta l’insieme delle relazioni che le
comunità di persone, cioè le società, intrattengono con il mondo
ecologico, biologico e antropologico per il soddisfacimento dei propri
bisogni e nella prospettiva di ottenere un più elevato livello di
autonomia e benessere.
“Forse non
possiamo definire il luogo senza il soggetto che lo fonda; […] senza il
soggetto […] il luogo non nasce: il luogo nasce dall’interazione del
soggetto con la fisicità del territorio”.
Ogni
luogo offre a ciascun essere umano stimoli affettivi, emotivi e
sensoriali, tali da produrre attrazione o rifiuto, sintonia o dissenso,
empatia o disinteresse. Ogni individuo, nel corso del tempo, si
“appropria” dello spazio con cui intrattiene relazioni profonde e
significative, perciò la territorialità rappresenta un processo aperto e
circolare che dipende dalla persona e dal tipo di relazioni che questa
instaura con un particolare territorio, luogo o paesaggio.
“Il
paesaggio non esiste senza gli abitanti e la loro azione
quotidiana. […] il paesaggio non esiste senza che ci sia una cultura
capace di leggerlo […] Abitare un luogo è, principalmente, un processo
di conoscenza – o presa di coscienza – che consente a ciascuno di
individuare una propria identità, all’interno di tale contesto. […]
Probabilmente, il modo migliore per rendersi conto dell’influenza del
paesaggio sulla formazione delle identità è viaggiare, allontanarsi,
provarne l’assenza, sperimentare la fatica di abitare altrove, in altri
paesaggi. E’ un buon esercizio culturale, perché ogni paesaggio è fatto
di segni che devono essere interpretati, per essere significanti,
per dire qualcosa. […] per leggere un paesaggio e comprenderlo […] c’è
bisogno che l’osservatore entri a far parte del paesaggio e che
il suo processo di lettura si manifesti, interagendo con il luogo”.
L’identità di luogo si fonda su un insieme di valori individuabili nella
sua storia, nella sua memoria, nella sua cultura, negli aspetti
caratteristici della ricettività, dell’accoglienza e delle produzioni
tipiche e locali, nella sua capacità di comunicare, meravigliare,
suscitare sentimenti, emozioni e ricordi. Essa si ottiene “quando” una
persona o una comunità di persone, consapevole del proprio passato,
decide “dove”, “come” e “con chi” creare il proprio presente
nella prospettiva di realizzare un futuro migliore per Sé e per
l’Altro.
La
mediazione culturale in prospettiva ecologica e ambientale
In
cosa consiste la mediazione culturale in prospettiva ecologica e
ambientale? Si tratta di una mediazione che, in linea generale,
possiede le stesse caratteristiche e prerogative della tipica mediazione
culturale o interculturale, ma con un “quid” in più rispetto a
quest’ultima. Infatti, questo tipo di mediazione considera anche:
·
ogni forma di degrado ecologico-ambientale;
·
i cambiamenti ambientali e climatici attualmente in atto
sul Pianeta;
·
le migrazioni provocate da tali cambiamenti (ecomigrazioni);
·
leggi, direttive, convenzioni, trattati, dichiarazioni,
carte e documenti nazionali e internazionali che, direttamente o
indirettamente, fanno riferimento alle catastrofi naturali, ai
cambiamenti climatici ed ecologici, alla tutela dell’ambiente, degli
ecomigranti e della loro cultura;
·
l’identità culturale e territoriale di almeno due
Paesi (geografia, storia, memoria, monumenti, tradizioni, cultura,
valori, lingua, religione, patrimonio folcloristico e spirituale, miti,
riti, leggende, allegorie, racconti, prodotti tipici e locali,
artigianato tradizionale, ecologico ed etnico, luoghi, bellezze
architettoniche, paesaggistiche e naturalistiche, suoni, colori, profumi
e simboli).
Essere un mediatore culturale in prospettiva ecologica e ambientale
significa conoscere, custodire, valorizzare e promuovere, in sinergia,
ogni forma di diversità:
·
biodiversità,
cioè la diversità degli organismi viventi (vegetali, animali e umani);
·
ecodiversità,
cioè la diversità degli ecosistemi, degli ambienti in cui vivono e
interagiscono esseri umani, animali e vegetali;
·
diversità culturale,
linguistica, etnica e religiosa;
·
alterità,
vale a dire “l’altro da me”, inteso come qualcuno o qualcosa da
trattare con rispetto, curiosità e attenzione.
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Veronica Leotta |