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Energia "pulita":TECNologie alternative e impatti ambientali
di Rossana
Bagnasco
Oggi si parla spesso
di tecnologie alternative (agli idrocarburi) come possibile soluzione
per la produzione di energia con un impatto minimo sull’ambiente e sulla
salute umana. Le più note sono i generatori eolici e i pannelli
fotovoltaici, che sfruttano il vento e il sole ma esistono anche le
centrali a biomassa, a turbogas e i termovalorizzatori che producono
energia con la combustione di materiale di scarto proveniente da
attività agroforestali, di gas naturale, di rifiuti.
In questo articolo
si è cercato di fare una sintetica panoramica su queste tecnologie
mettendo in luce oltre che i pregi noti a molti, gli impatti che possono
avere sull’ambiente se il loro impiego non tiene conto delle reali
esigenze della popolazione, delle condizioni e caratteristiche del
territorio dove si vanno a realizzare le opere e degli effetti della
loro messa in funzione. Non va mai dimenticato che anche un’ottima
tecnologia se usata senza criterio si trasforma da possibile soluzione a
nuovo problema. Un po’ come se una persona assumesse una nuova medicina
che si dice miracolosa per curare un malessere, senza nemmeno leggere le
avvertenze e le modalità d’uso.
Parchi eolici
Lo sfruttamento di
energia eolica e solare avviene con tecnologie cosiddette “pulite”, cioè
che non producono inquinamento atmosferico o idrico. Tuttavia non sono
prive di impatto ambientale, soprattutto se la loro applicazione viene
lasciata in preda alle leggi del perseguimento del solo profitto,
derivato dalle consistenti possibilità di incentivo ma senza una severa
e oculata regolamentazione.
Un esempio di questo
rischio (casi di sconsiderata applicazione di un’ottima tecnologia) è
l’eolico, di cui negli ultimi anni si è parlato molto, come della nuova
frontiera dell’energia pulita per l’Italia che, come sappiamo, di vento,
come di sole, è assai ricca. Gli incentivi statali di cui gode l’eolico
sono la vendita di Certificati Verdi e la Tariffa Onnicomprensiva. I
primi sono emessi dal GSE (Gestore dei Servizi Energetici), su richiesta
dei produttori di energia da fonti rinnovabili, e possono essere
rivenduti da questi ultimi a quelle aziende che hanno l’obbligo di
produrre una certa quota di energia da fonte rinnovabile; la seconda è
una tariffa di ritiro da parte del GSE e include sia l’incentivo sia la
remunerazione derivante dalla vendita dell’energia immessa nella rete
elettrica. Il periodo di incentivazione dura 15 anni. Come conseguenza,
gli impianti e le torri eoliche si sono moltiplicate sul territorio e
sono presenti in diversa misura in molte regioni, addirittura in
“parchi” eolici detti anche fattorie del vento.
Purtroppo questi
aerogeneratori hanno un impatto ambientale molto più pesante di quello
che si crede. Lo stesso Ministero dell’ambiente, sebbene ne sottovaluti
l’importanza, individua alcune tipologie di impatto, sia positivi che
negativi, di seguito elencate:
1. occupazione del territorio;
2. variazione al paesaggio;
3. emissioni acustiche;
4. interferenze elettromagnetiche;
5. disturbo all'avifauna stanziale e migratoria;
6. produzione di energia da immettere direttamente sulla rete locale
(impatto positivo);
7. disponibilità di potenza direttamente vicino ai centri di carico
locali (impatto positivo);
8. emissioni inquinanti evitate dalla sostituzione di una quota parte
del parco termoelettrico (impatto positivo).
L’impatto sul
paesaggio è facilmente intuibile viste le dimensioni gigantesche delle
torri (fino a 70/130 m di altezza) ed è difficilmente risolvibile;
l’occupazione del territorio è effettivamente ridotta, visto che la
struttura si sviluppa principalmente in altezza, ma il vero problema
sono i lavori di sbancamento per la messa in posa delle imponenti
fondamenta in calcestruzzo armato e dei plinti di ancoraggio che per
resistere alle oscillazioni e vibrazioni dovute all’effetto del vento su
tutta la torre, devono essere collocati a grande profondità.
Si prendono qui come
esempio i dati riportati in una valutazione di impatto e di incidenza
ambientale di un parco eolico in Abruzzo.
Per una torre eolica di 79 m di altezza e 93 m di diametro del rotore,
si usa un plinto a pianta ottagonale iscritto in un quadrato delle
dimensioni 14m x 14m e dell’altezza di 2 m. Per il montaggio dei singoli
aerogeneratori è necessaria la costruzione di piazzole di circa 40m x
22m, che in fase di esercizio verrebbero ridotte a 400 m2, e
la realizzazione di un’area di stoccaggio di 1 ettaro, ottenuta mediante
sbancamento e poi riportata allo stato “ante opera” a fine lavori. A
questo si aggiunge la costruzione di una cabina di trasformazione MT/AT
(alta tensione / media tensione) su una superficie di 4.300 m2
con movimenti di terra di circa 2.700 m3 di scavo e 3.200 m3
di riporto. Altro necessario intervento è la costruzione delle
linee di collegamento alla rete di trasmissione nazionale, e la messa in
posa di cavidotti interrati, con una lunghezza complessiva di quasi
19.000 m, per le connessioni elettriche fra gli aerogeneratori e la
sottostazione di trasformazione. Le pale eoliche previste in questo
progetto sono 10. In fase di costruzione del parco sarà
trasformata in cantiere un’area di circa 88.000 m2 , che sarà
ridotta a fine lavori a 25.000 m2 .
E’ intuibile che
interventi di questa portata abbiano effetti pesantissimi sul suolo,
sulla fauna, e sulla flora ad esso legate. Inoltre dovranno essere
appositamente create, se non esistono già, oppure modificate e ampliate,
le strade che permetteranno il passaggio dei mezzi pesanti necessari per
il trasporto dei materiali e per i lavori di impianto e che, come
abbiamo imparato a nostre spese, aggravano il dissesto idrogeologico del
territorio e provocano un’alterazione definitiva degli ecosistemi del
posto. Sebbene la legge italiana preveda l’obbligo di ripristinare lo
stato dei luoghi a fine attività, i costi di rimozione di questi enormi
aerogeneratori e delle fondamenta sarebbero molto elevati e quindi, si
teme, difficilmente messi in atto nella realtà. Può essere utile
sottolineare che parlare di “ripristino dello stato dei luoghi” non è
molto realistico in questi casi poiché un habitat è composto
essenzialmente da esseri viventi e territorio in equilibrio fra loro.
Una volta distrutto questo equilibrio, essere intervenuti pesantemente
sul territorio, aver allontanato la componente faunistica e rimosso
quella vegetale, è impossibile ricreare la situazione preesistente. Non
si tratta di una macchina che anche se smontata, poi torna come prima.
Col tempo si creerà un equilibrio nuovo ma non è detto che abbia lo
stesso valore naturalistico di quello che è andato perduto.
Per quanto riguarda
il terzo punto, si tende anche in questo caso a sottovalutare il
problema: il rumore di fondo della turbina, può generare disturbi alla
salute umana ma si ritiene trascurabile se l’aerogeneratore viene
collocato ad una certa distanza dalle abitazioni. Tuttavia è noto che il
suono, portato dal vento, può percorrere distanze non trascurabili.
