LA
GENERAZIONE DIFFUSA DI ENERGIA ELETTRICA DA FONTI RINNOVABILI IN ITALIA
di Adriano Maria Petruzzi
1 Le ragioni del
binomio fonti rinnovabili-generazione diffusa
Il quarto
rapporto sui cambiamenti climatici dell’autorevole Intergovernmental
Panel on Climate Change (IPPC)(1) ha sostenuto ciò su cui
la quasi totalità della comunità scientifica ormai concorda e che è alla
base della stipula di trattati internazionali come il Protocollo di
Kyoto: il riscaldamento globale che si è manifestato in maniera
drammaticamente intensa a partire dalla seconda metà del XX secolo è
causato principalmente dall’aumento della concentrazione di gas serra,
anidride carbonica in primis, legato a sua volta all’attività antropica.
Secondo il recente
rapporto internazionale dell’Energy Information Administration (EIA)(2)
gran parte delle emissioni di anidride carbonica nel mondo è conseguenza
dei processi di produzione di energia, in particolar modo di quelli
legati allo sfruttamento dei combustibili fossili, con un incremento
medio nel periodo 1990-2007 del 1,9% ogni anno.
Partendo da tali
presupposti, il Massachusetts Institute of Technology (MIT)
nel suo rapporto sul nucleare pubblicato nel 2003 ed aggiornato
nel 2009(3) ha previsto solo quattro possibili soluzioni per
la significativa riduzione delle emissioni di anidride carbonica:
l’utilizzo di tecnologie che le prevengano attraverso il sequestro,
l’aumento dell’efficienza energetica (riduzione degli sprechi sia in
fase di generazione, sia negli usi finali), il ricorso all’energia
nucleare e l’impiego di fonti energetiche rinnovabili.
Quest’ultima
soluzione è senza dubbio la più affascinante per il fatto che, oltre
all’obiettivo della riduzione delle emissioni di gas serra,
consentirebbe anche di perseguire l’obiettivo di uno sviluppo
sostenibile nell’ambito della generazione di energia, dato che le fonti
sfruttate sono intrinsecamente inesauribili e i processi impiegati sono
a ridotto impatto ambientale, a differenza dei tradizionali combustibili
fossili cui, oltre al problema dell’esauribilità, è associato anche
quello del prezzo fortemente condizionato da eventi geo-politici su
scala mondiale.
Nonostante tali
obiettivi siano già da molti anni considerati di prioritaria importanza
in molti paesi, secondo il già citato rapporto internazionale dell’EIA,
pur essendo nel mondo cresciuta mediamente del 3% ogni anno l’energia
elettrica prodotta da fonti rinnovabili nel periodo 1990-2007, nell’anno
2007 solo il 18% dell’energia elettrica nel mondo è stata generata da
fonti rinnovabili (mentre quasi il 14% è stato generato da fonte
nucleare ed il restante 68% da fonti fossili) e le stime di crescita
sulla loro diffusione non lasciano intravedere una reale possibilità di
sostituire con esse le tradizionali fonti fossili, nonostante le
problematiche legate allo sfruttamento di queste ultime (per il 2035 si
prevede che le rinnovabili saliranno a circa il 23%, il nucleare
continuerà ad attestarsi intorno al 14%, mentre le fonti fossili
scenderanno al 63%).
Tra i molteplici e complessi
motivi di ciò ve ne sono alcuni di carattere tecnico-economico che
influiscono in maniera insormontabile sulla disponibilità delle fonti in
esame: tali risorse, nonostante siano inesauribili, non sono disponibili
in abbondanza ovunque, a differenza dei combustibili fossili. Questi
ultimi infatti possono essere resi disponibili in grandi quantità anche
in aree del mondo che ne sono povere in quanto il loro trasporto non
solo è tecnicamente possibile ma è anche economicamente vantaggioso, a
causa della loro elevata densità energetica; la quasi totalità delle
fonti rinnovabili invece può essere sfruttata a fini energetici solo nel
luogo di prelievo, facendo eccezione a ciò solo le biomasse il cui
trasporto però, pur essendo tecnicamente possibile, non è economicamente
vantaggioso se non per brevi distanze a causa della loro bassa densità
energetica.
Inoltre condizione necessaria
affinchè sia giustificabile la realizzazione di impianti di grandi
dimensioni (e quindi fortemente impattanti sull’ambiente, anche in
assenza di emissioni di anidride carbonica) è che a ciò corrisponda una
elevata producibilità di energia.
Lo sfruttamento intensivo delle
fonti rinnovabili è quindi tecnicamente ed economicamente possibile,
oltrechè ambientalmente accettabile, solo in poche aree nelle quali
queste ultime sono localmente e naturalmente presenti in grandi quantità
a causa di favorevoli condizioni orografiche-idrologiche (centrali
idroelettriche di grande potenza), geologiche (grandi impianti
geotermici) oppure orografiche-climatiche (grandi installazioni eoliche
off-shore o impianti a torre solare in zone desertiche).
Tenuto conto del fatto che le aree
rimaste ancora disponibili per uno sfruttamento intensivo delle fonti
rinnovabili sono limitate, appare quindi evidente che l’obiettivo dello
sfruttamento di tali risorse su larga scala non può prescindere
dall’adozione per esse di un modello di generazione dell’energia opposto
a quello tradizionale centralizzato: la generazione diffusa nel
territorio attraverso impianti di piccola potenza (convenzionalmente il
limite è di 10 MWe).
La produzione di
energia attraverso l’impiego di fonti fossili nelle grandi centrali
termoelettriche in maniera localizzata ha seguito sinora il modello
della generazione centralizzata che ha permesso di sfruttare i vantaggi
economici derivanti dal maggior rendimento termodinamico di pochi
impianti di grande potenza nei confronti di impianti di piccola taglia
diffusi nel territorio, se pure con l’inconveniente degli elevati costi
associati alla necessità di realizzare linee elettriche ad alta tensione
per la trasmissione dell’energia prodotta alle utenze localizzate anche
a molte centinaia di chilometri di distanza.
La generazione
centralizzata ha quindi sinora prevalso principalmente per la
possibilità da essa derivante di impiegare processi tecnologici di
produzione energetica più efficienti (in grado cioè di massimizzare il
rapporto energia prodotta/energia in ingresso derivante dalle fonti),
riducendo così il consumo di fonti primarie a parità di energia
prodotta, oltrechè, come diretta conseguenza, l’emissione complessiva di
sostanze inquinanti.
La generazione
diffusa per contro trova ora giustificazione proprio nell’ottica del
superamento delle esposte problematiche di disponibilità delle fonti
rinnovabili, andando a costituire con queste ultime un binomio che
prevede in sostanza lo sfruttamento delle risorse naturali specifiche
presenti in un territorio spazialmente limitato per soddisfare, per
quanto localmente possibile, i soli bisogni energetici dello stesso
attraverso impianti di piccola taglia (e quindi a ridotto impatto
ambientale).
2 Le principali
fonti rinnovabili per la generazione diffusa di energia elettrica
2.1 Le biomasse
2.1.1 Soluzioni tecnologie
disponibili per lo sfruttamento
La normativa
italiana, in recepimento delle direttive europee, annovera le biomasse
tra le fonti rinnovabili e le definisce come “la parte biodegradabile
dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall'agricoltura
(comprendente sostanze vegetali e animali) e dalla silvicoltura e dalle
industrie connesse, nonchè la parte biodegradabile dei rifiuti
industriali e urbani”(4).
Vengono così
riuniti in tale definizione molti materiali eterogenei: residui
forestali e di lavorazione (frascami, ramaglie, scarti di segherie,
ecc.), le colture agricole (girasole, colza, sorgo da fibra, kenaf,
miscanto, ecc.), i residui dell’industria agroalimentare e
agroindustriale (potature di alberi da frutta, paglie di cereali,
vinacce, sanse, noccioli e gusci di frutta), la frazione organica dei
rifiuti solidi urbani (FORSU), i rifiuti domestici provenienti da
raccolta differenziata, i reflui civili e le deiezioni animali.
