L’idrogeno da fonti biologiche: caratteristiche e vantaggi del vero
biocarburante del futuRO
di Laura Dipasquale
1.
Politica internazionale per le fonti rinnovabili
Con l’avvento dell’era
industriale dalla metà circa del XIX secolo si è registrato un continuo
incremento della domanda mondiale di energia, che nel 2050, secondo le
previsioni più attendibili, triplicherà ulteriormente rispetto ai valori
attuali già elevati. Ciò è dovuto:
ü
al
generale incremento della popolazione mondiale;
ü
all’aumento della popolazione che vive nei centri urbani dove si consuma
più energia elettrica;
ü
al
notevole incremento delle richieste di energia da parte dei Paesi in via
di sviluppo, quali la Cina o l’India, che sono molto popolosi e stanno
cercando di raggiungere gli standard economici e di qualità della vita
dei Paesi più sviluppati.
Attualmente la domanda
energetica mondiale è soddisfatta quasi interamente dai combustibili
fossili (carbone, petrolio, gas naturale). Ciò impone all’attenzione del
mondo politico e scientifico il problema di garantire
l’approvvigionamento di energia nel lungo periodo e la necessità di far
fronte sia all’esaurimento dei combustibili fossili sia ai problemi
ambientali derivanti dal loro utilizzo.
La combustione delle
fonti fossili, infatti, ha dato origine a gravi inconvenienti come le
piogge acide e l’inquinamento dell’aria dovuto ai gas di scarico (a
livello locale) e l’effetto serra (a livello globale). Per tale motivo
la politica energetica degli ultimi anni ha enfatizzato il risparmio
energetico e incentivato l’utilizzo delle fonti di energia rinnovabili
non fossili. Sotto questa denominazione vanno quelle forme di
energia generate da fonti che per le loro caratteristiche
intrinseche si rigenerano o non sono “esauribili” nella scala dei tempi
“umani” e, per estensione, il cui utilizzo non pregiudica le risorse
naturali per le generazioni future. Quindi rientrano in questa categoria
l’energia idroelettrica, marina, eolica, solare, geotermica, da biomassa
e termovalorizzazione.
E’ in questo contesto
che si colloca il primo segno dell’inversione di tendenza nella politica
internazionale in campo energetico: nel 1997 fu sottoscritto il
Protocollo di Kyoto, che penalizzava le emissioni, in particolare di CO2,
ma anche di altri gas serra, premiandone la mancata generazione. Questo
ha rappresentato il primo passo per la progressiva riduzione delle
emissioni dei gas serra nell’atmosfera, allo scopo di contrastare i
cambiamenti climatici in atto, che stanno determinando un aumento della
temperatura terrestre con gravi rischi per la sopravvivenza del pianeta.
Il Protocollo prevedeva,
di fatto, un maggior utilizzo di energia proveniente da fonti
rinnovabili a discapito dei combustibili tradizionali, incentivando lo
sviluppo di nuove tecnologie a ridotto impatto ambientale, ma alta
efficienza energetica.
Purtroppo, per la
complessità dei processi coinvolti e degli impegni previsti, non sono
stati raggiunti appieno tutti gli obiettivi previsti nel Protocollo.
Anche altre conferenze
mondiali sull’ambiente tenutesi negli anni successivi non hanno permesso
una svolta nettamente positiva sulla questione, in quanto gli interessi
economici di alcuni Stati prevalgono sul benessere e sulla salute del
nostro pianeta e di tutti i suoi abitanti. Infatti ancora oggi le
emissioni nocive per l’uomo e l’ambiente restano a livelli allarmanti.
Nel 2001 le fonti
energetiche rinnovabili coprivano a livello mondiale il 13% dell’offerta
totale di energia primaria: la quota delle fonti rinnovabili era quasi
doppia rispetto a quella dell’energia nucleare, ma inferiore rispetto a
quella delle fonti fossili (petrolio 35%, combustibili solidi 24% e gas
naturale 21%) (Fig. 1).