Inoltre sembra che siano emessi anche alti livelli di infrasuoni che,
pur non essendo udibili dall’orecchio umano, possono avere effetti
pesanti sul corpo. Secondo Alec N. Salt, del Laboratorio di Ricerca sui
Fluidi Cocleari dell’Università di Washington in St. Louis,
le persone che vivono vicino alle turbine eoliche possono manifestare
sintomi come perdita di equilibrio, sensazione di ronzio, tintinnio o
fischi alle orecchie, e disturbi del sonno (risvegli frequenti parziali
o totali, impossibilità di riposare bene) che generano stress e, se
prolungati nel tempo, possono avere gravi ripercussioni sulle condizioni
psicofisiche dell’individuo.
Un altro effetto
collaterale della presenza delle torri eoliche sembra essere il disturbo
ai radar per il controllo del traffico aereo.
Numerose
associazioni ambientaliste come Italia Nostra, LIPU, WWF etc., hanno
lamentato il pesante impatto negativo che le pale hanno sull’avifauna
sia stanziale che migratrice e sui chirotteri, riferendo percentuali di
mortalità di queste specie molto più elevate di quelle ammesse dai
sostenitori dell’eolico.
Senza contare che se una specie è considerata rara o a rischio di
estinzione, anche la morte di pochi individui può essere devastante,
soprattutto se si somma a quella causata da altri fattori. Non
dimentichiamo che i parchi eolici vengono situati su crinali esposti al
vento, soprattutto sulla catena degli Apennini e incontrano spesso le
rotte delle specie migratorie. In generale queste associazioni lamentano
un’eccessiva vicinanza ai SIC e la costruzione degli impianti eolici in
aree non idonee o perché legate a vincoli paesistici e idrogeologici o
perché aree caratterizzate dalla presenza di un importante componente
floristica e/o faunistica (es. specie di uccelli nidificanti o fiori
rari spontanei).
Dal punto di vista
normativo è stata più volte sottolineata la carenza di norme che pongano
limiti rigorosi all’utilizzo dell’eolico in determinate aree o in
concentrazione eccessiva e che, stabiliscano l’obbligatorietà della
procedura di VIA per tutti i progetti, il controllo e l’approvazione di
più enti e non soltanto di quelli direttamente interessati alla loro
realizzazione come ad esempio i singoli comuni. Alcuni di questi
potrebbero essere tentati di perseguire il mero interesse economico per
risanare il bilancio a scapito della tutela del paesaggio, dell’ambiente
e delle caratteristiche idrogeologiche del territorio, il cui mancato
rispetto può aumentare il rischio di frane e inondazioni. E’ opinione di
molti che gli incentivi per l’eolico fossero troppo remunerativi e non
abbiano favorito un approccio più cauto e critico all’utilizzo di questa
tecnologia, come invece sarebbe stato doveroso, a causa proprio degli
enormi interessi economici che le orbitano attorno. Va comunque detto
che non tutti gli ambientalisti condividono queste preoccupazioni: Lega
Ambiente e Greenpeace sostengono con forza la diffusione dell’eolico pur
non avendo, apparentemente, risolto le obiezioni e le critiche poste da
altri.
Infine va ricordato
che per mettere in luce queste problematiche sono nate diverse realtà
che si oppongono all’eolico “selvaggio”: ad esempio a livello europeo
esiste l’ EPAW che pubblica sul suo sito notizie molto interessanti e
studi in merito.
Nella Gazzetta
Ufficiale del 18 settembre 2010 sono state finalmente pubblicate le
linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti
rinnovabili. Si auspica comunque che non si finisca col puntare tutto
sull’eolico, nel campo dell’energie rinnovabili e soprattutto non si
tralasci un provvedimento importante almeno quanto l’incentivazione
delle fonti alternative: il risparmio energetico. Gli obiettivi imposti
dall’Europa che punta ad abbattere del 20% le emissioni di gas ad
effetto serra entro il 2020 (rispetto ai livelli del 1990), grazie anche
alle energie rinnovabili, si potrebbero raggiungere molto più facilmente
se accompagnati da una riduzione dei consumi ma soprattutto dei tanti
sprechi. L’obiettivo dell’Italia è il 17% di consumo finale lordo di
energia da rinnovabili e secondo l’Ewea (European Wind Energy
Association) siamo in deficit dello 0,9%). In un articolo de Il
sole24ore.com è stata pubblicata l’affermazione di Costantino Lato,
responsabile dell'unità ingegneria della direzione operativa del Gse,
nel marzo 2010 a Reuters, in cui dice che la percentuale italiana è al
7% (nel 2005 l’Ewea riportava per l’Italia il 5,2%), e che il governo
avrebbe dovuto introdurre incentivi per l'utilizzo di energia verde
anche per il riscaldamento residenziale e industriale.
Pannelli fotovoltaici
Un’altra importante
fonte di energia pulita e rinnovabile è il fotovoltaico.
Anche i pannelli
fotovoltaici hanno potuto beneficiare di molti incentivi (il cosiddetto
Conto Energia) e si sono diffusi largamente al punto che si è passati
dall’installazione sui tetti di edifici, capannoni e abitazioni, a
quella a terra con l’occupazione del suolo che ha suscitato numerose
polemiche come nel caso in cui interi campi, dapprima ad uso agricolo,
sono stati ricoperti di pannelli.
Di recente è stato
completata un’enorme impianto fotovoltaico in provincia di Rovigo, fra
San Bellino e Castelguglielmo, grande come 120 campi da calcio (850.000
m2 ), per una potenza di 72 Mwatt. In questo caso, secondo
quanto affermato dall’assessore alle politiche per il territorio della
Regione Veneto Marangon,
l’impianto è stato realizzato in un’area industriale per cui i
prevedibili e comprensibili timori di chi teme una perdita di terreno
utile all’agricoltura, saranno smorzate sul nascere.
Problematica è la
situazione in varie regioni e province dove le richieste per creare
grandi impianti a terra si sprecano. Infatti, con gli incentivi
disponibili, rende di più affittare il terreno per i pannelli solari che
non coltivarlo con danno per le attività agricole e paesaggio.
Il soggetto
attuatore che qualifica gli impianti fotovoltaici, eroga gli incentivi
ed effettua attività di verifica è il Gestore dei Servizi Energetici o
GSE S.p.a., una società per azioni di cui è azionista unico il Ministero
dell’Economia e delle Finanze.
Secondo quanto
stabilito dal Decreto del 19-02-07 riguardanti le norme del secondo
conto energia, gli impianti fotovoltaici si distinguono in tre tipologie
incentivabili: 1) non integrati, con i moduli collocati al suolo; 2)
parzialmente integrati, con i moduli appoggiati sulle superfici
esterne di edifici, fabbricati e altre strutture 3) ad integrazione
architettonica, i cui moduli fanno parte delle superfici invece
di esservi solo appoggiati.
Con il decreto 6 agosto 2010 il terzo conto energia, le tipologie
incentivabili sono quattro: 1) “impianto fotovoltaico integrato con
caratteristiche innovative”, che utilizza moduli e componenti speciali,
sviluppati specificatamente per sostituire elementi architettonici,
e risponde ai requisiti costruttivi e alle modalità di installazione
indicate; 2) “impianto fotovoltaico realizzato su un edificio” i cui
moduli sono posizionati sugli edifici secondo modalità
individuate; 3) “sistema solare fotovoltaico a concentrazione o impianto
fotovoltaico a concentrazione” con produzione di energia elettrica
mediante conversione diretta della radiazione solare, tramite l'effetto
fotovoltaico (composto principalmente da un insieme di moduli in cui la
luce solare è concentrata, tramite sistemi ottici, su celle
fotovoltaiche, da uno o più gruppi di conversione della corrente
continua in corrente alternata e da altri componenti elettrici minori);
4) “impianto fotovoltaico con innovazione tecnologica” che utilizza
moduli e componenti caratterizzati da significative innovazioni
tecnologiche
.