Ai fini della generazione diffusa
di energia sono in particolar modo utilizzabili, attraverso processi
distinti, due tipologie di materiali derivanti dai comparti forestale,
agricolo e zootecnico:
·
biomasse vegetali
solide vergini (sostanza organica biodegradabile di origine vegetale
incontaminata): principalmente residui agricoli e da selvicoltura;
·
deiezioni
zootecniche (sostanza organica biodegradabile di origine prevalentemente
animale): feci e urine animali, residui alimentari, ecc.
La prima delle due
tipologie esposte è caratterizzata da sostanze con un elevato rapporto
carbonio/azoto (superiore a 30) ed un tenore di umidità alla raccolta
abbastanza basso (in genere ben al di sotto del 50%), per cui ai fini
dello sfruttamento energetico risultano in questo caso convenienti
processi tecnologici di conversione termochimici, previo pretrattamento
per il miglioramento delle qualità fisiche, in centrali termoelettriche
a ciclo vapore del tutto simili a quelle che sfruttano i combustibili di
origine fossile; nel secondo caso invece si ha a che fare con sostanze
con basso rapporto carbonio/azoto (inferiore a 30) ed elevato contenuto
di umidità (superiore al 50%), preferenzialmente utilizzabili in
processi tecnologici di conversione biochimica in impianti di digestione
anaerobica con successivo impiego del biogas prodotto per l’azionamento
di motori endotermici.
Lo sfruttamento, in
entrambe i casi, avviene attraverso il modello della filiera
agro-energetica che comprende le tre fasi fondamentali di raccolta della
risorsa da un bacino di approvvigionamento spazialmente limitato, il
pretrattamento della stessa e l’impiego finale ai fini energetici in una
centrale localizzata all’interno del bacino di approvvigionamento; in
particolare si configurano due tipologie di filiera:
·
la filiera dei
biocombustibili solidi vergini;
·
la filiera del biogas.
La filiera dei
biocombustibili solidi vergini in particolare prevede le seguenti tre
fasi:
·
raccolta delle fonti
locali di biomassa, che, a seconda delle caratteristiche del bacino di
approvvigionamento, possono provenire in quantità variabili dal comparto
forestale (prodotti da pratiche selvicolturali), dal comparto agricolo
(residui colturali come paglie, stocchi, ecc.), dal comparto industriale
(scarti di legno vergine proveniente da falegnamerie o segherie) e da
colture dedicate (coltivazioni allestite allo scopo di produrre biomasse
recuperando terreni agricoli inutilizzati);
·
il pretrattamento
della biomassa raccolta attraverso essiccazione naturale o forzata e
cippatura (nel caso di biomassa legnosa in tronchetti), oppure
attraverso bricchettatura preceduta da eventuale essiccazione (nel caso
di biomassa erbacea);
·
la conversione
energetica mediante combustione in centrale termoelettrica tipicamente
dotata di caldaia con forno a griglia mobile e nella quale si realizza
il ciclo termodinamico Rankine classico a vapore.
La filiera del biogas
invece prevede le seguenti tre fasi:
·
raccolta delle fonti
locali di biomassa, che, a seconda delle caratteristiche del bacino di
approvvigionamento, possono provenire in quantità variabili dal comparto
zootecnico (prodotti di scarto degli allevamenti di bestiame, come
deiezioni ovine o bovine), dal comparto agricolo (paglie di cereali,
frutta e verdura di scarsa qualità, ecc.), dal comparto industriale
(scarti provenienti dall’industria della carne) e da colture dedicate
(coltivazioni alcoligene allestite allo scopo di produrre biomasse
recuperando terreni agricoli inutilizzati);
·
pretrattamento della
biomassa raccolta attraverso digestione anaerobica per la produzione di
biogas in reattori la cui tipologica va scelta a seconda delle
caratteristiche delle sostanze da trattare e delle relative quantità;
·
la conversione
energetica mediante combustione del biogas prodotto in motori
endotermici alternativi (a ciclo Otto o Diesel).
Si tratta in entrambe i
casi di soluzioni per la produzione di energia elettrica intrinsecamente
diffuse dal momento che per vincoli di carattere economico legati al
costo di trasporto delle biomasse il bacino di approvvigionamento delle
materie prime in genere non può estendersi su una superficie di raggio
superiore ai 70 Km dal luogo di utilizzo e ciò, tenuto conto della bassa
densità energetica delle fonti impiegate, impedisce l’installazione di
potenze elevate: le risorse presenti su un territorio così limitato non
permettono praticamente mai di superare i 40 MWe installati, di
conseguenza l’energia elettrica prodotta può essere destinata
direttamente al soddisfacimento delle richieste dell’utente finale
oppure al supporto delle reti locali di distribuzione (realizzando così
una forma di generazione diffusa).
2.1.2 Fattibilità economica
I costi di
investimento per la realizzazione di una filiera dei biocombustibili
solidi vergini, nell’ipotesi di acquisto delle biomasse già pronte per
la conversione energetica presso la centrale, comprendono i soli
imputabili all’installazione della centrale termoelettrica che, come già
accennato, è del tutto simile a quelle impiegate per la produzione di
energia a partire dalla combustione delle fonti fossili.
L’impiego di
biomasse vergini ha però il grande vantaggio, rispetto a queste ultime,
di limitare notevolmente il sistema di trattamento dei fumi il quale in
genere prevede solo un multiciclone, un filtro a maniche (o
elettrostatico), un sistema SNCR (riduzione selettiva non catalitica) in
camera di combustione e un reattore a calce.
Un ulteriore
vantaggio in termini di investimento è ottenibile mediante la previsione
di impiego di solo combustibile originato da biomassa legnosa (cippato
e/o bricchetti di segatura, trucioli o polverino) che, oltre ad avere
nel complesso una migliore efficienza in fase di combustione (a parità
di umidità), non ha gli inconvenienti tipici del combustibile originato
da biomassa erbacea: maggior contenuto di ceneri e soprattutto presenza
di elementi corrosivi (potassio, fosforo e zolfo) ed inquinanti (azoto,
cloro e zolfo); in particolare la presenza di elementi corrosivi
costringe, per evitare gli inconvenienti da essi derivanti, ad adottare
soluzioni impiantistiche particolari e costose, principalmente a livello
di caldaia.
Tra i costi di
investimento di una centrale termoelettrica non possono essere
trascurati quelli da sostenere per l’iter autorizzativo che, anche nel
caso di basse potenze installate, raramente ha una durata inferiore ai
tre anni.
Nel caso della
filiera del biogas i costi di investimento praticamente coincidono con
quelli di installazione dell’impianto per la fermentazione anaerobica e
dei motori endotermici per la produzione di energia.
Per quello che
riguarda invece i costi di esercizio una voce fondamentale che incide in
maniera decisiva sulla fattibilità economica di tali progetti è
rappresentata dal costo di approvvigionamento della biomassa che è
influenzato dalla tipologia di quest’ultima e dalle modalità di
raccolta, di pretrattamento, ma soprattutto di trasporto fino alla
centrale: quest’ultima voce di costo di fatto limita l’estensione del
bacino di approvvigionamento.
Evidentemente,
sulla base di quanto esposto, è di importanza critica l’analisi locale
delle risorse disponibili in un determinato bacino di approvvigionamento
ed è basandosi su questa che vanno effettuate le scelte sulla tipologia
di filiera da sviluppare, sulle dimensioni di quest’ultima (filiera
lunga o corta), sulle potenze da installare e sulla possibilità di
reperire biomasse anche da fonti diverse da quelle in generale più
frequentemente reperibili (comparto forestale, agricolo e zootecnico):
localmente possono essere infatti determinanti il contributo di fonti
derivanti dal comparto industriale (industria del legno, della carta,
della macellazione, ecc.) e soprattutto quello di fonti derivanti da
colture energetiche dedicate da impiantare ad hoc (lignocellulosiche per
le filiere dei biocombustibili solidi e alcoligene per quelle del
biogas). Nel caso inoltre di collocazione degli impianti in aree
prossime a città di grandi dimensioni o in discariche con volume residuo
di almeno 500.000 m3, può essere anche determinante il
possibile contributo dei residui urbani (principalmente scarti
lignocellulosici da raccolta differenziata per le filiere dei
biocombustibili solidi e frazione organica dei rifiuti solidi urbani per
quelle del biogas).