Figura 1 – Contributo
dei differenti tipi di energia al fabbisogno mondiale
Affinchè si arrivi ad
una stabilizzazione del clima, l’aumento dell’utilizzo delle fonti
rinnovabili è una condizione necessaria, ma non sufficiente, perché è
importante che esse divengano la fonte principale di energia.
Attualmente nella Comunità Europea i costi per la produzione di
elettricità dalle fonti rinnovabili sono (Haas et al. 2000):
ü
0.30-0.80
€/kWh per l’energia solare fotovoltaica;
ü
0.04-0.25 €/kWh per l’energia idroelettrica;
ü
0.07-0.19
€/kWh per l’energia da biomasse;
ü
0.04-0.08 €/kWh per l’energia eolica.
Questi costi sono da
confrontare con gli attuali prezzi per l’elettricità ricavata dalle
convenzionali fonti fossili, che è compresa tra 0.03-0.05 €/kWh.
2.
Politica europea per le fonti rinnovabili
In questo scenario, come
tappa verso una strategia a favore delle energie rinnovabili, negli
ultimi anni la Commissione Europea ha stabilito delle direttive con lo
scopo di:
ü
orientare
i consumatori verso fonti non inquinanti, grazie anche a strumenti
fiscali che spingano verso consumi energetici più razionali e rispettosi
dell’ambiente;
ü
valorizzare e estendere la rete ferroviaria;
ü
raddoppiare l’utilizzo delle energie rinnovabili, il cui sfruttamento
sarebbe dovuto arrivare nel 2010 al 12% del bilancio energetico. Si è
infatti individuata l’esigenza di conseguire una riduzione della
dipendenza dal petrolio soprattutto nel settore dei trasporti
(attualmente pari al 98%) mediante il ricorso a carburanti alternativi,
sostituendo il 20% dei carburanti convenzionali (quali diesel o benzina)
entro il 2020.
Ai fini della presente
direttiva della Commissione Europea si intende per “biocarburante” un
carburante liquido o gassoso ricavato da biomasse; a questa categoria
appartengono:
ü
bioidrogeno;
ü
biogas;
ü
bioetanolo;
ü
biodiesel;
ü
biometanolo;
ü
biodimetiletere;
ü
bio-ETBE
(etil-ter-butil-etere), che è prodotto a partire dall’etanolo;
ü
bio-MTBE (metil-ter-butil-etere),
che è prodotto a partire dal metanolo.
3.
Principali fonti di energia rinnovabili e biocombustibili
L’esigenza di trovare
un’alternativa ai combustibili fossili e al nucleare ha comportato un
crescente interesse verso le fonti energetiche rinnovabili, tra le quali
le principali sono:
ü
l’energia
idroelettrica, che sfrutta l’energia potenziale meccanica contenuta
in una massa d’acqua che si trova ad una certa altezza rispetto al
livello in cui sono posizionate le turbine. La produzione di energia
idroelettrica non provoca emissioni gassose o liquide che possano
inquinare l’aria o l’acqua. Inoltre il costo del kWh ottenuto con i
sistemi idroelettrici è competitivo nei confronti delle fonti
esauribili. L’energia idroelettrica rappresenta circa il 35% della
produzione da fonti rinnovabili. Molto interessanti, sebbene ancora in
fase di sviluppo, sono anche le tecnologie maremotrici;
ü
l’energia
eolica, che è prodotta da una turbina eolica durante il corso della
sua vita media (circa 20 anni) è 80 volte superiore a quella necessaria
alla sua costruzione, manutenzione, esercizio, smantellamento e
rottamazione. Si è calcolato che sono sufficienti ad una turbina due o
tre mesi di attività per recuperare tutta l’energia spesa per la sua
costruzione e manutenzione. Nonostante ciò alcune associazioni
ambientaliste criticano apertamente l’installazione dei generatori
eolici obiettando soprattutto la rumorosità dei sistemi e l’impatto
paesaggistico delle torri eoliche;
ü
l’energia
solare, di cui esistono sia sistemi fotovoltaici senza accumulo che
con accumulo. Questi ultimi hanno la capacità di “mettere in serbo”
durante il giorno, specialmente nelle ore di sole, l’energia elettrica
da utilizzare durante la notte o in condizioni meteorologiche avverse;
ü
l’energia
da biomasse, che con questo termine comprende vari materiali, di
natura estremamente eterogenea. In generale, si può dire che è biomassa
tutto ciò che ha una matrice organica, con esclusione delle plastiche e
dei materiali fossili, che, pur rientrando nella chimica del carbonio,
non hanno nulla a che vedere con la caratterizzazione qui presa in
considerazione. La biomassa rappresenta la forma più sofisticata di
accumulo dell’energia solare: questa, infatti, consente alle piante di
convertire la CO2 atmosferica in materia organica, tramite il
processo fotosintetico. La biomassa utilizzabile ai fini energetici
comprende tutti quei materiali organici che possono essere utilizzati
direttamente come combustibili ovvero trasformati in altre sostanze
(solide, liquide o gassose) di più facile utilizzo negli impianti di
conversione.