L’impatto ambientale
del fotovoltaico a terra riguarda in primo luogo il paesaggio poiché una
distesa di pannelli solari è ovviamente un elemento di discontinuità e
disarmonia piuttosto pesante, in proporzione al valore del paesaggio
stesso. In secondo luogo vanno considerati gli impatti generati da tutte
le attività necessarie all’installazione degli impianti stessi:
eliminazione della vegetazione presente in sito, per regolarizzare la
superficie del terreno; opere di fondazione; lavori di interramento dei
cavidotti; presenza di campi elettromagnetici. Allo scopo di minimizzare
tutti questi fattori negativi sarebbe opportuno collocare gli impianti
fotovoltaici di grandi dimensioni in zone industriali dismesse, dove
l’impatto antropico abbia già avuto i suoi effetti, la presenza di flora
e fauna sia comunque ridotta ed esista il vantaggio della presenza di
infrastrutture senza bisogno di crearle. E’ fondamentale evitare la
diffusione dei pannelli su terreni ad uso agricolo o a scapito di
habitat naturali preesistenti. Caratteristica molto apprezzabile è
l’assenza di emissioni di tipo liquido o gassoso o di rumore (problema
molto sentito invece per l’eolico). Non sembra esservi produzione di
rifiuti se non durante la fase di smantellamento.
E’ importante
ricordare che, nonostante i loro numerosi pregi, durante la fase di
produzione, l’impatto ambientale dei pannelli è assimilabile a quello di
una qualsiasi produzione industriale poiché, sono impiegate sostanze
come triclorosilano, il fosforo ossicloridrico e l'acido cloridrico. La
costruzione del pannelli di silicio amorfo comporta l’utilizzo di
silano, la fosfina e il diborano; quella dei CIS (Copper, Indium,
Selenium), il seleniuro di idrogeno e quella dei CdTE (tellururo di
cadmio) il cadmio, che è molto tossico.
Comunque, durante la fase di utilizzo, la presenza di queste sostanze,
non sembra comportare alcun rischio o impatto sulla salute. La “vita”
media di un pannello è di 25 anni e in seguito allo smantellamento quasi
tutte le parti dei pannelli fotovoltaici possono essere riciclate
(grazie un progetto portato avanti da un consorzio, PV CYCLE, nato nel
2007 con lo scopo di creare un programma di ritiro e riciclo dei
pannelli solari a “fine vita”).
I pannelli
fotovoltaici, quando si trovano in condizioni STC di prova standard
(Temperatura di funzionamento = 25 °C + o – 2°C ; Livello di
irraggiamento solare incidente = 1000 W/m2; Distribuzione spettrale =
massa d’aria 1,5), sviluppano una quantità di energia che è detta
potenza massima (o di picco Wp) che dipende dal tipo di pannello. Le
condizioni standard STC sono difficili da ottenere per cui la potenza
effettivamente sviluppata dal pannello sarà l’85-90% di quella indicata
dall’STC rating specificato (fonte infopannellisolari.com).
Per quanto riguarda
il generatore eolico invece, la massima energia che può produrre è il
59,3% di quella del vento che lo attraversa (Legge di Betz), per cui
un’efficienza del 40-50% è già considerata molto alta.
Sia il fotovoltaico
che l’eolico hanno il limite di produrre energia a intermittenza, solo
quando la fonte primaria (sole o vento) è disponibile, che non può
essere immagazzinata.
In conclusione, le
fonti rinnovabili sono una alternativa irrinunciabile alla produzione di
energia ma il loro utilizzo deve avvenire nei limiti del rispetto del
territorio e delle sue componenti, paesaggistica, floristica, faunistica
e non ultima quella idrogeologica.
Ad essere sotto
accusa non sono l’energia eolica o quella solare, che sono una risorsa
preziosissima, ma gli speculatori che ci “campano” sopra. Non è in
discussione, ad esempio, che l’eolico sia un ottimo sistema di
produzione dell’energia, ma piuttosto che non esiste una sufficiente
onestà etica in alcune aziende del settore o, in alternativa, un
controllo e una sorveglianza sufficientemente approfonditi e rigorosi da
parte degli enti preposti per evitare che si verifichino situazioni come
quelle della Sicilia, dove sono stati costruiti impianti che non
funzionano per la scarsità di vento. E’ evidente che non ci sono stati
adeguati mezzi legislativi e amministrativi di controllo sul settore
delle energie rinnovabili, gli incentivi a sostegno delle quali, li
hanno resi un richiamo irresistibile per vergognose speculazioni di cui
tutti pagheremo lo scotto. Questo importante settore dell’energia va
sfruttato ma anche tutelato con una pianificazione a livello nazionale
del suo sviluppo e della sua diffusione che privilegi, rispetto a quelli
che perseguono il solo profitto, progetti nati allo scopo di risolvere
esigenze energetiche dove effettivamente esistono e dove sono state
individuate modalità non impattanti per soddisfarle. Ad oggi, le linee
guida per le rinnovabili ci sono, ma continua a mancare un Piano
Energetico Nazionale (PEN) che regoli il consumo, la produzione o
l’importazione di energia e le modalità con cui ciò viene fatto nel
nostro Paese.
Centrali a biomassa
Le centrali a
biomassa sono impianti che ricavano energia, elettrica o per il
teleriscaldamento dalla combustione di una serie di materiali come ad
es. legname, residui agricoli e forestali, scarti dell'industria
agroalimentare, rifiuti urbani, specie vegetali coltivate per lo scopo,
etc. Purtroppo però facendo questo inquinano: a parte la produzione di
CO2, che dipende da quella assorbita dalla pianta viva,
bruciando un composto organico come il legno in presenza del cloro in
esso contenuto, si produce diossina.
Vengono emessi anche: ossidi di azoto (Nox) e di zolfo (Sox)
che non sono completamente eliminabili e particolato atmosferico, come
le ceneri che dovranno esser filtrate efficacemente per evitare che
finiscano nell’atmosfera. A conferma di ciò, studi condotti
dall’Istituto Nazionale Ricerca sul cancro di Genova hanno riscontrato
come, in due paesi appenninici, nelle abitazioni in cui si usava legna
da ardere per la stufa, le concentrazioni di benzo(a)pirene erano
tendenzialmente maggiori di quelle trovate in case che usavano il metano
o il GPL come combustibile. Il benzo(a)pirene è un composto cancerogeno
che, insieme a numerosi composti tossici e grandi quantità di polveri
fini ed ultrafini, viene prodotto durante le combustioni di biomasse.
Anche
l’approvvigionamento idrico è un problema di cui tenere conto: per il
reintegro di acqua nel circuito di raffreddamento di un impianto a
biomassa di circa 10 MWe di potenza sono necessari 50-100 m3/ora.
Se le biomasse che
servono non sono reperibili nelle zone circostanti in quantità
sufficienti, per garantire il funzionamento della centrale, dovranno
essere raccolte in altre parti d’Italia o addirittura all’estero
aumentando così l’inquinamento secondario dovuto ai mezzi di trasporto
(CO2 , smog), il consumo energetico (carburante per i
veicoli) e i costi (di trasporto + acquisto biomassa). Sono previste
persino coltivazioni destinate ad alimentare le centrali che avranno
ripercussioni sul territorio e sull’economia non sempre positive. I
residui agricoli utilizzati potrebbero essere scarti di coltivazioni
trattate con concimi o pesticidi chimici che, bruciando, rilascerebbero
sostanze pericolose. Se questo non bastasse, è permesso bruciare anche
rifiuti (C.D.R.Q. combustibili derivati da rifiuti di qualità) in queste
strutture alzando ulteriormente il rischio di inquinamento. Anche in
questo caso gli impianti beneficiano degli incentivi derivati dai
certificati verdi emessi dal GSE. Perché non diventi un danno invece che
una risorsa, ogni centrale a biomassa dovrebbe essere di dimensioni
proporzionate alla produzione e alla regolarità di scarti vegetali
(pulizia del verde pubblico o dei boschi circostanti, scarti di
lavorazione del legno delle aziende di quel territorio o di agricoltura
biologica, etc.) della zona in cui sorge (il cosiddetto Km 0 anche per
il combustibile) e destinata alla produzione di energia o
teleriscaldamento solo per le utenze domestiche di piccoli paesi che,
integrando questo sistema con altre fonti rinnovabili, avranno la
possibilità di rendersi autonomi energeticamente. Invece, purtroppo, gli
incentivi vantaggiosi e lo scarso controllo, hanno fatto sì che questo
settore sia diventato preda di aziende e/o amministrazioni pubbliche che
mirano solo al soddisfacimento dei loro interessi economici o al
risanamento del bilancio, invece che alla diminuzione dell’inquinamento
e alla tutela ambientale, generando così un controsenso visto che si
parla di fonti rinnovabili e di energia “pulita”.