Di non minore
importanza per la fattibilità economica del progetto è d’altro canto
l’analisi del bacino di utenze da servire, in particolare vista la
possibilità di abbinare a tali forme di generazione diffusa di energia
elettrica anche forme di efficienza energetica per aumentare anche
notevolmente i rendimenti di generazione (e quindi la quantità di
energia utile prodotta a parità di fonti in ingresso) come la
cogenerazione che, nel caso di centrali alimentate a biomasse solide di
qualche megawatt di potenza, può essere abbinata al teleriscaldamento
per soddisfare le esigenze di riscaldamento e raffrescamento di un
numero limitato di utenze locali.
Infine decisive,
anche se incidenti solo nei primi 15 anni di gestione, sono le forme di
incentivazione previste dalla normativa vigente per la vendita di
energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili (i certificati verdi(5),
oppure, su eventuale richiesta per impianti di potenza inferiore a 1 MWe,
la tariffa omnicomprensiva(6)) e, eventualmente, quelle
previste per la produzione in cogenerazione di energia termica (i
certificati bianchi(7)).
Evidemente il
quadro è molto complesso, in particolar modo per quello che riguarda la
filiera dei biocombustibili solidi: la realizzazione e la gestione di
una centrale termoelettrica anche di bassa potenza installata è impresa
ardua a causa dei lunghi tempi necessari per l’iter autorizzativo
l’installazione degli impianti (in genere sono nel complesso necessari
almeno cinque anni di tempo) e a causa della difficoltà di mantenere in
fase di esercizio il richiesto approvvigionamento continuo di materie
prime provenienti da fonti diverse.
Secondo uno studio
specifico del 2007 condotto dal Dipartimento di Ingegneria Elettrica
dell’Università degli Studi di Padova, in collaborazione con l’Associazione
Produttori Energia da Fonti Rinnovabili (APER), considerando valori
medi di potenza installata e rendimento di generazione, il costo di
produzione di energia elettrica (quindi senza cogenerazione) si aggira
intorno ai 20,5 c€/KWh nel caso della combustione diretta di biomassa
vegetale solida ed intorno ai 14,3 c€/KWh nel caso di combustione di
biogas da digestione anaerobica.
2.1.3 Fattibilità ambientale
Una filiera delle
biomasse, oltre a produrre ricchezza nel territorio in cui viene
realizzata a causa delle ricadute occupazionali ad essa associate, può
determinare una forte rivalutazione del settore agricolo locale, specie
laddove questo è già in sofferenza, ad esempio attraverso il recupero
degli scarti di coltivazione o la riconversione di terreni improduttivi
a colture energetiche; in questo senso una centrale elettrica di piccola
taglia alimentata da biomasse prelevate in un bacino territorialmente
limitato e attiguo si distingue da una centrale termoelettrica di grande
taglia tradizionale a combustibili fossili che genera ricchezza nei
molti luoghi, necessariamente lontani, da cui vengono prelevate le
fonti.
L’impatto maggiore
sull’ambiente generato dalle prime due fasi di raccolta e pretrattamento
nell’ambito di una filiera è senz’altro quello dovuto al trasporto delle
biomasse, in genere difficilmente attuabile su ferro, fino alla centrale
dove avviene la conversione energetica finale (solitamente collocata in
posizione baricentrica all’interno del bacino di approvvigionamento). Le
emissioni di anidride carbonica associate a tale impatto sono comunque
limitate dalla ristrettezza delle distanze da percorrere: il carattere
diffuso di tale forma di generazione di energia, oltre ad essere imposta
da vincoli di carattere economico, ha anche motivazioni di carattere
ambientale.
Per quello che
riguarda invece l’ultima fase di conversione energetica gli impatti
maggiori sull’ambiente sono generati da una centrale a valle di una
filiera dei biocombustibili, piuttosto che da una centrale a valle di
una filiera del biogas: sebbene di piccola taglia e con una minore
necessità di trattamento dei fumi a causa della natura del combustibile
utilizzato, si tratta pur sempre di centrali termoelettriche a
combustione cui sono associate emissioni in atmosfera di agenti
impattanti quali ossidi di zolfo (SOx), ossidi di azoto (NOx),
acido cloridrico (HCl), particolato (PM10), monossido di
carbonio (CO), e, naturalmente, anidride carbonica (CO2).
Le linee di
trattamento fumi consentono di abbattere al di sotto dei limiti di legge
le emissioni dei primi inquinanti appena elencati, mentre discorso a
parte va fatto per le emissioni di anidride carbonica: utilizzando come
combustibile le biomasse vegetali infatti, l’anidride carbonica, unico
prodotto gassoso della combustione non controllabile attraverso sistemi
preventivi e principale responsabile dell’effetto serra, è rilasciata in
atmosfera in quantità pari a quella fissata nelle piante tramite
fotosintesi, cioè pari a quella che le biomasse bruciate emetterebbero
comunque se lasciate all’aria aperta; per questo la combustione delle
biomasse è considerata a bilancio nullo rispetto all’anidride carbonica.
Un altro impatto è
rappresentato dalla produzione di scorie di combustione, ceneri di
caldaia, ed altri prodotti residuali solidi di dimensioni medio-fini
provenienti dalla linea di trattamento fumi: mentre i residui grossolani
possono essere anche recuperati (ad esempio come sottofondo stradale)
invece di essere smaltiti in discarica, le particelle più fini sono
considerate rifiuti pericolosi e come tali vanno smaltite (in discariche
apposite e previa inertizzazione).
Restano poi da
considerare altri impatti che possono essere notevolmente mitigati
adottando in sede progettuale accorgimenti di inserimento territoriale
ed urbanistico, resi possibili dal fatto che, pur dovendo
preferibilmente trovarsi in posizione baricentrica all’interno del
bacino di approvvigionamento, non esistono altri vincoli per il
posizionamento della centrale: l’impatto visivo, oltre che attraverso
scelte di carattere architettonico, è ridotto attraverso l’inserimento
dello stabilimento in ambiti di scarso pregio paesaggistico, mentre
quello dovuto al rumore ed al traffico locale indotto è mitigato
attraverso la collocazione degli impianti in aree a destinazione
industriale.
Infine, ma non
meno importante, va considerato l’impatto ambientale positivo dovuto
alle mancate emissioni di anidride carbonica generate per produrre un
pari quantitativo di energia impiegando fonti fossili: appurato il fatto
che la conversione energetica finale è a bilancio nullo, anche
considerando le emissioni generate dalle prime fasi di raccolta e
pretrattamento della biomassa, il bilancio complessivo è positivo. In
particolare impiegando biomassa legnosa le emissioni evitate variano nel
range 400-1.000 Kg di CO2 per ogni metro cubo di combustibile
(in funzione della tipologia di pretrattamento che può portare alla
produzione di tronchetti, cippato, pellet o bricchetti), nel caso di
impiego di residui agricoli si varia nel range 400-6.000 Kg di CO2
per ogni ettaro coltivato (in funzione della coltura) ed in fine nel
caso di impiego di biomasse lignocellulosiche da colture dedicate si
varia nel range 10.000-50.000 Kg di CO2 per ogni ettaro
coltivato (sempre in funzione della coltura).
