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Anno XIV num.4
Lug./Ago. 2015

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ETICA AMBIENTALE

PENSIERI FILOSOFICI

 

di Riccardo D'Apruzzo 

 

“Segavano i rami sui quali erano seduti e si scambiavano a gran voce le loro esperienze di come segare più in fretta, e precipitarono con uno schianto, e quelli che li videro scossero la testa segando e continuarono a segare”

Bertolt Brecht, Exil, III

 

L’ etica ambientale rappresenta un aspetto particolare dell’ etica la cui discussione e il cui approfondimento non è ormai più rimandabile.

Possiamo, in prima approssimazione, definire l’ etica ambientale come quel ramo dell’ etica che cerca di stabilire i criteri per l’ agire dell’ uomo nei riguardi dell’ ambiente in cui e’ chiamato a vivere.

Si può ben pensare che anche l’ etica ambientale sia antica quanto il pensiero umano, ma diventa importante ed urgente oggi in cui le capacità di interazione dell’ uomo con l’ ambiente sono tali da mettere in discussione la stessa sopravvivenza della vita sulla Terra.

Se ammettiamo la possibilità di un’etica dell’ambiente, ammettiamo anche che:

1.   l’uomo è primariamente un essere naturale (un organismo) che dipende da un sistema naturale, la cui esistenza è garantita dalla sopravvivenza di quell’eco-sistema. L’uomo però non è semplicemente esistenza naturale: è anche e per essenza un essere sociale e abita non la prima natura, ma la seconda, fatta di norme, istituzioni, ideologie, credenze, ecc., che orienta il suo rapporto con la prima.

Dunque nessun rapporto con la sfera naturale è del tutto orientato primariamente da questa, visto che nella sua comprensione entra ovviamente in gioco anche la dimensione sociale, politica, economica, culturale dell’esistenza umana.

L’uomo è cioè un essere naturale che ha rimosso la sua origine naturale e che vive di e in questa rimozione (che, come tutte le rimozioni, implica o può implicare deformazioni patologiche dell’oggetto rimosso, fino a farlo diventare “perturbante”, “totemico”).

Ogni etica dell’ambiente deve quindi tener conto di questa rimozione, anziché presupporre che verso la natura l’uomo possa comportarsi simpliciter come soggetto morale. Tuttavia, proprio perché anche l’uomo è un “pezzo” di natura (un essere naturale capace di modificare radicalmente la natura), egli non può non avere un interesse a mantenere, migliorare, difendere quelle condizioni naturali da cui dipende la sua esistenza. L’agire ecologico ha quindi innegabilmente un fondamento materiale, l’interesse all’autoconservazione (Spinoza, Etica: conatusseseconservandiprimum et unicum virtutis est fundamentum).

2.     Nell’ambito dei rapporti con la natura, si definisce “agire ecologico” il comportamento che si fa carico di decisioni che riguardano il destino – inteso come sicurezza, benessere, salute, felicità, prosperità, possibilità di rinnovamento – di ambiti non-umani (geosfera e biosfera) o non-ancora umani (sfera delle generazioni future). Il soggetto di questo comportamento, quindi, non necessariamente è il singolo individuo, visto che si tratta di decisioni che trascendono l’ambito meramente individuale e implicano scelte strategiche di larga portata e macrodecisori (organizzazioni, istituzioni politiche, multinazionali, ecc.), orientati dall’opinione pubblica informata ma a loro volta sensibili alle pratiche di lobbying di soggetti diversamente interessati, che spesso agiscono al di fuori delle logiche formali democratiche, e quindi capaci di orientare diversamente quell’opinione pubblica e quindi di imporre scelte diverse rispetto a quelle che dovrebbero essere ispirate al bene comune (diverse valutazioni di impatto ambientale, misurazioni diverse dell’effetto inquinante di determinati componenti presenti nell’aria, nell’acqua, nei cibi, degli effetti del riscaldamento globale, ecc.).

È quindi una finzione quella di assumere l’uomo come mero organismo all’interno di un ecosistema innocente: non solo i due si condizionano a vicenda, ma essi sono anche già sempre il frutto di una continua serie di rielaborazioni e reinvenzioni che escludono che ci possa essere una qualche “innocenza” nel complesso gioco di relazioni che si è venuto storicamente a instaurare tra uomo e natura.

