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		GEOLOGIA APPLICATA ALLA DIFESA DEL TERRITORIO   
		di Francesco Stortoni*   
		Il termine geologia 
		applicata si riferisce all’impiego delle Scienze della Terra alle 
		soluzioni dei problemi dell’uomo, in cui l’aspetto geologico gioca un 
		ruolo rilevante. I problemi possono essere di tipo economico, sociale, 
		politico o culturale. Dall’era postindustriale ad oggi vi è stata una 
		continua e crescente aumento della popolazione mondiale con conseguente 
		richiesta di sfruttamento del  territorio, spesso senza regole e 
		rispetto per l’ambiente circostante. Come scienza fondamentale distinta, 
		la Geologia ha poco più di duecento anni. Naturalmente da molto prima 
		gli uomini si erano posti problemi che oggi diremo geologici, in 
		particolare i minatori avevano per primi effettuato un considerevole 
		numero di osservazioni geologiche.  
		L’applicazione pratica 
		delle conoscenze geologiche è stata quindi uno dei principali obiettivi 
		delle prime scuole di geologia, ma successivamente lo sviluppo delle 
		applicazioni della 
		geologia fu più lento del progresso della disciplina sul piano 
		scientifico.  
		Lo sviluppo delle 
		applicazioni della geologia non è dipeso solo dall'interesse dei geologi 
		per le applicazioni, ma anche dalla diffusione della consapevolezza 
		dell'utilità delle conoscenze geologiche in molti problemi pratici.
		   
		Questa consapevolezza si 
		è sviluppata lentamente durante il diciannovesimo secolo quando gli 
		ingegneri civili cominciarono a indagare i caratteri tecnici dei 
		materiali naturali da utilizzare nelle costruzioni, stabilendo così i 
		primi rapporti con i geologi. Durante tutto il ventesimo secolo, le 
		crescenti dimensioni delle opere, consentite dal crescente uso del 
		cemento armato, hanno costretto a un attento esame dei terreni di 
		fondazione determinando una organica collaborazione tra geologia e 
		ingegneria civile. Fin dall’inizio, non fu facile stabilire buone 
		relazioni di lavoro tra ingegneri e geologi, a causa dei differenti 
		metodi di analisi e di interpretazione dei fenomeni. Queste difficoltà 
		di comprensione tra cultura di astrazione naturalistica e tecnico - 
		matematica continua ancora oggi, anche se mediata da una impostazione 
		più quantitativa della geologia moderna. L’Italia è un paese 
		geologicamente molto fragile, infatti, tutto il territorio nazionale è 
		soggetto a vari tipi di  rischio: sismico, idrogeologico - 
		geomorfologico e vulcanico. Troppo spesso si sente dire: “…tragedia 
		dovuta a calamità naturali…” oppure “…evento imprevedibile causa danni 
		ingenti…”, in realtà non è la natura a causare danni, ma è la presenza 
		dell’uomo in zona sbagliate, la poca conoscenza del territorio o 
		tecniche costruttive non adeguate ad eventi geologici specifici  i veri 
		motivi di queste tragedie spesso annunciate.  
		Eppure la storia anche 
		recente dovrebbe insegnarci che solo una profonda conoscenza del luogo 
		può permettere una corretta e sicura  convivenza con il nostro 
		territorio. Basti pensare alla tragedia del Vajont 
		causata da una 
		
		frana 
		staccatasi dal versante settentrionale del 
		monte  Toc,  
		situato sul confine tra 
		Friuli Venezia 
		Giulia e 
		Veneto,  
		il 
		9 ottobre
		
		1963. 
		Alle ore 22.39 di quel giorno, circa 270 milioni di m3 di 
		roccia scivolarono, alla velocità di 30 m/s, nel
		
		bacino 
		artificiale sottostante (che conteneva circa 115 milioni di m3 
		d'acqua al momento del disastro) creato dalla 
		diga del Vajont, 
		provocando un'onda di piena che superò di 250 m in altezza il 
		coronamento della diga e che, in parte, risalì il versante opposto 
		distruggendo gli abitati di 
		Erto e
		
		Casso, 
		e in parte (circa 30 milioni di m3) scavalcò il manufatto 
		(che rimase intatto) riversandosi a valle e distruggendo il paese di
		