2.2 Il vento
2.2.1 Soluzioni tecnologie
disponibili per lo sfruttamento
La generazione
diffusa è ad oggi la forma più comune di produzione di energia elettrica
sfruttando il vento come fonte rinnovabile, sebbene la tendenza per il
futuro sembrerebbe quella dello sviluppo di installazioni off-shore di
grande taglia che utilizzano clusters di aerogeneratori con potenze
sempre maggiori e sempre più adattati ad operare in ambiente marino.
La generazione
diffusa viene invece realizzata utilizzando in genere uno o più
aerogeneratori di piccola-media taglia in clusters installati on-shore a
formare impianti di potenza variabile dai pochi chilowatt fino a qualche
megawatt connessi direttamente alla rete elettrica di distribuzione.
Gli aerogeneratori
impiegati possono essere ad asse verticale od orizzontale: in genere i
primi sono preferiti nel campo delle piccole potenze installate
(microeolico con potenza installata inferiore ai 20 KW) in quanto si
adattano meglio all’ambiente urbano in cui tali potenze sono in genere
impiegate a causa del minor impatto paesaggistico generato rispetto alle
turbine ad asse orizzontale che invece prevalgono nel campo del
minieolico (potenza installata compresa nel range 20-100 KW) e megawatt
(potenza installata compresa nel range 100-1.500 KW).
Gli aerogeneratori
ad asse verticale possono essere del tipo più semplice, come
l’anemometro a coppe o rotore Savonius, oppure più evoluto, come le
turbine di tipo Darreius e Giromill che sono più efficienti in quanto
non dissipano in attrito una quota non trascurabile dell’energia
cinetica del vento come avviene con il rotore Savonius. Un ulteriore
vantaggio delle turbine di tipo Darreius è che, a differenza delle altre
due tipologie, queste sono autoavvianti e non richiedono quindi un
motore ausiliario per ottenere lo spunto iniziale.
Gli aerogeneratori
ad asse orizzontale si distinguono per taglia: per la generazione
diffusa si impiegano in genere turbine con rotore di diametro compreso
tra i 10-12 m fino ai 50 m e con potenze nominali comprese
rispettivamente tra i 100 KW e i 1.000 KW.
2.2.2 Fattibilità economica
Il costo di
investimento per l’installazione di un sistema eolico on-shore per la
generazione diffusa (quindi di potenza installata pari al massimo a 10
MW), nei casi più gravosi (escludendo quindi il caso del microeolico)
comprende principalmente, oltre ovviamente a quello di installazione
degli aerogeneratori, il costo per le campagne anemometriche per la
valutazione del potenziale eolico del sito, che per fornire dati
significativi devono avere durata di almeno un anno, il costo per l’iter
autorizzativo, che può avere anche una lunga durata, il costo per le
opere civili (principalmente le fondazioni di ciascuna turbina e le
strade interne e quelle di accesso all’impianto) e quello della
concessione e delle opere necessarie alla connessione alla rete
elettrica di distribuzione.
Quest’ultimo
aspetto può risultare a volte decisivo per la fattibilità economica del
progetto che può essere minata dall’eccessiva distanza del sito in
oggetto dalla rete di distribuzione con conseguenti costi troppo elevati
per la realizzazione della linea (generalmente in media tensione) di
connessione.
Ovviamente di
cruciale importanza è l’esito della campagna anemometrica condotta per
la stima della potenzialità dello specifico sito oggetto dell’indagine
(analisi effettuate su più vasta scala possono solo dare indicazioni di
massima e non sono sufficienti): essa consiste nel determinare,
nell’arco in genere di un anno, la densità di probabilità di ogni
possibile velocità media del vento a varie quote ed in funzione della
direzione ed i suoi esiti, oltre a fornire indicazioni sulle scelte
progettuali da perseguire (in termini ad esempio di disposizione
planimetrica degli aerogeneratori da installare ed altezza del mozzo di
ciascuno di essi), di fatto permettono di stabilire se il progetto è
economicamente realizzabile.
Infine decisive,
anche se incidenti solo nei primi 15 anni di gestione, sono le forme di
incentivazione previste dalla normativa vigente per la vendita di
energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili (i certificati verdi(5),
oppure, su eventuale richiesta per parchi eolici di potenza inferiore a
200 KW, la tariffa omnicomprensiva(6).
Secondo uno studio
specifico del 2007 condotto dal Dipartimento di Ingegneria Elettrica
dell’Università degli Studi di Padova, in collaborazione con l’Associazione
Produttori Energia da Fonti Rinnovabili (APER), il costo medio di
produzione di energia elettrica nel caso di un parco eolico per una
potenza installata complessiva di 8 MW connesso in media tensione si
aggira intorno ai 10,1 c€/KWh, nel caso invece di un singolo
aerogeneratore connesso in media tensione il costo si aggira intorno ai
9,4 c€/KWh.
2.2.3 Fattibilità ambientale
Trascurando il
caso del microeolico il cui impatto generato è decisamente ridotto,
l’esercizio di un parco eolico on-shore, anche se di potenza installata
inferiore complessivamente ai 10 MW, genera degli impatti negativi
sull’ambiente circostante tutt’altro che trascurabili, di cui è
necessario tener conto in sede progettuale e che spesso minano la
fattibilità ambientale del progetto.
Il principale di
questi è l’impatto visivo dovuto sia alle strutture di sostegno, sia al
movimento delle pale rotoriche: in aree di pregio paesaggistico
l’installazione di tali impianti è praticamente irrealizzabile, ma anche
negli altri casi sono necessari accorgimenti di corretto inserimento
(come ad esempio la disposizione degli aerogeneratori su una linea
singola) perché un progetto possa essere approvato, specie quando, come
spesso accade, il sito ottimale dal punto di vista del potenziale
sfruttabile è collocato lungo un crinale ben visibile a chilometri di
distanza.
Sono poi da tenere
in considerazione il rumore generato dalle pale in movimento e gli
impatti generati sulla flora e sulla fauna locali: quest’ultimo in
particolare risulta essere in alcuni casi cruciale per la fattibilità
ambientale infatti, a causa di esso, è sempre da escludere la
possibilità di realizzare impianti di questo tipo in tutte le aree
prossime a rotte di migrazione di volatili per il rischio di collisioni
dell’avifauna con le pale in movimento delle turbine.
Anche nel caso di lontananza da
rotte di migrazione di volatili è comunque necessario in sede
progettuale adottare accorgimenti o prevedere sistemi per la riduzione
di tale rischio di collisione, ad esempio distanziando opportunamente
gli aerogeneratori o, nei casi più estremi, installare sorgenti di
disturbo sonoro nel campo degli ultrasuoni.
Per quello che
riguarda infine l’impatto ambientale positivo, rappresentato dalle
evitate emissioni di anidride carbonica per l’utilizzo di fonti non
fossili nella generazione di energia elettrica, esso è ad esempio
quantificabile in quasi 90.000 Kg di CO2 per ogni anno di
esercizio di un sistema eolico costituito da tre aerogeneratori da 20 KW
ciascuno. Secondo uno studio condotto presso il Dipartimento di
Ingegneria Industriale dell’Università degli Studi di Perugia(8)
le emissioni di anidride carbonica di una centrale eolica durante il suo
intero ciclo di vita (trasporto dei materiali e dei componenti,
realizzazione, manutenzione e smaltimento finale) sono quantificabili in
circa 17 gCO2/KWhe e le conseguenti emissioni di
anidride carbonica evitate, prendendo come riferimento le centrali a
ciclo combinato per la produzione di energia da fonti fossili, ammontano
a circa 483 gCO2/KWhe.