Le biomasse possono
essere sfruttate anche per la produzione di biogas (composto da metano
al 50-80%) derivato dalla loro fermentazione batterica in condizioni
anaerobiche. A questo scopo si utilizzano: residui organici provenienti
da rifiuti, materiale vegetale o animale in decomposizione, liquami
zootecnici o fanghi di depurazione, scarti dell'agro-industria.
La materia organica viene messa in apposite strutture a tenuta stagna, i
digestori, dove i batteri agiscono in assenza di ossigeno. Il biogas
così prodotto viene raccolto, deumidificato, compresso ed immagazzinato
per essere utilizzato combustibile.
Gli impianti a
biogas possono essere associati ad un’attività agricola o zootecnica
oppure di tipo industriale, quando sfruttano i rifiuti urbani. Questo
processo avviene già spontaneamente nelle discariche di rifiuti dove c’è
una grande quantità di materiale organico.
L’utilizzo più
razionale di questa tecnologia ha come scopo la diversificazione
dell’attività di un’azienda agricola che riutilizza quelli che sarebbero
scarti di produzione, come materia prima per la produzione di biogas da
trasformare in energia con cui soddisfare il proprio fabbisogno e della
quale rivendersi il surplus (doppio vantaggio economico= risparmio
energetico attraverso l’autoconsumo + entrate derivate da scambio
sul posto oppure ritiro dedicato oppure libero mercato) utilizzando gli
incentivi .
Centrali a turbogas
Le centrali a ciclo
combinato con turbina a gas (le cosiddette turbogas o CCGT) generano
corrente elettrica mediante una turbina a gas abbinata ad una a vapore
tramite due cicli termodinamici. La materia prima utilizzata è appunto
il gas naturale che, bruciando insieme ad aria, trasforma l’acqua in
vapore da cui una turbina ricaverà energia meccanica che poi sarà
trasformata in energia elettrica da un generatore. In generale questo
tipo di impianto per la produzione di energia viene considerato più
efficiente (rendimento di circa il 56 %) rispetto ad altri tipi di
centrale come quella a carbone mentre minori sono i costi di
investimento e i tempi di realizzazione. Tuttavia i costi di produzione
dell’elettricità dipendono dal prezzo di mercato della materia prima
(gas naturale) di cui però il nostro Paese non è ricco e che quindi va
importato dall’estero.
La maggior parte
delle riserve si trovano in paesi al di fuori dell’Unione Europea: il
41,3% è in medio oriente, il 33,5% in Europa ed Eurasia (di cui il 25,2%
nei paesi della federazione russa), il 4,5% in Nord America.
Il commercio
internazionale avviene per circa l’80% via gasdotto e per circa il 20%
con le navi metaniere che lo trasportano sottoforma di gnl (gas naturale
liquefatto ottenuto raffreddando il gas a –162°C ad una pressione di 1
atm, in modo da ridurne il volume di circa 600 volte).
Nel 2007 l’Italia ha
prodotto lo 0,3% (8,9 miliardi di m3) della quantità totale
di gas naturale del mondo mentre i consumi si attestano intorno al 2,7%
(77,8 miliardi di m3) del totale mondiale. Tramite gasdotti,
abbiamo importato gas naturale da Germania (1,50), Paesi bassi (6,11),
Norvegia (8,99), Regno Unito (0,75), Federazione Russa (23,80), Algeria
(22,10) e Libia (9,20) per un totale di 72,45 miliardi di m3
a cui si aggiungono 2,43 miliardi di m3 di gnl sempre
dall’Algeria. L'85% del gas consumato nel nostro Paese proviene
dall'estero: il 30% dalla Russia, il 40% dal Nord Africa, il 15% dai
paesi che si affacciano sul Mare del Nord (principalmente Olanda e
Norvegia). La produzione nazionale è il 15% del fabbisogno.
Sebbene presentino
il vantaggio di essere meno inquinanti delle centrali a carbone a cui
vengono paragonate, anche quelle a turbogas inquinano: producono CO2
, metano, N2O. Secondo due diversi studi condotti da
ricercatori di CNR, ASL e due diverse università,
gli effetti delle turbogas sulla salute e sull’ambiente potrebbero
essere più pesanti di quello che si crede: analizzando i dati di
centrali già esistenti, alcune in California e una a Montecchio Maggiore
(VC), si è scoperto che ogni anno quelle di 780 MW di potenza, producono
oltre a CO2 , ossidi di azoto (NOx) e metano (205 t) già
citati, anche 290 t di particolato (PM 10, PM 2,5 e PM 0,1), 9 t di
ossidi di zolfo (SOx), 126 t di monossido di carbonio (CO) e 42 t di
altri composti organici volatili; quella di Vicenza (760 MW di potenza)
emette, secondo lo studio commissionato dalla Camera di Commercio,
quantità talmente elevate di ossidi di azoto, ossidi di carbonio e
polveri, da superare quella emessa complessivamente dai 17 comuni del
circondario.
Esistono anche i
problemi delle polveri secondarie di cui tenere conto che non sono
filtrabili e purtroppo difficilmente misurabili.
Anche in questo caso
i consumi idrici sarebbero elevati: per una centrale termoelettrica a
ciclo combinato alimentata a gas metano, da 800 Mwatt termici (che
produca circa 400 Mwatt elettrici ), se il raffreddamento avviene ad
acqua, anche riciclando parzialmente quella utilizzata nell’impianto, è
ragionevole stimare un prelievo di circa 450 m3/ora. Si
possono adottare sistemi di raffreddamento ad aria che riducono i
consumi di acqua ma immetterebbero una enorme quantità di calore
nell’ambiente. Inoltre gli scarichi idrici (circa 70 m3/ora),
anche se depurati, avrebbero comunque temperature elevate che
altererebbero gli equilibri dei corpi idrici in cui fossero scaricate.
A questo punto è
utile una precisazione sui termini “Mwatt elettrico” e “Mwatt termico”.
Il watt/ora è l’unità di misura dell’ energia. Per trasformare il calore
in elettricità si perde energia, per cui a seconda del rendimento del
sistema (es. centrali termoelettriche rendimento circa 38%)
i watt di energia termica prodotta (Mwattt ) vengono
trasformati in un numero molto minore di watt di energia elettrica
(Mwatte ). Il resto viene dissipato nelle conversioni
intermedie dell'energia: da termica a meccanica, da meccanica a
elettrica. Anche nella conversione dell’energia da chimica a termica si
hanno perdite dovute alla combustione incompleta. Le centrali a ciclo
combinato hanno un rendimento maggiore di quelle termoelettriche, il 56%
circa.
