UTILIZZO DI UNA
TECNICA DI FITODEPURAZIONE PER LA DISSALAZIONE DELLE ACQUE
di Ombretta Largiuni
L’accesso ad un’acqua di buona qualità è
essenziale per la salute, diritto umano basilare. In alcune zone del
mondo le risorse idriche risultano relativamente abbondanti ma di scarsa
qualità. Questo è il caso ad es. della regione di Dodoma, in Tanzania
centrale (Africa), dove le acque sotterranee presentano un’elevata
salinità oltre che un’alta concentrazione di metalli pesanti. In alcune
zone le acque di falda sono inoltre fortemente inquinate da nitrati,
nitriti e fosfati. Nasce quindi la necessità di depurare le acque dei
pozzi per uso potabile.
I processi di desalinizzazione per
l’approvvigionamento di acqua potabile sono in continuo aumento.
A causa dell’alta efficacia nella rimozione
sia dei costituenti chimici che dei microrganismi di alcuni dei processi
usati (soprattutto distillazione e osmosi inversa), questi processi
possono essere impiegati come unico trattamento o combinati con
l’utilizzo di un basso livello di disinfettante.
Tuttavia bisogna considerare gli elevati
costi per il mantenimento di tali impianti con acque in ingresso a
conducibilità così elevata.
Accanto ai tradizionali metodi di
trattamento delle acque può essere ipotizzato l’utilizzo della
fitodepurazione: insieme di processi naturali di trattamento di acque
inquinate basati sullo sfruttamento del sistema suolo-vegetazione quale
filtro naturale per la depurazione dell’acqua.
La fitodepurazione può essere considerata
una vera e propria eco-tecnologia e comprende una serie di soluzioni di
avanguardia per il trattamento delle acque, che presentano un basso
supporto tecnologico ed energetico. Si tratta di riprodurre in
condizioni controllate i processi di depurazione naturale tipici
dell’ambiente wetland, ricorrendo ad alcuni accorgimenti: scelta delle
specie, adozione di un substrato idoneo, gestione del flusso dell’acqua.
Gli inquinanti sono rimossi da una
combinazione di processi chimici, fisici e biologici tra cui
sedimentazione, precipitazione, adsorbimento, assimilazione da parte
delle piante, attività microbica.
La fitodepurazione è stata testata con
successo in varie parti del mondo, ma applicazioni full-scale sono
ancora limitate. Nell’Europa del Nord sono sorti alcuni impianti pilota
per la produzione di acqua potabile da zone wetland.
Sono noti gli effetti positivi della
fitodepurazione riguardo la rimozione di azoto e fosforo, come anche di
metalli pesanti, mentre molto poco è ancora indagato sulla possibilità
di abbattimento della salinità. Tuttavia alcuni studi in merito iniziano
a prendere campo. Negli Emirati Arabi Uniti è stato condotto uno studio
sul problema della salinità delle acque in regioni aride; lo studio ha
mostrato che alcune piante (alofile) hanno la capacità di accumulare
ioni Mg2+, Ca2+, Na+ e Cl-
riducendo la salinità del sistema suolo/acqua.
Nel caso delle acque summenzionate (salate e
variamente inquinate) si può pensare di ricorrere alla tecnica di
fitodepurazione a flusso sommerso, da alimentare con l’acqua di
falda pompata dai pozzi esistenti.
L’impianto di fitodepurazione si realizza
mediante lo scavo di un bacino di dimensioni variabili a seconda della
portata e della tipologia di acqua da trattare. Il bacino, una volta
impermeabilizzato, viene riempito con materiale inerte selezionato
(sabbia, ghiaia, pietrisco) sul quale vengono piantumate le diverse
essenze vegetali atte alla depurazione.
Il fondo delle vasche ha generalmente una
pendenza verso valle dell’1-2 %, che facilita il drenaggio. Il fondo
delle vasche viene impermeabilizzato con membrane sintetiche. Il livello
del refluo all’interno del bacino è costantemente mantenuto 10/15 cm
sotto la superficie della ghiaia e l’impianto è calpestabile senza
affioramento di acqua in superficie. La parte superficiale della vasca
deve essere riempita con sabbia o altro materiale permeabile per uno
spessore adeguato (almeno 10 cm) in modo da insediarvi la vegetazione.
Tali tipologie impiantistiche hanno un impatto igienico-sanitario
nullo o limitato in funzione dell’assenza di un contatto tra l’acqua e
l’ambiente esterno.
Utilizzando piante alofile (es. suaeda
monoica, suaeda fruticosa, atriplex papula) si può quindi costruire
quello che potremmo chiamare un fitodissalatore. Importante è non solo
la capacità della pianta di bioaccumulare cloruro di sodio ma anche la
sua adattabilità e la sua presenza in loco (utilizzo di piante autoctone
per evitare stress ambientali che potrebbero risultare letali per le
piante stesse).
È possibile impiantare anche specie come
Juncus effusus (giunco), che resiste a valori di salinità di 20.000
mg/l. Si tratta di una specie di buone capacità produttive di biomassa,
in grado di colonizzare il terreno fino a notevoli profondità e di
assorbire 1000 Kg/ha di N in un triennio. Le foglie ed i fusti della
vegetazione possono essere utilizzati per intrecciare e per la
produzione di stuoie, cannicci, tetti,…
Sii può poi pensare di inserire una seconda
vasca in sequenza alla prima da utilizzarsi per la coltivazione di
piante come la bietola rossa, il fagiolino, la soia e lo zucchino,
anch’esse tolleranti ad elevati valori di salinità, per l’alimentazione
umana.
Le sponde della/e vasche possono esser
seminate ad erba medica, da utilizzarsi per la produzione di foraggio.
La manutenzione dell’impianto prevede il
decespugliamento delle essenze all’interno del letto ed allo sfalcio
lungo le sponde e i rilevati perimetrali alle vasche.
La conduzione e manutenzione dell’impianto,
estremamente semplice, può esser svolta da personale del luogo.
I vantaggi di questa metodica sono legati
essenzialmente alla semplicità costruttiva, all’economicità di
realizzazione e manutenzione, alla scarsa richiesta di elementi di
elevata tecnologia, al fabbisogno modesto di energia.
Nel contesto tanzaniano va considerata
inoltre la possibilità di riutilizzo delle essenze che hanno condotto la
depurazione. Spesso infatti gli inquinanti (elementi nutritivi per le
piante) non si distribuiscono uniformemente all’interno della pianta ma
risultano localizzati p.es. all’apparato radicale, consentendo così
l’utilizzo della parte aerea della pianta stessa (frutti, foglie) per la
produzione di foraggio e/o l’alimentazione umana.
Tutto questo permette di considerare
l’impianto in modo integrato: depurazione dell’acqua inquinata a fini
irrigui e potabili, con basso costo di progettazione, realizzazione e
mantenimento dell’impianto, unitamente ad una produzione agricola per
l’alimentazione umana e animale.
(Giu. 2010)
Ombretta Largiuni |