2.3 L’acqua
2.3.1 Soluzioni tecnologie
disponibili per lo sfruttamento
Tra le possibili
forme di sfruttamento dell’energia rinnovabile posseduta dall’acqua
quella che più si adatta ad un modello diffuso di generazione
dell’energia elettrica è rappresentata dallo sfruttamento dell’energia
potenziale posseduta dalla corrente di un fiume di portata anche non
notevole, ma poco variabile nell’anno, che fluisce da una quota maggiore
ad una quota minore superando un salto corrispondente di pochi metri: si
tratta quindi di piccoli impianti ad acqua fluente per la cui
realizzazione non è richiesta la realizzazione di opere estremamente
onerose sia dal punto di vista economico sia ambientale (come dighe per
la formazione di bacini artificiali), né di siti con condizioni
orografiche o idrologiche particolarmente favorevoli, che tra l’altro in
genere sono già abbondantemente sfruttati con centrali idroelettriche di
grossa taglia.
Tali impianti si
distinguono da quelli a bacino per l’assenza di un serbatoio di accumulo
e compenso che permetta di estendere il loro funzionamento a pieno
regime anche ai periodi di magra e vengono realizzati in prossimità
dell’alveo seguendo in genere due possibili schemi: nel primo l’acqua,
derivata attraverso un’opera di presa, viene addotta alla turbina
attraverso una condotta forzata simile a quelle impiegate negli impianti
a grande salto, ma di lunghezza molto più limitata, il secondo consiste
invece nel creare il salto attraverso una piccola diga (chiamata
traversa) con paratoie a settore nella quale è inserita, oltre alla sala
macchine, anche l’opera di presa.
L’opera di presa
ha lo scopo di derivare l’acqua necessaria al funzionamento delle
turbine e di lasciar passare la portata d’acqua eccedente e, nel caso
del secondo schema illustrato, diviene una vera e propria diga,
generalmente realizzata in terra o in calcestruzzo, dotata di
scaricatori di superficie e di dispositivi per l’innalzamento, con
sistema oleodinamico, del pelo dell’acqua a seconda delle necessità di
salto.
Dati i bassi salti
in gioco le turbine più impiegate in questo genere di impianti sono
quelle a reazione, in particolare Francis (turbine a flusso radiale) e
soprattutto Kaplan o ad elica (turbine a flusso assiale).
2.3.2 Fattibilità economica
Il costo di
investimento per l’installazione di una piccola centrale ad acqua
fluente per la generazione diffusa (quindi di potenza installata pari al
massimo a 10 MW), comprende principalmente i costi per le attività
propedeutiche iniziali come lo studio di fattibilità, la progettazione e
la gestione della procedura autorizzativa (in genere molto onerosa per
impianti idro) ed ovviamente i costi per l’installazione delle opere
elettromeccaniche (turbine, impiantistica elettrica di potenza e
controllo, attuatori oleodinamici e opere per allaccio alla rete ENEL) e
quelli per la realizzazione delle opere civili necesssarie (opera di
presa, eventuale condotta forzata di adduzione, eventuale traversa di
sbarramento con scaricatori di superficie, edificio che ospita la sala
macchine, opera di scarico ed altre opere per la mitigazione
dell’impatto ambientale come la scala dei pesci).
Molto importante
per la fattibilità economica è ovviamente l’esito dello studio di
prefattibilità, in particolar modo per quello che riguarda la stima del
potenziale idraulico sfruttabile in una particolare sezione trasversale
del corso d’acqua in esame, rappresentato dal salto disponibile, dal
deflusso minimo vitale che deve essere garantito per motivi ambientali e
soprattutto dalla curva di durata, ossia dalla curva, individuabile con
studi specifici di carattere idrologico, che mostra per ogni possibile
portata il numero di giorni dell’anno in cui tale portata viene
uguagliata o superata: tali studi, oltre ad essere la base per le
successive scelte progettuali (prima fra tutte quella della potenza da
installare), sono cruciali per stabilire se un progetto è economicamente
realizzabile.
Particolarmente
favorevole dal punto di vista economico è la condizione, non molto
comune, nella quale si ha la possibilità di sfruttare il deflusso
regolato (e quindi garantito per tutto l’anno) proveniente da un bacino
artificiale preesistente, realizzato ad esempio per scopi irrigui: in
questo modo si gode dei vantaggi di un impianto a bacino senza dover
realizzare costose opere di sbarramento.
A volte accade che
a seguito di studi specifici condotti nell’ambito del bacino idrografico
di un corso d’acqua i siti con potenziale idraulico maggiore sono
localizzati in aree di difficile accesso e/o molto distanti dalle linee
elettriche di distribuzione, sebbene gli impianti con piccolo salto
abbiano il vantaggio di poter essere realizzati in zone di pianura più
accessibili di quelle di montagna adatte invece ad impianti con grande
salto; in questi casi, nonostante il potenziale sfruttabile, la
fattibilità economica del progetto è definitivamente minata per
l’eccessivo costo delle opere per l’accesso al sito, delle opere di
allaccio alla rete elettrica e del trasporto dei materiali per la
realizzazione dell’impianto.
Infine decisive,
anche se incidenti solo nei primi 15 anni di gestione, sono le forme di
incentivazione previste dalla normativa vigente per la vendita di
energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili (i certificati verdi(5),
oppure, su eventuale richiesta per impianti di potenza inferiore a 1 MW,
la tariffa omnicomprensiva(6).
Secondo uno studio
specifico del 2007 condotto dal Dipartimento di Ingegneria Elettrica
dell’Università degli Studi di Padova, in collaborazione con l’Associazione
Produttori Energia da Fonti Rinnovabili (APER), il costo medio di
produzione di energia elettrica da impianti di questo tipo è
estremamente variabile in funzione di molti fattori, comunque in linea
di massima nel caso di un impianto con basso salto e piccola potenza
installata (400 KW) tale costo si aggira intorno ai 17,4 c€/KWh, nel
caso invece di un impianto con basso salto e media potenza installata
(4.200 KW) il costo scende sensibilmente aggirandosi intorno ai 10,6 c€/KWh.
2.3.3 Fattibilità ambientale
Tra gli impatti
generati durante l’esercizio di un piccolo impianto ad acqua fluente uno
dei principali è sicuramente quello generato sull’alveo lungo il quale
viene realizzato: la riduzione di portata tra presa e restituzione può
influenzare la deposizione delle uova, l’incubazione, la crescita ed il
transito di pesci anadromi e gli spazi vitali per i pesci adulti,
inoltre in periodi di alte portate l’acqua sfiora sopra le traverse ed
inonda gli alvei e spesso sono proprio queste frequenti variazioni da
regime semisecco a umido che danneggiano la vita acquatica. Per
l’attenuazione di tale impatto è necessario prevedere in sede
progettuale dispositivi di derivazione in grado di assicurare nel tratto
interessato il deflusso minimo vitale imposto localmente, riducendo così
la producibilità dell’impianto, inoltre è necessario prevedere la
realizzazione di opere per il passaggio dei pesci che discendono la
corrente onde evitare il passaggio degli stessi attraverso la turbina e,
nel caso di presenza di specie di pesci anadromi come i salmoni, è
necessario anche prevedere la realizzazione di opere di risalita come le
scale per i pesci.
Un altro impatto
da considerare è quello dovuto al rumore generato dalle turbine, ma
anche in questo caso esso può essere notevolmente mitigato adottando
alcuni accorgimenti progettuali, come l’installazione di componentistica
(turbine, moltiplicatori e generatori) certificata a bassa emissione di
rumore, l’installazione di pannelli fonoassorbenti sulle casse turbina,
e l’insonorizzazione dell’edificio di centrale.
Particolare
attenzione va inoltre riposta alla mitigazione dell’impatto
paesaggistico, specie se l’area in oggetto è di particolare pregio
naturalistico (alveo che attraversa un parco) oppure storico-culturale
(alveo che attraversa un’area urbana storicamente rilevante); la regola
generale da seguire per la mitigazione dell’impatto è quella di
integrare il più possibile le opere nell’ambiente in cui queste devono
essere realizzate cercando ad esempio di evitare il più possibile il
calcestruzzo come materiale da costruzione, scegliendo accuratamente i
colori ed utilizzando vegetazione, rivestimenti in pietra o opere di
ingegneria naturalistica per mascherare le opere più impattanti.