Un altro impatto ambientale molto importante
è quello acustico. I macchinari che permettono il funzionamento della
centrale, sia turbogas che a biomassa, sono molto rumorosi e oltre al
danno alla salute per gli addetti ai lavori c’è da considerare il forte
disagio creato nelle zone limitrofe all’impianto. Anche se esistono
limiti di legge rigorosi a seconda del tipo di area circostante (aree
agricole o residenziali), si tratta di limiti formali considerati
accettabili dalla legislazione ma di tutt’ altra idea potrebbero essere
i cittadini.
Un ottimo esempio di
utilizzo e gestione delle fonti rinnovabili è la comunità di Prato allo
Stelvio in Val Venosta (Report, puntata “Biomasse di massa”) che ha
costituito una cooperativa elettrica autosufficiente di cui tutto il
paese è socio e che, una volta soddisfatto il fabbisogno della comunità,
si rivende l’eccedenza di energia. Sono dotati dal 1925 di una piccola
centrale idroelettrica da 80 KW, e oggi hanno anche una centrale a
biogas, pannelli fotovoltaici, eolico e una centrale a biomassa che
produce energia elettrica e termica per il teleriscaldamento. Georg
Wunderer, uno dei soci-gestori della cooperativa per spiegare la loro
filosofia all’intervistatore fa un’affermazione molto giusta: “L'energia
deve nutrire l'energia. L'energia è come l'acqua, l’acqua potabile, sono
servizi di fondo, non devono essere orientati verso il capitale, questi
devono orientarsi per la gente, per avere energia a buon prezzo.”
Termovalorizzatori
L’emergenza rifiuti
è diventata un argomento molto sentito ultimamente perché, se da una
parte gli italiani producono 30 milioni di tonnellate di rifiuti ogni
anno, dall’altra i sistemi di smaltimento sono sempre più zoppicanti e
inadeguati. Basti pensare alla situazione di Napoli.
Dal momento che le
discariche non bastano più e la raccolta differenziata non è ancora
diffusa a sufficienza, sempre più spesso le amministrazioni locali
ipotizzano di far ricorso agli inceneritori che, quando associati ad un
ciclo di recupero dell’energia termica prodotta, vengono ingannevolmente
chiamati termovalorizzatori.
Questi impianti,
bruciando rifiuti a temperature elevatissime (anche 1000°C), producono
una quantità di scorie pari al 30% del rifiuto in ingresso e fumi, che
vengono trattati per abbattere il contenuto di inquinanti e poi immessi
in atmosfera ad una temperature di circa 140° C. Le ceneri sottili (4%
del rifiuto in ingresso) recuperate dal sistema di filtraggio, devono
essere smaltite come rifiuti speciali pericolosi.
Esiste poi il
problema del particolato con diametro inferiore ai 2,5 µm, le cosiddette
PM 2,5 e PM 0,1 che si formano nell’ aria e non sono filtrabili pur
essendo pericolose (ad esempio le polveri con diametro dell'ordine di
grandezza di manometri, PM 0,001).
Secondo quanto
spiegato dal dott. Montanari in un intervista pubblicata su Youtube,
i filtri trattengono la maggior parte (fino al 99%) delle polveri
primarie filtrabili ma nulla possono conto le polveri primarie
condensabili o le polveri secondarie e rimane comunque il
problema dello smaltimento del filtro.
Queste polveri hanno
effetti sulla salute umana anche gravi: entrano nell’organismo tramite
inalazione o ingestione e attraverso il circolo sanguigno passano ai
tessuti dove rimangono definitivamente. Col tempo si formano, attorno a
queste particelle, dei tessuti detti di granulazione che possono
provocare i tumori, malattie cardiovascolari, ictus, infarto, malattie
neurologiche (Alzheimer, Parkinson), malformazioni fetali e nuovi tipi
di malattie nate come conseguenza dell’inquinamento (es. malattia del
seme urente dovuta alla contaminazione degli spermatozoi da parte di
nanoparticelle metalliche che, non essendo biocompatibili, inducono
bruciori, infiammazioni e, a volte, anche necrosi cellulare nella mucosa
degli organi sessuali).
Una tecnologia alternativa all’
incenerimento potrebbe essere la pirolisi: si tratta di un processo
chimico-fisico di trasformazione molecolare realizzato con apporto di
energia termica e meccanica in ambiente privo di ossigeno. Grazie al
calore e alle condizioni anaerobiche, la materia subisce la scissione
dei legami chimici originari con formazione di molecole più semplici.
Non produce diossina e furani perché il suo ciclo termodinamico non
prevede il contemporaneo verificarsi delle condizioni che portano alla
loro formazione.
La pirolisi può
essere applicata anche ai rifiuti. E’ tuttavia necessario garantire la
derivazione organica dei materiali e una bassa percentuale di umidità.
Il CDR (Combustibile
Derivato da Rifiuti) sono tutti quei rifiuti con elevato potere calorico
che, non possono più essere valorizzati (ad es. attraverso riciclo) e
che quindi finirebbero in discarica, ma che attraverso processi
particolari, vengono trasformati in combustibile secondario utilizzato
negli impianti per la produzione di energia. Questo materiale viene
trasformato, a livello molecolare, in gas di pirolisi (Syngas), molto
diverso dal rifiuto originario, equiparabile al biogas ma con un potere
calorico inferiore ai comuni combustibili fossili.
Secondo un articolo
pubblicato su
www.eko-technology.com, un impianto pirolitico da 3,5 MWh nominali
smaltisce 37.500 tonnellate annue di CDR, pari alla produzione media di
CDR di una città di circa 250.000 abitanti e con una produzione di
26.250 MW equivalente a 2.250 TEP (Tonnellate Equivalenti di Petrolio
risparmiato). Inoltre non produce residui di lavorazione poiché tutto il
materiale in ingresso viene smaltito e gli scarti vengono vetrificati.
L’altro vantaggio
della pirolisi dei rifiuti è che avviene a temperature comprese tra 400
e 800 °C e quindi notevolmente più basse di quelle che si usano per
l’incenerimento.
Questo fa sì che l’eventuale particolato prodotto, se non recuperabile
grazie al fatto che i fumi di combustione prima del loro rilascio in
atmosfera possono essere ricondotti dentro l'impianto per la
vetrificazione delle polveri, sia comunque meno fine rispetto a quello
di un inceneritore poiché la dimensione delle particelle è, a grandi
linee, inversamente proporzionale alle temperature impiegate.
Le tecnologie meno
inquinanti sono quelle di trattamento dei rifiuti a freddo, cioè quello
meccanico-biologico (TMB) dei rifiuti indifferenziati o non più
suscettibili a raccolta differenziata. Vengono combinati processi
meccanici a processi biologici quali la digestione anaerobica e il
compostaggio. La frazione umida (l'organico da bioessicare) viene
separata dalla frazione secca (carta, plastica, vetro, inerti ecc.) che
può essere in parte riciclata oppure usata per produrre combustibile
derivato dai rifiuti (CDR) rimuovendo i materiali incombustibili.
Centrali termonucleari
Negli ultimi tempi
si assiste ad una campagna a favore del ritorno al nucleare deciso dal
Governo. Molte decisioni sono state prese, almeno sulla carta (Legge 23
luglio 2009 n° 99, D.lgs n°31 15-02-2010) e, progressivamente, chi
sostiene questa scelta, sta cercando di vincere lo scetticismo e
l’opposizione della maggior parte degli italiani che già con il
referendum del 1987 si erano dichiarati contrari.