I biocombustibili
possono essere solidi, liquidi o gassosi e sono tutte quelle sostanze
idonee ad essere utilizzate nei processi di combustione e derivanti da
fonti rinnovabili. Le emissioni inquinanti dei biocombustibili sono
normalmente inferiori a quelle dei combustibili fossili (come benzina e
gasolio). Le coltivazioni dei prodotti vegetali da cui poi derivano i
biocombustibili, non essendo destinate all’alimentazione umana, possono
comportare un uso massiccio di erbicidi, pesticidi e concimi, oltre
all’uso di varietà geneticamente modificate (OGM). Questo e il pericolo
della deforestazione, come accade in Brasile, dove è in atto per
l’ampliamento di superfici coltivabili a tale scopo, sono tra i
principali svantaggi nell’utilizzo di questi bioprodotti. Nello
specifico, tra i principali biocarburanti, ricordiamo:
ü
il
bioetanolo, che è un alcool ottenuto mediante il processo di
fermentazione di diversi prodotti agricoli ricchi di carboidrati, quali
i cereali (mais, sorgo, frumento, orzo) o le colture zuccherine (bietola
e canna da zucchero). Nonostante l’elevato costo di produzione, pari a
circa due-tre volte quello della benzina, il bioetanolo può risultare
ancora fonte di profitto se si considerano le agevolazioni fiscali e
finanziamenti di origine governativa legate alla caratteristica
“rinnovabile” di questa fonte energetica;
ü
il
biodiesel, che è costituito da una miscela di esteri metilici di
acidi grassi a catena lunga. Per ottenere caratteristiche del prodotto
finito simili a quelle del gasolio si preferisce utilizzare come materia
prima oli di colza o girasole. L’uso di biodiesel non crea nessuna
condizione negativa per il funzionamento e l’usura dei motori e le
prestazioni risultano essere del tutto confrontabili con quelle ottenute
con il gasolio tradizionale, consentendo resa ed affidabilità. Nel
biodiesel non sono presenti metalli nocivi come il piombo, il cadmio e
il vanadio, e quindi esso non contribuisce ad aumentare il rischio delle
piogge acide; l’utilizzo del biodiesel nei motori riduce notevolmente la
produzione di ossidi di carbonio (CO e CO2);
ü
l’idrogeno,
che in realtà non è una fonte di energia, ma un vettore energetico, il
che significa che deve essere prodotto da altre fonti, come l’acqua
(mediante elettrolisi), combustibili tradizionali e non (mediante lo
steam-reforming), biomasse (mediante gassificazione, fermentazione,
ecc.). L’idrogeno, viste le sue caratteristiche, può essere considerato
come il biocombustibile del futuro per le grandi prestazioni e i bassi
tassi di inquinamento derivanti dal suo utilizzo.
4.