Per quello che
riguarda infine l’impatto ambientale positivo, rappresentato dalle
evitate emissioni di anidride carbonica per l’utilizzo di fonti non
fossili nella generazione di energia elettrica, esso è ad esempio
quantificabile in quasi 90.000 Kg di CO2 per ogni anno di
esercizio di un sistema eolico costituito da tre aerogeneratori da 20 KW
ciascuno. Secondo uno studio condotto presso il Dipartimento di
Ingegneria Industriale dell’Università degli Studi di Perugia(8)
le emissioni di anidride carbonica di una centrale idroelettrica non del
tipo a bacino durante il suo intero ciclo di vita sono quantificabili in
circa 15 gCO2/KWhe e le conseguenti emissioni di
anidride carbonica evitate, prendendo come riferimento le centrali a
ciclo combinato per la produzione di energia da fonti fossili, ammontano
a circa 485 gCO2/KWhe.
2.4 Il sole
2.4.1 Soluzioni tecnologie
disponibili per lo sfruttamento
La bassa densità
energetica della radiazione elettromagnetica solare che giunge sulla
suerficie terrestre rende lo sfruttamento distribuito di tale fonte
rinnovabile di gran lunga il più diffuso: la realizzazione di centrali
che sfruttano tale fonte per una potenza complessiva superiore ai 10 MWp
(di picco), oltre a richiedere grandi investimenti, richiede l’impiego
di superfici considerevoli.
La tecnologia che
più si adatta alla generazione diffusa di energia elettrica dalla fonte
solare è rappresentata dalla conversione diretta dell’energia
elettromagnetica della radazione che giunge sulla superficie della terra
per effetto fotovoltaico attraverso moduli costituiti da celle
fotovoltaiche collegati in serie e in parallelo.
Tra i moduli
fotovoltaici quelli in grado di garantire il miglior rendimento di
conversione (in genere compreso nel range 13-18 %) sono quelli
costituiti da celle in silicio monocristallino, che però, a causa della
complessità della loro lavorazione e della quantità di silicio
necessario alla loro produzione, sono anche quelli che presentano i
costi più elevati. Più economici ma meno performanti, anche in termini
di sensibilità alle pimpurità, sono i moduli in silicio policristallino
con un rendimento di conversione che in genere ricade nel range 13-14%.
Possono essere impiegati, specie in condizioni di cattiva esposizione,
anche moduli costituiti da celle in film sottile, in particolare in
silicio amorfo, i quali, a fronte di un rendimento di conversione
decisamente più basso (in genere nel range 5-8 %) e ad un degrado
iniziale maggiore, possono però offrire un minor calo di prestazioni in
condizioni di alta temperatura, un minor irraggiamento rispetto al
silicio cristallino, oltre a costi decisamente più contenuti.
Tali moduli
possono essere impiegati per costituire campi fotovoltaici in grado di
generare energia da cedere integralmente in rete con potenze di picco di
qualche megawatt, oppure, in parziale o totale integrazione
architettonica su edifici e tettoie, per costituire piccoli impianti da
1 KWp per soddisfare i fabbisogni energetici annui di un
appartamento familiare fino a qualche centinaio di chilowatt di punta
per coprire, anche parzialmente, i fabbisogni aziendali di utenze
industriali o commerciali.
2.4.2 Fattibilità economica
La voce di costo
più importante per la realizzazione di un impianto fotovoltaico, sia
esso destinato a piccole utenze domestiche o ad utenze aziendali di
maggiori dimensioni, è rappresentata dal costo di acquisto dei moduli,
fortemente dipendente dalla tipologia scelta, ma che in generale incide
per circa il 70% sul costo di investimento complessivo, rappresentando
il restante 30% il costo di installazione dei vari elementi ed il costo
di acquisto delle restanti componenti dell’impianto: opere meccaniche di
sostegno o civili di adeguamento edilizio per i moduli ed il
balance-of-system comprendente a sua volta i cablaggi, l’inverter per la
conversione della corrente continua prodotta in alternata per le utenze,
le protezioni di sicurezza necessarie, i quadri elettrici ed i
contatori.
Per quello che
riguarda invece i costi di manutenzione tra essi vanno annoverati quello
ordinario di pulizia della superficie dei moduli per il mantenimento
della loro efficienza e soprattutto quello straordinario di sostituzione
dell’inverter che va affrontanto almeno una volta nell’arco dell’intera
vita utile dell’impianto (in genere i fornitori di pannelli fotovoltaici
garantiscono una riduzione contenuta delle prestazioni dei moduli per 25
anni), anche se ultimamente i fornitori di inverter stanno cominciando a
proporre garanzie anche ventennali.
La fattibilità
economica del progetto è influenzata, oltre che ovviamente dalla taglia
dell’impianto, dalla producibilità annua di ogni chilowatt di picco
installato, dipendente dalla posizione geografica del sito di
installazione (soprattutto dalla latitudine) e dalla condizioni di
esposizione in termini di orientamento, inclinazione ed ombreggiamento
dovuto ad ostacoli (l’esposizione ottimale è verso sud con angolo di
tilt di 30° e senza ostacoli che producano ombreggiamenti). Tali
condizioni, nel caso ad esempio di installazione ad integrazione
architettonica su tetti di edifici, possono essere corrette solo di
poco, per cui in caso di cattiva esposizione, anche se la producibilità
del sito è elevata, la fattibilità del progetto è in gerere compromessa.
In ogni caso
risultano sempre decisive le forme di incentivazione previste dalla
normativa vigente per la produzione di energia elettrica prodotta da
fonte solare che differiscono sensibilmente da quelle previste per le
altre fonti rinnovabili: si tratta del recente Conto Energia
2011-2013(9) che assicura una tariffa incentivante
garantita per 20 anni in funzione della potenza di picco installata, del
grado di integrazione architettonica e del grado di innovazione del
progetto proposto; spesso, per impianti grid-connected destinati ad
utenze domestiche o piccole utenze aziendali fino a 200 KWp,
tale meccanismo incentivante è abbinato al quello di Scambio sul
posto(10) che, permettendo di prelevare dalla rete una
quantità di energia pari a quella immessa, consente di ovviare ai
problemi maggiori legati alla disponibilità della fonte solare: le
condizioni meteorologiche, l’alternanza delle stagioni e, soprattutto,
l’alternanza giorno-notte.
Secondo uno studio
specifico del 2007 condotto dal Dipartimento di Ingegneria Elettrica
dell’Università degli Studi di Padova, in collaborazione con l’Associazione
Produttori Energia da Fonti Rinnovabili (APER), il costo medio di
produzione di energia elettrica da impianti fotovoltaici per usi
domestici (1-3 KWp installati) si aggira intorno ai 50,0 c€/KWh,
nel caso invece di un impianto per usi aziendali (potenza installata
nel range 40 KWp–1 MWp) il costo scende
aggirandosi intorno ai 41,0 c€/KWh.
2.4.3 Fattibilità ambientale
L’impatto maggiore
generato da un impianto fotovoltaico sull’ambiente è sicuramente quello
derivante dall’impiego di superficie che, nel caso di impianti di taglia
maggiore, è considerevole dato lo scarso rendimento di conversione dei
moduli: la superficie occupata da un sistema fotovoltaico è di poco
superiore a quella occupata dai moduli, ma occorrono circa 7-7,5 m2
di pannelli per installare 1 KWp nel caso di moduli in
silicio monocristallino, 8-8,5 m2 nel caso di moduli in
silicio policristallino e 13-13,5 m2 nel caso di moduli in
silicio amorfo.
I problemi
derivanti da ciò riguardando ovviamente i campi fotovoltaici non
integrati (in genere si tratta di impianti di taglia maggiore), ma
decisamente molto meno gli impianti integrati architettonicamente ai
tetti degli edifici (cioè complanari a questi ultimi o comunque nascosti
da balaustre) i quali non creano problemi di carattere paesaggistico né
sprechi di superficie che potrebbe essere destinata ad altri usi.