L’energia nucleare
viene proposta come una soluzione per liberare il nostro Paese dalla
dipendenza dal petrolio e dai Paesi che lo possiedono, per abbassare i
livelli di CO2 , per pagare meno l’energia elettrica, per
creare nuovi posti di lavoro. Quindi l’Italia sta barattando la
dipendenza dalle fonti fossili con un’altra dipendenza: quella da
materie prime come l’ uranio che proviene per il 25% dallo
smantellamento delle testate atomiche in Russia, per il 27% da
Kazakhstan e Uzbekistan e per il 13% dalle estrazioni in Niger e Namibia.
Altri Paesi con consistenti disponibilità di uranio sono Australia e
Canada.
Ma la produzione di
energia elettrica nucleare può davvero svincolarci dal petrolio?
Durante un’
intervista mandata in onda dalla trasmissione Report, un ingegnere ed
economista dell’energia francese Bernard Laponche, ha evidenziato che, “se
paragoniamo il consumo di petrolio per abitante nei 4 principali Paesi
dell’Unione Europea, vediamo che la Francia consuma 1,46 tonnellate per
abitante, la Germania ne ha consumato 1,36 tonnellate nel 2007, 1.31
l’Italia e il Regno Unito 1.33 tonnellate. Non cambia nulla nel
consumo di petrolio. Infatti la Francia ne consuma ancora di più.
Perché l’elettricità non è prodotta con il petrolio. Avere molta
energia di origine nucleare non ha nulla a che fare con il principale
problema di sicurezza dell’energia, che è il petrolio […] si dice che il
nucleare rappresenti il 40% dell’energia primaria in Francia […] la
centrale nucleare produce calore e solo una parte di questo è
trasformata in elettricità ma al posto dell’elettricità si conta il
calore che è il triplo. […] L’elettricità rappresenta il 20% circa del
consumo finale di energia e il contributo del nucleare al consumo finale
di energia in Francia ammonta al 14%. Tutto il resto è olio, gas ed
energie rinnovabili.”
Sul sito della
C.I.A. si possono estrapolare i dati di consumo di petrolio in barili
per Paese:
country |
bbl/day |
Date of Information |
people |
|
(bbl/day)/people |
Consumo
rispetto Italia |
Germany
|
2.437.000 |
2009 est. |
82.282.988 |
|
0,029617301 |
+0,003159 |
France
|
1.875.000 |
2009 est. |
64.768.389 |
|
0,028949307 |
+0,002491 |
United Kingdom
|
1.669.000 |
2009 est. |
62.348.447 |
|
0,026768911 |
+0,00031 |
Italy
|
1.537.000 |
2009 est. |
58.090.681 |
|
0,026458633 |
--- |
Spain
|
1.482.000 |
2009 est. |
46.505.963 |
|
0,031866881 |
+0,005408 |
E’ vero che le
centrali nucleari non immettono CO2 nell’atmosfera ma rimane
il fatto che i Paesi che vengono citati come esempio di utilizzatori di
energia nucleare, primi fra tutti gli Stati Uniti, non hanno affatto
risolto il problema, perché dovrebbe essere diverso in Italia?
Mycle Schneider,
anch’egli economista e consulente sull’energia e la politica nucleare,
fa notare che i paesi che hanno il consumo di petrolio e l’effetto serra
più elevati, sono anche quelli che utilizzano il nucleare: gli Stati
Uniti, appunto, che detengono un quarto della produzione mondiale di
energia nucleare, sono responsabili anche di un quarto delle emissioni
di gas serra. La spiegazione ipotizzata è che questo sia un modello che
incoraggia i consumi non essendoci bisogno di economizzare con tutta
quell’energia a disposizione NOTEREF _Ref287034937 \f \h
.
L’Agenzia Europea
dell’Ambiente (EEA) ha messo a disposizione sul suo sito i dati raccolti
nell’ “Annual European Union greenhouse gas inventory” nell’arco di 18
anni, sull’emissioni di gas serra dei vari Paesi dell’unione Europea,
anno per anno. Nella tabella
sottostante sono mostrati i valori espressi come CO2
equivalenti.
|
|
EU27 |
EU15 |
France |
Germany |
Italy |
Spain |
United Kingdom |
|
Year |
Tg
(million tonnes) |
Tg
(million tonnes) |
Tg
(million tonnes) |
Tg
(million tonnes) |
Tg
(million tonnes) |
Tg
(million tonnes) |
Tg
(million tonnes) |
Total
emissions (sectors 1-7, excluding 5. LULUCF)
|
1990 |
5.567.026 |
4.244.651 |
563.240 |
1.231.753 |
517.049 |
285.123 |
771.691 |
1991 |
5.467.607 |
4.259.627 |
587.285 |
1.185.680 |
518.135 |
291.552 |
778.516 |
1992 |
5.278.227 |
4.167.796 |
578.965 |
1.134.553 |
515.808 |
298.780 |
753.657 |
1993 |
5.188.618 |
4.099.564 |
553.162 |
1.123.913 |
509.798 |
287.339 |
732.817 |
1994 |
5.158.975 |
4.096.223 |
548.132 |
1.104.989 |
502.280 |
303.125 |
722.054 |
1995 |
5.214.688 |
4.136.737 |
556.972 |
1.101.334 |
529.444 |
314.967 |
712.011 |
1996 |
5.321.270 |
4.220.177 |
571.973 |
1.122.112 |
522.306 |
307.752 |
733.152 |
1997 |
5.217.139 |
4.153.818 |
564.893 |
1.084.380 |
528.433 |
328.280 |
707.693 |
1998 |
5.169.055 |
4.171.400 |
578.381 |
1.060.039 |
539.425 |
338.741 |
703.138 |
1999 |
5.060.167 |
4.106.413 |
561.667 |
1.027.399 |
545.554 |
367.322 |
670.557 |
2000 |
5.062.303 |
4.114.482 |
557.068 |
1.024.672 |
549.812 |
380.797 |
672.551 |
2001 |
5.116.970 |
4.158.862 |
559.195 |
1.040.698 |
555.300 |
380.500 |
676.020 |
2002 |
5.071.816 |
4.130.878 |
549.682 |
1.020.493 |
556.073 |
397.390 |
654.711 |
2003 |
5.148.740 |
4.178.162 |
554.089 |
1.013.821 |
570.744 |
404.601 |
660.505 |
2004 |
5.148.450 |
4.174.104 |
552.808 |
999.939 |
574.116 |
420.447 |
658.704 |
2005 |
5.116.735 |
4.144.796 |
556.485 |
977.585 |
572.638 |
435.112 |
654.728 |
2006 |
5.099.814 |
4.108.170 |
540.303 |
983.437 |
562.046 |
427.281 |
649.609 |
2007 |
5.038.775 |
4.046.189 |
530.187 |
957.335 |
552.629 |
438.677 |
640.020 |
2008 |
4.939.738 |
3.970.473 |
527.026 |
958.061 |
541.485 |
405.740 |
628.206 |
Gli anni evidenziati
indicano il momento in cui è avvenuta la firma (giallo)e
poi l’adesione (azzurro) dei Paesi
in tabella, e infine l’entrata in vigore (verde,
del protocollo di Kyoto
Osservando i valori
di Francia, Germania, Spagna e Regno Unito, scelte perché utilizzano
tutte il nucleare dal 1970 (first commercial operation and synchronized;
put into grid)
circa e sono spesso citate come esempio da seguire, si può notare che
nei 18 anni presi in considerazione, il trend delle emissioni è andato,
si, diminuendo ma non in maniera costante e soprattutto non come ci si
aspetterebbe se il nucleare fosse davvero la soluzione contro le
emissioni di gas serra. La Spagna, al 2008, ha addirittura aumentato le
sue emissioni, rispetto al 1990, di 220.000 milioni di tonnellate (Tg)!
