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Anno XIV num.4
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UTILIZZO DI UNA TECNICA DI FITODEPURAZIONE PER LA DISSALAZIONE DELLE ACQUE

di Ombretta Largiuni

 

L’accesso ad un’acqua di buona qualità è essenziale per la salute, diritto umano basilare. In alcune zone del mondo le risorse idriche risultano relativamente abbondanti ma di scarsa qualità. Questo è il caso ad es. della regione di Dodoma, in Tanzania centrale (Africa), dove le acque sotterranee presentano un’elevata salinità oltre che un’alta concentrazione di metalli pesanti. In alcune zone le acque di falda sono inoltre fortemente inquinate da nitrati, nitriti e fosfati. Nasce quindi la necessità di depurare le acque dei pozzi per uso potabile.

I processi di desalinizzazione per l’approvvigionamento di acqua potabile sono in continuo aumento.

A causa dell’alta efficacia nella rimozione sia dei costituenti chimici che dei microrganismi di alcuni dei processi usati (soprattutto distillazione e osmosi inversa), questi processi possono essere impiegati come unico trattamento o combinati con l’utilizzo di un basso livello di disinfettante.

Tuttavia bisogna considerare gli elevati costi per il mantenimento di tali impianti con acque in ingresso a conducibilità così elevata.

Accanto ai tradizionali metodi di trattamento delle acque può essere ipotizzato l’utilizzo della fitodepurazione: insieme di processi naturali di trattamento di acque inquinate basati sullo sfruttamento del sistema suolo-vegetazione quale filtro naturale per la depurazione dell’acqua.

La fitodepurazione può essere considerata una vera e propria eco-tecnologia e comprende una serie di soluzioni di avanguardia per il trattamento delle acque, che presentano un basso supporto tecnologico ed energetico. Si tratta di riprodurre in condizioni controllate i processi di depurazione naturale tipici dell’ambiente wetland, ricorrendo ad alcuni accorgimenti: scelta delle specie, adozione di un substrato idoneo, gestione del flusso dell’acqua.

Gli inquinanti sono rimossi da una combinazione di processi chimici, fisici e biologici tra cui sedimentazione, precipitazione, adsorbimento, assimilazione da parte delle piante, attività microbica.

La fitodepurazione è stata testata con successo in varie parti del mondo, ma applicazioni full-scale sono ancora limitate. Nell’Europa del Nord sono sorti alcuni impianti pilota per la produzione di acqua potabile da zone wetland.

Sono noti gli effetti positivi della fitodepurazione riguardo la rimozione di azoto e fosforo, come anche di metalli pesanti, mentre molto poco è ancora indagato sulla possibilità di abbattimento della salinità. Tuttavia alcuni studi in merito iniziano a prendere campo. Negli Emirati Arabi Uniti è stato condotto uno studio sul problema della salinità delle acque in regioni aride; lo studio ha mostrato che alcune piante (alofile) hanno la capacità di accumulare ioni Mg2+, Ca2+, Na+ e Cl- riducendo la salinità del sistema suolo/acqua.

Nel caso delle acque summenzionate (salate e variamente inquinate) si può pensare di ricorrere alla tecnica di fitodepurazione a flusso sommerso, da alimentare con l’acqua di falda pompata dai pozzi esistenti.

L’impianto di fitodepurazione si realizza mediante lo scavo di un bacino di dimensioni variabili a seconda della portata e della tipologia di acqua da trattare. Il bacino, una volta impermeabilizzato, viene riempito con materiale inerte selezionato (sabbia, ghiaia, pietrisco) sul quale vengono piantumate le diverse essenze vegetali atte alla depurazione.

Il fondo delle vasche ha generalmente una pendenza verso valle dell’1-2 %, che facilita il drenaggio. Il fondo delle vasche viene impermeabilizzato con membrane sintetiche. Il livello del refluo all’interno del bacino è costantemente mantenuto 10/15 cm sotto la superficie della ghiaia e l’impianto è calpestabile senza affioramento di acqua in superficie. La parte superficiale della vasca deve essere riempita con sabbia o altro materiale permeabile per uno spessore adeguato (almeno 10 cm) in modo da insediarvi la vegetazione. Tali tipologie impiantistiche hanno un impatto igienico-sanitario nullo o limitato in funzione dell’assenza di un contatto tra l’acqua e l’ambiente esterno.

Utilizzando piante alofile (es. suaeda monoica, suaeda fruticosa, atriplex papula) si può quindi costruire quello che potremmo chiamare un fitodissalatore. Importante è non solo la capacità della pianta di bioaccumulare cloruro di sodio ma anche la sua adattabilità e la sua presenza in loco (utilizzo di piante autoctone per evitare stress ambientali che potrebbero risultare letali per le piante stesse).

È possibile impiantare anche specie come Juncus effusus (giunco), che resiste a valori di salinità di 20.000 mg/l. Si tratta di una specie di buone capacità produttive di biomassa, in grado di colonizzare il terreno fino a notevoli profondità e di assorbire 1000 Kg/ha di N in un triennio. Le foglie ed i fusti della vegetazione possono essere utilizzati per intrecciare e per la produzione di stuoie, cannicci, tetti,…

Sii può poi pensare di inserire una seconda vasca in sequenza alla prima da utilizzarsi per la coltivazione di piante come la bietola rossa, il fagiolino, la soia e lo zucchino, anch’esse tolleranti ad elevati valori di salinità, per l’alimentazione umana.

Le sponde della/e vasche possono esser seminate ad erba medica, da utilizzarsi per la produzione di foraggio.

La manutenzione dell’impianto prevede il decespugliamento delle essenze all’interno del letto ed allo sfalcio lungo le sponde e i rilevati perimetrali alle vasche.

La conduzione e manutenzione dell’impianto, estremamente semplice, può esser svolta da personale del luogo.

I vantaggi di questa metodica sono legati essenzialmente alla semplicità costruttiva, all’economicità di realizzazione e manutenzione, alla scarsa richiesta di elementi di elevata tecnologia, al fabbisogno modesto di energia.

Nel contesto tanzaniano va considerata inoltre la possibilità di riutilizzo delle essenze che hanno condotto la depurazione. Spesso infatti gli inquinanti (elementi nutritivi per le piante) non si distribuiscono uniformemente all’interno della pianta ma risultano localizzati p.es. all’apparato radicale, consentendo così l’utilizzo della parte aerea della pianta stessa (frutti, foglie) per la produzione di foraggio e/o l’alimentazione umana.

Tutto questo permette di considerare l’impianto in modo integrato: depurazione dell’acqua inquinata a fini irrigui e potabili, con basso costo di progettazione, realizzazione e mantenimento dell’impianto, unitamente ad una produzione agricola per l’alimentazione umana e animale. (Giu. 2010)

Ombretta Largiuni

 


 

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