Per quello che
riguarda infine l’impatto ambientale positivo, rappresentato dalle
evitate emissioni di anidride carbonica per l’utilizzo di fonti non
fossili nella generazione di energia elettrica, secondo uno studio
condotto presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale
dell’Università degli Studi di Perugia(8) esso dipende
molto dalla particolare tecnologia impiegata e, di conseguenza, dalla
complessità di realizzazione dei moduli: le emissioni di anidride
carbonica nel caso di impianto che utilizza pannelli con celle in
silicio amorfo durante il suo intero ciclo di vita sono quantificabili
in circa 68 gCO2/KWhe, nel caso invece delle celle
in silicio monocristallino sono quantificabili in circa 173 gCO2/KWhe
ed infine nel caso delle celle in silicio policristallino sono
quantificabili in circa 111 gCO2/KWhe; le
conseguenti emissioni di anidride carbonica evitate, prendendo come
riferimento le centrali a ciclo combinato per la produzione di energia
da fonti fossili, ammontano rispettivamente a circa 432 gCO2/KWhe,
327 gCO2/KWhe e 389 gCO2/KWhe.
3 Il quadro recente
sulla generazione diffusa di energia elettrica in Italia
Secondo i risultati di uno
specifico monitoraggio dell’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas
(AEEG)(11) la produzione lorda di energia elettrica (al
lordo di perdite di generazione ed autoconsumi) da impianti di
generazione distribuita nel 2007 in Italia è stata pari a 19,3 TWh
(circa il 6,1% dell’intera produzione nazionale di energia elettrica),
con un incremento, rispetto al 2006, di 5,8 TWh, mentre nel 2008 la
produzione lorda è stata pari a 21,6 TWh (circa il 6,8% dell’intera
produzione nazionale di energia elettrica), con un ulteriore incremento
rispetto al 2007 di 2,3 TWh; di conseguenza la produzione di energia
elettrica da impianti di generazione distribuita è aumentata negli
ultimi anni ed è aumentata anche l’incidenza di tale produzione sul
totale della produzione lorda nazionale.
Inoltre nel 2007 risultavano
installati 10.371 impianti di generazione diffusa per una potenza
efficiente lorda (potenza massima ottenibile in condizioni ottimali) di
6.072 MW (circa il 6,3% della potenza efficiente lorda del parco di
generazione nazionale), mentre nel 2008 gli impianti installati erano
34.848 con una potenza efficiente lorda corrispondente di 6.627 MW
(circa il 6,5% della potenza efficiente lorda del parco di generazione
nazionale); l’evidente aumento del numero di impianti installati è da
imputare fondamentalmente agli impianti alimentati da fonte solare,
nello specifico impianti fotovoltaici, che sono passati da poco più di
4.000 nel 2006 a 31.911 nel 2008, e in parte marginale agli impianti
idroelettrici, termoelettrici ed eolici.
In relazione alla fonte di energia
utilizzata è emerso che nel 2007 il 53,9% dell’energia elettrica
prodotta dagli impianti di generazione distribuita è di origine
rinnovabile e tra le fonti rinnovabili la principale è la fonte idrica
per una produzione pari al 36,8% dell’intera produzione da generazione
diffusa, seguita da biomasse e biogas con il 12,3%, eolica con il 3,5%,
geotermica con l’1,1% e solare con lo 0,2%; nel 2008 l’energia elettrica
prodotta da fonte rinnovabile è salita al 58,7% del totale di quella
prodotta in maniera diffusa e anche in questo anno la principale fonte
utilizzata è quella idrica per una produzione pari al 42,4% della
produzione da generazione distribuita, seguita ancora una volta da
biomasse e biogas con l’11%, eolica con il 3,2%, geotermica con l’1,0% e
solare con lo 0,9%.
Interessante è infine il dato
sull’incidenza delle fonti rinnovabili sulla produzione totale (sia in
modo centralizzato che distribuito) di energia elettrica in Italia il
cui confronto con i dati appena esposti conferma quanto affermato circa
le ragioni del binomio fonti rinnovabili-generazione diffusa: sia nel
2007 che nel 2008 solo il 20% circa dell’energia totale prodotta in
Italia (pari rispettivamente a 313,9 TWh e 319,1 TWh) è stata generata
da fonti rinnovabili, grazie soprattutto al contributo delle centrali
idroelettriche di grossa taglia.
4 Le potenzialità
della generazione diffusa di energia elettrica da fonti rinnovabili in
Italia
4.1 Le biomasse
Lo sfruttamento
delle biomasse (comprendente le filiere dei biocombustibili solidi
vergini e le filiere del biogas) rappresenta attualmente la seconda
forma più diffusa di generazione distribuita di energia elettrica da
rinnovabili in Italia, anche se la tendenza del suo sviluppo risulta in
calo rispetto ad altre forme di generazione distribuita da rinnovabili
(in particolar modo il solare): facendo riferimento all’anno 2008 sono
stati prodotti quasi 2,4 TWh da biomasse in modo diffuso.
Per la valutazione
della disponibilità della fonte in Italia, non essendo ancora
disponibile uno studio approfondito né una mappatura dettagliata del
territorio nazionale, si può fare utile riferimento ad uno specifico
rapporto del 2008 del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare in collaborazione con l’Italian Biomass
Association (ITABIA)(12) secondo il quale, escludendo le
biomasse non verosimilmente accessibili per motivi economici, logistici
o di mercato le quantità annue disponibili di sostanza secca disponibili
per la conversione energetica si aggirano intorno alle 25 t, 9,3 t delle
quali provenienti dal comparto agricolo, 6,5 t da quello forestale, 4,5
da quello industriale (in particolare industria del legno, 3,9 da quello
agroindustriale e 0,9 t provenienti dalla raccolta differenziata dei
rifiuti solidi urbani). A questi vanno aggiunti i contributi provenienti
dalle potenziali colture energetiche dedicate e dai reflui zootecnici
che portano nel complesso ad un potenziale stimato, espresso in termini
di energia primaria, 24-30 Mtep/anno, corrispondenti a circa 130-160 TWh/anno.
Di questo
potenziale però, almeno per il momento, solo il 30-35% (40-55 TWh/anno)
è effettivamente sfruttabile a causa della difficoltà che ancora si
riscontrano nell’ambito delle prime fasi di filiera (raccolta,
pretrattamento, trasporto e fornitura della biomassa per la conversione
enegetica); tali difficoltà sono causate principalmente dalla precarietà
dei bacini di approvvigionamento e dalla complessità di istituzione di
accordi pluriennali di filiera tra gli operatori del settore.
4.2 Il vento
Lo sfruttamento del vento
rappresenta attualmente la terza forma più diffusa di generazione
distribuita di energia elettrica da rinnovabili in Italia, anche se,
come nel caso delle biomasse, la tendenza del suo sviluppo risulta in
calo rispetto ad altre forme di generazione distribuita da rinnovabili
(in particolar modo il solare), anche in dipendenza del fatto che stanno
prendendo sempre più campo anche in Italia forme di sfruttamento
centralizzato di tale fonte con impianti di taglia maggiore, in
particolar modo off-shore: facendo riferimento all’anno 2008 sono stati
prodotti quasi 0,8 TWh dal vento sul totale di 21,6 TWh prodotti in modo
diffuso da fonti rinnovabili.
Per una stima della fonte
sfruttabile in Italia si può partire dalla mappatura dettagliata
contenuta nell’Atlante Eolico dell’Italia realizzato dal CESI
e dall’Università degli Studi i Genova(13) e
consultabile on-line. A partire da tali dati si può effettuare una stima
del potenziale sfruttabile attraverso il solo eolico terrestre,
escludendo cioè le installazioni off-shore la cui maggiore complessità
realizzativa le rende più adatte a progetti con potenze nominali
installate superiori ai 10 MW: considerando cautelativamente un impiego
di superficie utile del 2% sulla totale disponibile nel territorio
nazionale ed ipotizzando una potenza nominale specifica degli impianti
che sfruttano tale suprficie in modo diffuso pari a 10 MW/Km2
per un numero di ore annuo di funzionamento superiore a 1750 h/anno si
ottiene un potenziale di 24 TWh/anno.