La Francia è passata da 563.240 Tg a 527.026 Tg con una differenza di
soli 36.213 Tg, che è senz’altro una buona notizia ma, di certo, è un
risultato che non giustifica il ricorso all’energia nucleare, ammesso e
non concesso che sia merito di questa risorsa la diminuzione di questi
valori. Infatti nel 1991, 1992, 1996, 1998 le emissioni erano
addirittura aumentate rispetto al dato di partenza del 1990. La Germania
ha avuto una diminuzione più netta (da 1.231.753 Tg a 958.061 Tg) ma
viene da chiedersi come mai i valori di gas serra fossero così alti in
primo luogo, visto che, anche nel caso dei tedeschi come dei francesi,
l’utilizzo del nucleare risale a molto prima del 1990 e avrebbe quindi
avuto tutto il tempo di manifestare effetti “positivi” sull’aria dei
cieli teutonici. L’Italia invece, da 517.049 Tg ha dapprima diminuito le
sue emissioni, nel 1992, 1993, 1994, per poi aumentare in maniera
discontinua fino al valore di 574.116 Tg nel 2004, diminuendo poi
nuovamente fino a 541.485 Tg nel 2008. Se confrontiamo i dati del 2005,
anno dell’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, con quelli finali
del 2008, il nostro Paese è quello che ha la più consistente diminuzione
di gas serra (-31.153 Tg) rispetto a Francia (-29.459 Tg), Spagna
(-29.372 Tg), Inghilterra (-26.522 Tg) e Germania (-19.524 Tg). In
conclusione la diminuzione di emissioni di gas serra (quando c’è) sembra
essere più il risultato della presa di coscienza del problema e
dell’impegno preso con il protocollo di Kyoto (entrato in vigore il 16
febbraio 2005), piuttosto che della presenza di centrali nucleari.
Quindi rimangono dei leciti e consistenti dubbi sull’ effettiva
positività dell’impatto sui livelli di gas serra di questi “dinosauri”
della tecnologia mentre non c’è alcun dubbio sulla loro produzione di
scorie radioattive e sulle enormi problematiche, non ancora risolte, che
il loro stoccaggio comporta.
Immagine tratta da EEA greenhouse gas data viewer
Un altro punto che
non depone a favore dell’energia atomica, sono i costi e i tempi di
realizzazione.
Sul sito di “Enea
per la stampa”
viene spiegato che il costo medio attuale di una centrale nucleare è di
circa 2500-3000 Euro/kW elettrico installato che corrisponderebbe a
circa 3 miliardi di Euro in conto capitale per una centrale da 1000 MW
elettrici. Invece il costo di un reattore EPR detto di III Generazione
(come quello che si sta realizzando a Olkiluoto in Finlandia e come
quelli che dovrebbero essere realizzati in Italia) da 1600 MW elettrici
viene valutato attualmente, da 4 a 4,5 miliardi di euro.
I tempi di
costruzione teorizzati per gli EPR (European Pressurized Reactor) sono
di circa 50 mesi, tuttavia non si può dire quanto sia precisa questa
stima poiché il primo e, finora, unico reattore di questo tipo è quello
finlandese, ancora in fase di costruzione. L’iter burocratico è
cominciato nel 1998; l’approvazione da parte del Governo c’è stata nel
2002; la licenza alla costruzione è stata rilasciata nel 2005 e
l’impianto sarà probabilmente messo in funzione nel 2013. Un tempo
complessivo molto lungo perché in effetti la centrale di Olkiluoto
doveva essere ultimata entro il 2009. Questo ritardo ha fatto quasi
raddoppiare i costi previsti che, da circa 3 miliardi di euro, sono
cresciuti fino a circa 6 miliardi.
In generale, la
valutazione dei costi di una centrale deve tenere conto, oltre quelli di
costruzione, anche di quelli di esercizio, del ciclo del combustibile
(tutte le fasi di lavorazione fino allo smaltimento delle scorie) e i
costi per lo smantellamento e il recupero del sito. Il tutto andrà a
influire sul prezzo finale dell’elettricità prodotta. Su questo punto le
opinioni sono divise: i favorevoli al ritorno al nucleare sono ottimisti
e prevedono prezzi bassi, i contrari invece sostengono che non saranno
così convenienti da giustificare l’enorme investimento che potrebbe
essere indirizzato, almeno in parte, a sostegno di progetti sostenibili
dal punto di vista economico e ambientale e con tempi di ritorno
dell’investimento molto più brevi. Inoltre sempre più spesso, vengono
citati sudi economici secondo i quali i prezzi dell’energia prodotta con
i pannelli solari fotovoltaici sarà presto più conveniente di quella
nucleare.
Infine c’è da
considerare la disponibilità di uranio da utilizzare. Nel 2009 le
risorse recuperabili di questo materiale erano stimate attorno alle
5.404.000 tonnellate nel mondo (Reasonably Assured Resources plus
Inferred Resources, to US$ 130/kg U, 1/1/09, da OECD NEA & IAEA, Uranium
2009: Resources, Production and Demand - "Red Book"). L’utilizzo attuale
è di circa 68.000 tonnellate di uranio all’anno, quindi le risorse
misurate di uranio nella categoria di costo leggermente al di sopra gli
attuali prezzi di mercato e usate solo in reattori convenzionali, sono
sufficienti per 80 anni.
Secondo il sito
www.world-nuclear.org in futuro, grazie all’incremento delle seppur
costose esplorazioni per la ricerca di uranio, la disponibilità di
questo materiale potrebbe aumentare. Ma anche se ciò accadesse e non
fosse solo una visione ottimistica, si tratta comunque di una risorsa
finita ed è quindi probabile che, come avviene per il petrolio, una
volta raggiunto il punto di produzione massima, segua la legge del picco
di Hubbert e il suo prezzo aumenti drasticamente finché il graduale
esaurimento renderebbe gli investimenti necessari così elevati da non
essere più sostenibili.
Un possibile
risvolto positivo sono l’impulso ad alcuni settori dell’economia e
l’impatto positivo sull’occupazione.
Secondo Ance (lAssociazione
nazionale costruttori edili) e Anie (Federazione nazionale imprese
elettrotecniche ed elettroniche), l’occupazione creata dalla costruzione
delle quattro centrali nucleari che si vorrebbero fare in Italia, sarà
di 25.000 addetti che però scenderà a poco più di 1000 quando gli
impianti saranno stati completati NOTEREF _Ref287033036 \f \h \*
MERGEFORMAT
.
Inoltre, secondo un briefing di Greenpeace del 19 Gennaio 2010,
le stime date da Enel riguardo alle commesse a disposizione delle
imprese italiane nella costruzione delle centrali EPR (70%
dell’investimento totale secondo Enel), sono decisamente inesatte: la
parte non convenzionale del progetto (il reattore) con
relative commesse sarà appalto esclusivo della ditta francese Areva che
detiene i brevetti, mentre la restante parte, quella convenzionale,
sarà affidata alle ditte italiane. La società francese EDF (Électricité
de France), sul suo sito web, a proposito dell’impianto EPR che si sta
costruendo a Flamanville, scrive che il 60% dell’ammontare totale dei
costi riguarda la parte nucleare (non convenzionale) del progetto da cui
le nostre imprese sarebbero quindi tagliate fuori venendo coinvolte solo
per la restante parte (40%). In ogni caso, oltre alle imprese che
parteciperanno alla costruzione, è intuibile che le figure professionali
che troveranno occupazione grazie a questi progetti, saranno molto
specializzate. L’impatto positivo diretto riguarderà pochi settori del
mondo del lavoro.
Infine il problema
più grave di tutti: lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi.