		Longarone 
		e altri abitati limitrofi,  1917 furono le vittime. Inoltre bisogna 
		ricordare altri eventi franosi catastrofici come: Stava nel luglio 1985 
		causò 269 vittime, Val Pola nel Luglio 1987 causò 40 vittime, Piemonte 
		nel novembre 1994 causò 70 vittime, Versilia nel giugno 1996 causò 13 
		vittime, Sarno nel giugno 1998  causò 153 vittime, Noverato nel 2000 
		causò 61 vittime.   
		Il rischio  frane in 
		Italia negli ultimi decenni è diventato un vero problema 
		socio-economico, pertanto è necessario analizzare i fenomeni franosi 
		secondo il criterio del rischio da frana, cioè attraverso la 
		pericolosità e la vulnerabilità. In base all'evoluzione storica del 
		nostro Paese nell'ultimo secolo si può affermare che:  
		a)      
		la pericolosità degli eventi è rimasta sostanzialmente invariata, anche 
		se il cambiamento climatico globale in atto potrà portare in futuro ad 
		un incremento degli eventi meteorologici estremi e quindi aumentare la 
		probabilità di frane; 
		b)      
		la vulnerabilità è aumentata a causa della crescente complessità della 
		struttura socioeconomica e dello sviluppo industriale e demografico che 
		ha portato ad un'espansione delle urbanizzazioni su aree prima non 
		occupate, fra le quali anche aree instabili. Oggi anche eventi naturali 
		di modesta entità possono determinare ingenti danni per il maggior 
		valore delle attività su cui possono incidere; 
		c)      
		il rischio, come prodotto di pericolosità e vulnerabilità è molto 
		aumentato, mentre si sono ridotte le soglie di rischio accettabile 
		perché l'odierna società non tollera perdite causate da eventi naturali. 
		Come avviene per tutti i 
		fenomeni naturali che comportano rischi socioeconomici alla 
		collettività, non è possibile eliminare completamente tali rischi, ma 
		soltanto diminuire la probabilità che avvengano e le conseguenze 
		dannose. Diminuire la pericolosità consiste nel fare interventi di 
		stabilizzazione sulle frane, cioè contrastare il loro movimento, ad 
		esempio costruendo muri che ne fermano la discesa. Una frana sicuramente 
		non più in movimento si definisce stabilizzata. Diminuire la 
		vulnerabilità consiste nel rendere persone, beni ed attività non 
		soggetti a subire danni da frana. Poiché le frane sono fenomeni che 
		coinvolgono superfici limitate, la prima regola è di costruire lontano 
		da loro. Purtroppo questo non avviene, per cui oggi una buona parte del 
		territorio collinare e montano è a rischio di frana. Quando non è 
		possibile non attraversare o avvicinarsi a zone in frana si possono 
		comunque adottare soluzioni che, rispettando il territorio e tenendo 
		conto degli equilibri che lo governano, non incidano su di esso in modo 
		negativo. Il problema della 
		difesa dalle frane è, infatti, un problema di corretta pianificazione 
		territoriale: non potremo mai invocare la casualità o l'eccezionalità 
		degli eventi quando una frana farà delle vittime o provocherà dei danni.
		 