Tale stima va vista al rialzo dato
che non considera il microeolico (impianti con potenza nominale
inferiore a 20 KW) ed il minieolico (impianti con potenza nominale
compresa nel range 20-100 KW), i cui contributi possono essere valutati
solo a livello locale.
4.3 L’acqua
Al momento lo sfruttamento
dell’acqua rappresenta indiscutibilmente la forma più diffusa di
generazione distribuita di energia elettrica da rinnovabili in Italia:
facendo riferimento all’anno 2008 sono stati prodotti quasi 9,2 TWh da
impianti idroelettrici sul totale di 21,6 TWh prodotti in modo diffuso
con fonti rinnovabili.
Per la stima della potenzialità
della fonte in Italia si può far riferimento ai risultati di uno
specifico censimento condotto nel 2006 dal CESI su commissione
del Ministero dello Sviluppo Economico(14). Nel
relativo rapporto si parte subito con l’affermare che le potenzialità
dell’idroelettrico minore (impianti con potenza nominale inferiore ai 10
MW) ha ancora notevoli margini di sviluppo per l’esistenza di numerose
situazioni idrologiche e geomorfologiche estremamente favorevoli che, a
differenza di quelle adatte all’installazione di impianti di grande
taglia, non sono state ancora sfruttate.
Nel complesso è stata valutata una
producibilità elettrica massima di 200 TWh/anno, ottenibile nel caso,
ovviamente non realistico, di conversione totale di tutta l’energia
potenziale idraulica disponibile a livello nazionale (in particolar modo
concentrata, secondo la mappatura del CESI, lungo l’arco alpino
e, in minor misura, lungo quello appenninico). Sempre secondo il
rapporto, tenendo conto dei vincoli di carattere tecnico-economico ed
ambientale, il 25% di tale producibilità massima (pari quindi a 50 TWh/anno)
è un valore realistico dell’effettivo potenziale che può essere
raggiunto ed eventualmente anche superato proprio attraverso
l’installazione di impianti per la generazione diffusa, soprattutto
mini-idro (potenza nominale nel range 100-1.000 KW).
4.4 Il sole
Al momento lo sfruttamento del
sole rappresenta una forma di generazione distribuita di energia
elettrica da rinnovabili in forte crescita in Italia; facendo
riferimento all’anno 2008 sono stati prodotti quasi 0,2 TWh da impianti
fotovoltaici sul totale di 21,6 TWh prodotti in modo diffuso da fonti
rinnovabili.
La quantità di energia sfruttabile
da fonte solare in modo diffuso dipende essenzialmente dalla
disponibilità di superfici, in particolar modo di quelle non
utilizzabili per altri usi, e dalle possibili evoluzioni tecnologiche
che possano incrementare il rendimento di conversione dei moduli
impiegati.
Per una stima sulla potenzialità
della fonte si può far riferimento ad uno specifico rapporto della
Commissione Nazionale per l’Energia Solare (CNES)(15)
che, a partire dalla mappatura sull’irraggiamento del territorio
italiano, ha previsto una producibilità annua crescente nel periodo
2015-2030: 12,0 TWh/anno nel 2015, 19,9 TWh/anno nel 2020 e 34,4 TWh/anno
nel 2030. Tale stima è partita dalla valutazione del potenziale teorico,
dipendente dalla superficie delle aree a diverse destinazioni d’uso
adatte ad ospitare impianti fotovoltaici, è proseguita considerando
anche la fattibilità tecnico-economica, dipendente principalmente dalle
condizioni di esposizione ed irraggiamento locali, ed infine ha anche
considerato, sulla base di indagini sul mercato internazionale del
fotovoltaico, la capacità industriale necessaria allo sviluppo del
settore.
5 Conclusioni
Sulla base
di quanto esposto appare chiaro come ogni forma di sfruttamento diffuso
delle fonti rinnovabili presenti differenti punti di forza e di
criticità: le biomasse presentano di gran lunga il potenziale maggiore,
tuttavia lo sfruttamento dello stesso è in assoluto il più complesso,
per contro l’eolico (terrestre) presenta la disponibilità minore, ma
un’ottima fattibilità tecnico-economica, l’idroelettrico presenta
caratteristiche intermedie in termini di fattibilità
economica-ambientale e disponibilità della fonte ed infine il
fotovoltaico presenta la minore complessità realizzativa, tuttavia la
sua diffusione, sebbene in crescita, è ancora fortemente ostacolata
dagli elevati costi dei moduli.
La
sintetica analisi esposta circa le potenzialità dello sfruttamento
distribuito delle fonti rinnovabili mette in evidenza come il binomio
fonti rinnovabili-generazione diffusa non possa rappresentare, nemmeno a
lungo termine, la soluzione unica e definitiva al problema del
fabbisogno energetico italiano che supera abbondantemente i 300 TWh/anno:
l’affiancamento alle fonti tradizionali fossili o alle fonti alternative
come il nucleare, per le quali è più adatta una forma centralizzata di
produzione, appare comunque necessario.
Tuttavia, almeno
con le tecnologie ad oggi disponibili, appare anche evidente come il
binomio fonti rinnovabili-generazione diffusa, potendo potenzialmente
fornire un apporto tutt’altro che trascurabile, non solo costituisca una
possibile risposta concreta al problema mondiale delle emissioni di gas
serra e a quello nazionale dell’approvvigionamento energetico
dall’estero, ma rappresenti anche l’unica vera possibilità di
differenziazione delle fonti energetiche.
(1) IPCC Fourth Assessment
Report: Climate Change 2007 (AR4).
(2) EIA
International Energy Outlook 2010.
(3)
Update of the MIT 2003 Future of Nuclear Power – An interdisciplinary
MIT study.
(4) Art. 2 comma 1 lettera a) e
art. 2 comma 1 lettera f) del D.Lgs. 29 dicembre 2003, n. 387.
(5) Introdotti dall’art. 11 del
D.Lgs 16 marzo 1999, n. 79 e il cui meccanismo è attualmente
definito dal DM 18 febbraio 2008.
(6) Introdotta dal DM 18
febbraio 2008.
(7) Introdotti dal DM 20 luglio
2004.
(8) Contenimento del
riscaldamento globale: confronto tra sistemi per il controllo
dell’albedo terrestre e fonti energetiche rinnovabili – CIRIAF,
Università degli Studi di Perugia, Dipartimento di Ingegneria
Industriale, Sezione di Fisica Tecnica – 2008.
(9) Introdotto dal DM 6 agosto
2010.
(10) Regolato dalla Delibera
AEEG n. 74/08.
(11) Monitoraggio dello
sviluppo degli impianti di generazione distribuita per gli anni 2007 e
2008 approvato con delibera dell’Autorità per l’Energia Elettrica
e il Gas (AEEG) ARG/elt 81/10..
(12) Ministero dell’Ambiente e
della Tutela del Territorio e del Mare. I Traguardi della Bionenergia in
Italia – Elementi chiave per gli obiettivi al 2020 – Rapporto 2008.
(13) Ricerca di Sistema per il
Settore Elettrico – Progetto ENERIN – Atlante Eolico dell’Italia. CESI e
Università degli Studi di Genova, Dipartimento di Fisica (www.ricercadisistema.it).
(14) Risultati del censimento
mini-idro e realizzazione del sistema informativo territoriale. CESI
2006.
(15) Rapporto preliminare sullo
stato attuale del solare fotovoltaico nazionale. CNES 2007.
Adriano Maria
Petruzzi |