Giuseppe Onufrio,
Direttore esecutivo di Greenpeace Italia, in un articolo pubblicato sul
bimestrale “Quale Energia”,
riporta che i rifiuti nucleari provenienti dall'esercizio degli impianti
in Italia sono circa 20.000 m3, che con lo smantellamento
delle centrali nucleari potrebbero arrivare (dati Task Force Enea) a
quasi 100.000 m3. I rifiuti radioattivi sono classificati in
base a tre categorie di pericolo crescente dalla I alla III: alla prima
categoria appartengono i rifiuti che richiedono tempi dell'ordine di
mesi o al massimo di alcuni anni, per il decadimento della
radioattività; alla seconda categoria, i rifiuti che richiedono tempi
fino ad alcuni secoli per il decadimento della radioattività; alla terza
categoria appartengono i rifiuti radioattivi che richiedono tempi
dell'ordine di migliaia di anni ed oltre per decadere. Questi ultimi
vengono prodotti in quantità minore rispetto agli altri ma emettono la
maggior parte della radioattività (94%).Oltretutto i nuovi reattori EPR
avranno un maggiore tasso di burn-up (teoricamente per migliorare le
prestazioni) e come conseguenza produrranno scorie con un tasso di
radioattività sette volte maggiore della media di quelle prodotte dai
reattori tradizionali.
Il nodo del problema
sono proprio questi rifiuti nucleari a lungo termine che devono essere
isolati dalla biosfera per tempi più lunghi di quanto non sia la storia
della nostra civiltà. Non sembrano esistere luoghi abbastanza sicuri: le
soluzioni, anche quelle “geologiche profonde” tentate da altri Paesi,
non hanno dato i risultati sperati. Onufrio cita come esempio il caso
delle miniere saline di Asse dove, a partire dal 1960, furono stoccati
126.000 bidoni di scorie radioattive ma dal 1988 vi è una perdita di
circa 12 mila litri di acqua al giorno che sta compromettendo gravemente
la sicurezza del sito. In Francia, il Centro di stoccaggio dei rifiuti
di bassa attività di La Manche che ospita 520.000 m3 di rifiuti nucleari
(in contrasto col nome del centro, anche rifiuti ad alta attività e a
lunga vita), è soggetto a perdite di acqua contaminata che sono state
scoperte solo nel 2006 e hanno coinvolto la falda acquifera minacciando
l’area circostante . Infine anche gli Stati Uniti hanno dovuto
rinunciare ad una soluzione geologica profonda sulla Yucca Mountain
relativamente vicino a Las Vegas, poiché il servizio geologico
statunitense ha trovato una faglia sismica al di sotto del sito. Quando
non ci sono certezze su un punto così drammaticamente importante del
problema, come è possibile pensare di lanciarsi “a fari spenti nella
notte” ovvero nell’ avventura nucleare?
Riassumendo: i
vantaggi prospettati sembrano di scarsa entità o addirittura dubbi a
fronte della certezza di costi elevatissimi, tempi di realizzazione
molto lunghi, pericolosità elevata e non eliminabile delle scorie
prodotte per salute umana e ambiente, rischio altissimo in caso di
incidente. Tornare al nucleare sembrerebbe proprio una follia.
Efficienza energetica
Prima di pensare di
investire risorse ingenti sulle tecnologie nucleari è assolutamente
doveroso ottimizzare l’efficienza energetica, riducendo gli sprechi al
minimo in ogni settore e sviluppando, applicando e sperimentando, nel
contempo, tutte le tecnologie alternative a quelle basate sulle fonti
fossili per la produzione di energia, purché siano sostenibili dal punto
di vista ambientale, sociale ed economico.
Ottimi risultati si
sono ottenuti con l’introduzione delle detrazioni fiscali su Irpef e
Ires destinate a coloro che realizzano interventi di risparmio
energetico per il riscaldamento invernale degli immobili già esistenti.
Le tipologie di interventi considerate sono: la riqualificazione globale
degli edifici, l’installazione di pannelli solari, l’installazione di
caldaie a biomassa, la coibentazione di pareti orizzontali e verticali,
la sostituzione di impianti termici con caldaie a condensazione o con
pompe di calore ad alta efficienza. Secondo quanto riportato dal
coordinatore Gruppo Lavoro Efficienza Energetica di ENEA in un articolo,
con la coibentazione di tetti, solai e pavimenti è possibile risparmiare
in media 20,56 MWh per singolo intervento, traducibili in 1.645 euro
(considerando il costo di un kWh termico da caldaia a gas).
Simili interventi di
efficienza energetica andrebbero incentivati anche per quando riguarda
il condizionamento degli ambienti durante il periodo estivo, la
progettazione e l’utilizzo di elettrodomestici, televisori e computer
che consumano sempre meno, di illuminazione stradale meno energivora e
così via. Il risparmio è l’efficienza energetica sono a tutti gli
effetti delle fonti di energia che possono sostituirsi alle centrali
necessarie a produrne quella stessa quantità che non c’è più stato
bisogno di consumare.
Esistono già degli
esempi da cui prendere spunto: il fenomeno delle “Transitino town”, che
sta prendendo piede anche in Italia; il progetto “Solare collettivo”,
cominciato in Piemonte come una campagna di raccolta fondi per costruire
impianti di energia rinnovabile a favore di tutti i partecipanti,
trasformatosi in una nuova cooperativa che mette insieme i produttori e
i consumatori che diventano quindi anche gli operatori della compagnia
che produce energia da fonti rinnovabili; la già citata gestione
sostenibile dell’energia operata dalla comunità di Prato allo Stelvio in
Val Venosta; “Myzerowaste”,
un sito e un progetto nato dall’iniziativa di comuni cittadini
britannici, per riciclare tutto il riciclabile e ridurre al minimo i
rifiuti domestici prodotti. Oppure il modello di economia libera dal
concetto di interesse della Jak Bank di Skovde in Svezia,
una banca cooperativa con 35.000 soci sparsi sul territorio. Ogni socio
detiene una sola azione, per cui tutti hanno la stessa importanza e
possono ricevere prestiti nella forma più conveniente possibile poiché
lo scopo di questa banca non è di creare profitto ma di mettere a
disposizione un servizio di assistenza economica ai propri soci.
Conclusioni
L’energia, come
l’acqua, è una risorsa di primaria importanza che non deve essere
inquinata dagli interessi economici di imprese che mirano solo al
profitto. E’ abbastanza utopistico aspettarsi che gli imprenditori
mettano il benessere della popolazione e dell’ambiente al primo posto
davanti alla possibilità di avere facili guadagni per loro e per la loro
azienda. Le fonti rinnovabili dovrebbero essere incentivate solo nel
modo e nella misura che permetta alle stesse comunità di cittadini di
rendersi energeticamente indipendenti. Per ora su piccola scala. Sarebbe
meglio creare una rete di piccoli comuni autosufficienti in tutta
Italia, dove la gestione delle fonti rinnovabili è affidata alla
cittadinanza, il cui primario interesse sarebbe creare condizioni di
vita ottimali e non il mero lucro. Le grandi e piccole imprese, invece
andrebbero premiate qualora sostituissero (non aggiungessero
semplicemente) progressivamente il loro approvvigionamento energetico da
fonti fossili e fortemente inquinanti con quello da fonte rinnovabile.
E’ necessario
cambiare il modello di vita che ci spinge verso consumi sempre maggiori
e il modello economico che mette al primo posto, davanti a obiettivi più
importanti, il profitto mentre considera l’aumento dei consumi
addirittura un indice di crescita invece che un pericolo. E’ necessario
passare da un modello sociale centrato sull’individualismo ad uno
centrato sulla coesione e la collaborazione di gruppo per finalità di
raggiungimento del benessere comune e quindi anche dei singoli, che ne
sono l’elemento costituente. E’ necessario un cambiamento perché, come
insegna la natura stessa, chi non cambia prima o poi si estingue.
Rossana Bagnasco |