		Per quanto riguarda il 
		problema  alluvioni, bisogna dire che ogni anno causano danni ingenti in 
		tutto il paese, come ad esempio: Fiume Tanaro novembre 1994 in 
		particolare nelle città di Alessandria, Ceva,  Alba ed Asti, Fiume Po 
		novembre 1966 nella zona del Polesine, Fiume Arno negli anni 
		1869-1920-1937-1966 nelle città di Firenze, e Pontedera. Da decenni 
		oramai è la principale preoccupazione nei confronti dei corsi d’acqua è 
		quella di come difenderci dalla loro irruenza. Molte delle profonde 
		trasformazioni che hanno subito i nostri fiumi sono state fatte proprio 
		per cercare di diminuire il rischio idraulico. Paradossalmente, però, 
		hanno ottenuto un effetto opposto rispetto a quello atteso. L’approccio 
		“classico”, ispirato all’idea di contenere le piene entro stretti argini 
		e allontanare l’acqua il più in fretta possibile, ha dimostrato di non 
		essere sostenibile. Al contrario, le “soluzioni” da esso suggerite hanno 
		aggravato la situazione. Il corso d’acqua è così divenuto ancor di più 
		fattore di rischio. Per portar via l’acqua il più velocemente possibile, 
		nell’illusione di risolvere il problema delle esondazioni, i corsi 
		d’acqua sono stati pesantemente artificializzati, il loro alveo è stato 
		spesso rettificato e reso più liscio attraverso l’eliminazione di 
		potenziali ostacoli (ad esempio la vegetazione o la diversità 
		morfologica del fondo e delle sponde). Allo stesso tempo, per guadagnare 
		spazio per le attività antropiche, la larghezza dei corsi d’acqua è 
		stata via via ridotta mediante la realizzazione di arginature, che si 
		trovano ora a far defluire gli stessi volumi d’acqua del passato (se non 
		maggiori) attraverso sezioni più strette che si sviluppano verso l’alto 
		(alte arginature) e verso il basso (forte incisione del fondo), e che 
		richiedono ancor più una continua eliminazione degli elementi che 
		rallentano i deflussi. Un alveo più liscio e più dritto, però, pur 
		facendo fluire l’acqua più velocemente fornisce generalmente benefici 
		solo a livello locale. Infatti, il rischio idraulico non viene 
		“eliminato”, ma solamente “spostato”, aggravando notevolmente la 
		condizione dei centri abitati posti a valle, in un processo di 
		“scaricabarile” progressivo. Pertanto dobbiamo indubbiamente imparare a 
		convivere con il rischio, trovando un equilibrio tra uomo e territorio, 
		per fare questo occorre innanzitutto restituire spazio ai fiumi e 
		recuperarne la naturalità come mezzo primario.    
		Per non parlare degli 
		eventi sismici che quotidianamente e con vari gradi di intensità, 
		interessano la nostra Italia, citando i più recenti possiamo segnalare 
		Umbria-Marche settembre/ottobre 1997 11 vittime, Molise – Puglia ottobre 
		2002 30 vittime e Abruzzo aprile 2009 308 vittime. Il terremoto è un 
		movimento della crosta terrestre ed è un evento fondamentale che indica 
		che la nostra Terra è viva, questo fenomeno in se non crea vittime, sono 
		gli edifici costruiti con nessun criterio sismico o comunque con 
		tecniche non adeguate all’evento in quella zona a creare perdite di vite 
		umane. Inoltre, per citare un rischio che potremmo definire “dormiente” 
		ma non per questo meno pericoloso, si deve ricordare il pericolo 
		vulcanico del Monte Vesuvio.  A causa della quasi totale assenza di 
		pianificazione urbana, dello sfrenato disprezzo per l’ambiente, della 
		grave crisi degli alloggi, e dell’orgia di speculazione edilizia abusiva 
		degli ultimi trent’anni, le circa 570mila persone, che oggi vivono nelle 
		stretta striscia di terra fra il Vesuvio e il Golfo di Napoli, rischiano 
		di vedere le loro case, se non le loro vite, distrutte da un’ondata di 
		lava incandescente e cenere. La catastrofe, quando arriverà, avrà due 
		effetti: il trauma dell’eruzione in sé, ovviamente, e il disastro 
		causato dall’uomo che sicuramente seguirà.. La potenziale catastrofe è 
		ben presente nelle menti dei circa quattro milioni di persone che vivono 
		nell’area di Napoli. 
		Dunque l’entità dei 
		disastri dovrebbe piuttosto far riflettere sul fatto che tali dimensioni 
		sono raggiungibili solo perché il deterioramento del territorio e lo 
		scriteriato sistema di installare le opere degli uomini in prossimità di 
		zone a rischio, hanno raggiunto livelli tali da far escludere ogni 
		possibilità di ricorrere ad interventi a breve termine per recuperare 
		condizioni ambientali da contenere entro limiti sopportabili gli effetti 
		delle alluvioni. La cosa più grave è che esistono costosi studi 
		sull’ambiente, accompagnati da una serie di suggerimenti per gli addetti 
		ai lavori, per realizzare le opere nel rispetto delle Leggi in vigore da 
		decenni.   
		Se esistesse la norma 
		che chi costruisce in condizioni precarie sapesse che non potrà mai 
		ricorrere alla solidarietà pubblica dei contribuenti, rinuncerebbe alla 
		costruzione di edifici abusivi o in spregio alle leggi antisismiche o 
		lungo le falde di vulcani attivi o in aree soggette ad alluvioni. Ma 
		esistono troppi esempi di proprietari per i quali una catastrofe 
		naturale rappresenta un colpo di fortuna, in quanto, con la complicità 
		delle autorità, possono trasformare una piccola casupola in una 
		palazzina a due o tre piani, ovviamente a spese del contribuente. Ogni 
		volta che vi è una catastrofe di qualsiasi natura si trova sempre 
		qualcuno che dichiara "Non si ricorda a memoria d’uomo un evento di tale 
		portata", però nessuno spiega all’intervistato che è inutile andare 
		indietro nel tempo per cercare catastrofi di grande portata, perché le 
		cause che le provocano sono state messe in essere da pochi decenni. 
		Purtroppo i responsabili contano sulla scarsa memoria dei nonni, 
		ignorando che esistono documenti storici a smentirli. Purtroppo si 
		preferisce perdere miliardi per far fronte al risarcimento di danni per 
		vittime e cose, anziché obbligare i Comuni e gli altri Enti ad assumere 
		geologi e tecnici specializzati (evitando compiacenti consulenti), che 
		rispondano personalmente per omissioni od errori nell’esprimere pareri 
		ed autorizzazioni delle piccole opere, come una baracca, a quelle più 
		impegnative, come opere più importanti o la protezione del territorio. 
		Eppure basterebbe un corretto e rigoroso rispetto  delle normative 
		vigenti per poter salvare tante vite umane e scongiurare tante disastri.
		 
		Non bisogna rassegnarsi 
		a questa Italia ma continuare a fare informazione sulle reali condizioni 
		del nostro territorio, solo così potremmo mettere in evidenza eventuali 
		situazioni  che potremmo definire “fuori legge”. Francesco Stortoni* *Geologo |