3.   Un’etica dell’ambiente non può, se vuole essere conseguente e rigorosa, non valutare i rischi derivanti da quello che si può definire l’“inquinamento sistemico” di macrodecisori (ad es. compagnie petrolifere, produttori di automobili o di apparecchiature per le centrali nucleari): in questo senso il problema dell’etica ambientale è un sottoinsieme della ragion pubblica e quindi del dare/ricevere ragioni.

Esse possono essere di varia natura (metafisiche, religiose, trascendentali, pragmatiche) ma tutte implicano la sfera intersoggettiva, pubblica e criticabile delle pretese di validità che esse avanzano.

4.   Un’etica dell’ambiente non può inoltre ignorare le questioni complementari dei limiti intrinseci dello sviluppo e della critica dell’utilitarismo: in poche parole il grado di sviluppo della tecnica ormai raggiunto rende inservibile l’argomento utilitaristico dell’agire mosso dalla massimizzazione del vantaggio individuale. Lo sviluppo tecnico è con ogni evidenza scientifica tale da innescare un depauperamento delle risorse, degrado ambientale, esplosione demografica, crisi alimentari, dissesti idrogeologici permanenti, riduzione della biodiversità, emergenza rifiuti ovunque ecc. da rendere totalmente implausibile l’idea utilitarista per cui il bene collettivo può derivare unicamente da una massimizzazione dell’utile personale.

Quindi è inevitabile che un’etica dell’ambiente debba ritornare a essere, anche, critica dell’economia politica: se è vero che, come dice Marx, “la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio” (Il Capitale, vol. I, l. XIII, § 10), allora una vera etica dell’ambiente non può non includere in sé questo elemento critico, fondato sull’evidenza empirica per cui lo sviluppo della produzione, e quindi la creazione, in un’economia capitalistica, è fondato sulla distruzione (le tesi di Naomi Klein in Shock Economy o di Loretta Napoleoni in Economia canaglia sono, in questo senso, semplici aggiornamenti della tesi suddetta).

E con ogni evidenza l’equilibrio tra creazione e distruzione della natura è ormai incrinato a favore della seconda. (Ciò tuttavia implica che la natura sia considerata come qualcosa di avente valore in sé, e quindi di “violabile” solo entro certi limiti e a certe condizioni, a differenza di quanto pensava Marx, legato a una concezione soggettivistica dell’agire e del lavoro in particolare, visto come unica fonte di conferimento di valore e quindi di significato alle cose, in sé e per sé viste tutto sommato meccanicisticamente alla Democrito/Epicuro.

Un utile correttivo in questo senso è, a mio avviso, la tesi di Bloch della materia come mater gestante e primumagens, potenza oggettiva e soggettiva insieme, ma questo è un altro problema).

Secondo l’EcosystemApproach, sancito dalla Convenzione sulla diversità biologica del 1992, esiste un rapporto di continuità tra comunità umane ed ecosistemi in cui esse vivono: se i secondi forniscono alle prime i beni e le risorse di cui esse hanno bisogno per la loro sopravvivenza, le prime hanno la responsabilità di tutelare la biodiversità che permette a quegli ecosistemi di continuare a fornire quei beni e risorse. Anche il paradigma o approccio ecosistemico risulta però non fondato eticamente ma utilitaristicamente, ripresentando i limiti del modello contrattualista nella forma di un vicendevole scambio di servizi tra comunità locali e biodiversità, quasi si trattasse semplicemente del mutuo scambio di servizi, con un partner più intenzionale (le comunità locali) e uno meno intenzionale (l’ecosistema con la sua biodiversità). In questo modo si ritorna alla concezione della natura come “strumento” o “risorsa” da sfruttare, in nome di una visione antropocentrica. Questo ci riporta alla domanda fondamentale per l’etica dell’ambiente: in che modo si può affermare che la natura ha un valore in sé e per sé?

 

Se distruggiamo la natura, distruggiamo anche la nostra possibilità di essere etici, perché distruggiamo anche le condizioni che ci permetterebbero di condurre una vita buona.

Senza le condizioni affinché ci possa essere una vita buona non si dà agire giusto: ma quelle condizioni sono daccapo possibili solo se si agisce sintonizzandosi in modo giusto con la natura stessa: rispettando il paesaggio, curandosi di ciò che esso contiene, prevedendo ciò che gli potrebbe accadere. Dunque è necessario accordarsi con la natura, come si accordano gli strumenti musicali per poterli suonare: affinché la natura possa parlarci noi dobbiamo diventare capaci di ascoltarne la voce.

 

Riccardo D'Apruzzo

 


 

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