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ETICA AMBIENTALE
PENSIERI FILOSOFICI
di
Riccardo D'Apruzzo
“Segavano i rami sui quali erano seduti e si scambiavano a gran voce le
loro esperienze di come segare più in fretta, e precipitarono con uno
schianto, e quelli che li videro scossero la testa segando e
continuarono a segare”
Bertolt
Brecht, Exil,
III
L’ etica ambientale
rappresenta un aspetto particolare dell’ etica la cui discussione e il
cui approfondimento non è ormai più rimandabile.
Possiamo, in prima
approssimazione, definire l’ etica ambientale come quel ramo dell’ etica
che cerca di stabilire i criteri per l’ agire dell’ uomo nei riguardi
dell’ ambiente in cui e’ chiamato a vivere.
Si può ben pensare che
anche l’ etica ambientale sia antica quanto il pensiero umano, ma
diventa importante ed urgente oggi in cui le capacità di interazione
dell’ uomo con l’ ambiente sono tali da mettere in discussione la stessa
sopravvivenza della vita sulla Terra.
Se
ammettiamo la possibilità di un’etica dell’ambiente, ammettiamo anche
che:
1.
l’uomo è primariamente un
essere naturale (un organismo) che dipende da un sistema naturale, la
cui esistenza è garantita dalla sopravvivenza di quell’eco-sistema.
L’uomo però non è semplicemente esistenza naturale: è anche e per
essenza un essere sociale e abita non la prima natura, ma la seconda,
fatta di norme, istituzioni, ideologie, credenze, ecc., che orienta il
suo rapporto con la prima.
Dunque
nessun rapporto con la sfera naturale è del tutto orientato
primariamente da questa, visto che nella sua comprensione entra
ovviamente in gioco anche la dimensione sociale, politica, economica,
culturale dell’esistenza umana.
L’uomo è
cioè un essere naturale che ha rimosso la sua origine naturale e che
vive di e in questa rimozione (che, come tutte le rimozioni, implica o
può implicare deformazioni patologiche dell’oggetto rimosso, fino a
farlo diventare “perturbante”, “totemico”).
Ogni etica
dell’ambiente deve quindi tener conto di questa rimozione, anziché
presupporre che verso la natura l’uomo possa comportarsi
simpliciter
come soggetto morale. Tuttavia, proprio perché anche l’uomo è un “pezzo”
di natura (un essere naturale capace di modificare radicalmente la
natura), egli non può non avere un interesse a mantenere, migliorare,
difendere quelle condizioni naturali da cui dipende la sua esistenza.
L’agire ecologico ha quindi innegabilmente un
fondamento materiale,
l’interesse
all’autoconservazione (Spinoza,
Etica:
conatusseseconservandiprimum
et unicum virtutis est fundamentum).
2.
Nell’ambito dei rapporti con la natura,
si definisce “agire ecologico” il comportamento che si fa carico di
decisioni che riguardano il destino – inteso come sicurezza, benessere,
salute, felicità, prosperità, possibilità di rinnovamento – di ambiti
non-umani (geosfera e biosfera) o non-ancora umani (sfera delle
generazioni future). Il soggetto di questo comportamento, quindi, non
necessariamente è il singolo individuo, visto che si tratta di decisioni
che trascendono l’ambito meramente individuale e implicano scelte
strategiche di larga portata e macrodecisori (organizzazioni,
istituzioni politiche, multinazionali, ecc.), orientati dall’opinione
pubblica informata ma a loro volta sensibili alle pratiche di lobbying
di soggetti diversamente interessati, che spesso agiscono al di fuori
delle logiche formali democratiche, e quindi capaci di orientare
diversamente quell’opinione pubblica e quindi di imporre scelte diverse
rispetto a quelle che dovrebbero essere ispirate al bene comune (diverse
valutazioni di impatto ambientale, misurazioni diverse dell’effetto
inquinante di determinati componenti presenti nell’aria, nell’acqua, nei
cibi, degli effetti del riscaldamento globale, ecc.).
È quindi una
finzione quella di assumere l’uomo come mero organismo all’interno di un
ecosistema innocente: non solo i due si condizionano a vicenda, ma essi
sono anche già sempre il frutto di una continua serie di rielaborazioni
e reinvenzioni che escludono che ci possa essere una qualche “innocenza”
nel complesso gioco di relazioni che si è venuto storicamente a
instaurare tra uomo e natura.
3. Un’etica dell’ambiente non
può, se vuole essere conseguente e rigorosa, non valutare i
rischi
derivanti da quello che si può definire l’“inquinamento sistemico” di
macrodecisori (ad es. compagnie petrolifere, produttori di automobili o
di apparecchiature per le centrali nucleari): in questo senso il
problema dell’etica ambientale è un sottoinsieme della ragion pubblica e
quindi del dare/ricevere ragioni.
Esse possono
essere di varia natura (metafisiche, religiose, trascendentali,
pragmatiche) ma tutte implicano la sfera intersoggettiva, pubblica e
criticabile delle pretese di validità che esse avanzano.
4. Un’etica dell’ambiente non può
inoltre ignorare le questioni complementari dei
limiti intrinseci dello sviluppo
e della critica
dell’utilitarismo: in poche parole il
grado di sviluppo della tecnica ormai raggiunto rende inservibile
l’argomento utilitaristico dell’agire mosso dalla massimizzazione del
vantaggio individuale. Lo sviluppo tecnico è con ogni evidenza
scientifica tale da innescare un depauperamento delle risorse, degrado
ambientale, esplosione demografica, crisi alimentari, dissesti
idrogeologici permanenti, riduzione della biodiversità, emergenza
rifiuti ovunque ecc. da rendere totalmente implausibile l’idea
utilitarista per cui il bene collettivo può derivare unicamente da una
massimizzazione dell’utile personale.
Quindi
è inevitabile che un’etica dell’ambiente debba ritornare a essere,
anche, critica dell’economia
politica: se è vero che, come dice Marx,
“la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del
processo di produzione sociale
solo minando al contempo le fonti da
cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio”
(Il Capitale,
vol. I, l. XIII, § 10), allora una vera etica dell’ambiente non può non
includere in sé questo elemento critico, fondato sull’evidenza empirica
per cui lo sviluppo della produzione, e quindi la creazione, in
un’economia capitalistica, è fondato sulla distruzione (le tesi di Naomi
Klein in Shock Economy
o di Loretta Napoleoni in
Economia canaglia sono, in questo senso,
semplici aggiornamenti della tesi suddetta).
E con ogni
evidenza l’equilibrio tra creazione e distruzione della natura è ormai
incrinato a favore della seconda. (Ciò tuttavia implica che la natura
sia considerata come qualcosa di avente valore in sé, e quindi di
“violabile” solo entro certi limiti e a certe condizioni, a differenza
di quanto pensava Marx, legato a una concezione soggettivistica
dell’agire e del lavoro in particolare, visto come unica fonte di
conferimento di valore e quindi di significato alle cose, in sé e per sé
viste tutto sommato meccanicisticamente alla Democrito/Epicuro.
Un
utile correttivo in questo senso è, a mio avviso, la tesi di Bloch della
materia come mater
gestante e
primumagens,
potenza oggettiva e soggettiva insieme, ma questo è un altro problema).
Secondo l’EcosystemApproach,
sancito dalla Convenzione sulla diversità biologica del 1992, esiste un
rapporto di continuità tra comunità umane ed ecosistemi in cui esse
vivono: se i secondi forniscono alle prime i beni e le risorse di cui
esse hanno bisogno per la loro sopravvivenza, le prime hanno la
responsabilità di tutelare la biodiversità che permette a quegli
ecosistemi di continuare a fornire quei beni e risorse. Anche il
paradigma o approccio ecosistemico risulta però non fondato eticamente
ma utilitaristicamente, ripresentando i limiti del modello
contrattualista nella forma di un vicendevole scambio di servizi tra
comunità locali e biodiversità, quasi si trattasse semplicemente del
mutuo scambio di servizi, con un partner più intenzionale (le comunità
locali) e uno meno intenzionale (l’ecosistema con la sua biodiversità).
In questo modo si ritorna alla concezione della natura come “strumento”
o “risorsa” da sfruttare, in nome di una visione antropocentrica. Questo
ci riporta alla domanda fondamentale per l’etica dell’ambiente: in che
modo si può affermare che la natura ha un valore in sé e per sé?
Se
distruggiamo la natura, distruggiamo anche la nostra possibilità di
essere etici, perché distruggiamo anche le condizioni che ci
permetterebbero di condurre una vita buona.
Senza le
condizioni affinché ci possa essere una vita buona non si dà agire
giusto: ma quelle condizioni sono daccapo possibili solo se si agisce
sintonizzandosi in modo giusto con la natura stessa: rispettando il
paesaggio, curandosi di ciò che esso contiene, prevedendo ciò che gli
potrebbe accadere. Dunque è necessario
accordarsi
con la natura, come si accordano gli strumenti musicali per poterli
suonare: affinché la natura possa parlarci noi dobbiamo diventare capaci
di ascoltarne la voce.
Riccardo D'Apruzzo |