Idrogeno
4.1. Caratteristiche
chimico-fisiche
L’idrogeno
(termine derivante dal greco e che significa “generato dall’acqua”)
fu individuato per la prima volta nel 1776 dal chimico britannico Henry
Cavendish; denominato inizialmente “aria infiammabile”, fu poi chiamato
idrogeno dal chimico francese Antoine-Laurent de Lavoisier nel 1783; è
il primo elemento della tavola periodica, con simbolo H e numero atomico
1.
La sua forma più comune
(prozio) è presente in natura per il 99.985% e contiene un solo protone
attorno a cui si muove un unico elettrone; oltre a questo, esistono due
isotopi dell’idrogeno: il deuterio, che ha il nucleo costituito da un
protone ed un neutrone e ha massa atomica pari a 2; il trizio, che è
radioattivo e instabile, con un nucleo costituito da un protone e due
neutroni e massa atomica pari a 3.
In condizioni normali di
pressione e temperatura l’idrogeno si trova in forma di gas diatomico, H2,
con un punto di ebollizione di 20.27 K (-252.9°C) e un punto di fusione
di 14.02 K (-259.1°C).
Chimicamente il singolo
elettrone orbitante intorno al nucleo dell’idrogeno è altamente reattivo
ed è per questo motivo che due atomi di idrogeno si combinano nella
molecola H2. In condizioni normali il gas di idrogeno è una
miscela di due diversi tipi di molecole, che differiscono a seconda che
gli
spin dei due
nuclei atomici siano tra loro paralleli o antiparalleli. Queste due
forme sono rispettivamente conosciute come orto-idrogeno e
para-idrogeno: in condizioni standard, il rapporto tra orto e para è di
circa 3 a 1 e la conversione di una forma nell’altra è talmente lenta da
non avvenire in assenza di un
catalizzatore. L’esistenza delle due forme pone un inconveniente
nella produzione industriale di idrogeno liquido, in quanto quando viene
liquefatto l’idrogeno è generalmente una miscela para-orto nel
rapporto di circa 25:75, che, se lasciata a sé, nell’arco di un mese si
arricchisce della forma para, che diventa il 90% del totale. Questa
conversione libera calore che fa evaporare gran parte dell’idrogeno, che
di conseguenza viene perso. Per ovviare a questo problema, la
liquefazione dell’idrogeno viene condotta in presenza di un
catalizzatore a base di ossido di ferro: in questo modo l’idrogeno
liquido ottenuto è composto per oltre il 99% dalla forma para.
L’idrogeno è senza
dubbio l’elemento chimico più diffuso dell’universo: circa il 75% della
massa di stelle e galassie è costituita da questo elemento. E’ raro
trovare l’idrogeno allo stato elementare nell’atmosfera del nostro
pianeta, essendo molto leggero e l’attrazione gravitazionale della Terra
(minore di quella delle stelle e dei grandi pianeti) insufficiente a
trattenerlo. Infatti la fase gassosa della troposfera analizzata a
livello del mare a 15°C e 1 atm ha come principali componenti chimiche:
N2 (78%) e O2 (21%) e solo in tracce He (0.00052%)
e H2 (0.0000005%).
Nel nostro pianeta la
fonte più comune di idrogeno è l’acqua,
che è composta da due atomi di H e uno di
O (H2O). Altre fonti sono la maggior parte della materia
organica (che comprende tutte le forme di vita conosciute), i
combustibili fossili e il
gas naturale.
Inoltre i legami a
idrogeno sono fondamentali per determinare le proprietà chimico-fisiche
dell’acqua, dell’ammoniaca e di un gran numero di altri composti
organici. Per esempio, l’acqua bolle a 100°C e solidifica a 0°C, ma in
assenza dei legami a idrogeno tra le sue molecole queste temperature
scenderebbero a circa –80°C e –100°C, rispettivamente, con l’immediata
conseguenza di rendere impossibile la vita sulla Terra.
4.2. Idrogeno come
carburante
La temperatura di
ebollizione è un parametro critico per un carburante, poiché definisce
la temperatura a cui può essere raffreddato e stoccato come liquido.
Infatti i combustibili liquidi occupando meno spazio di quelli gassosi e
sono in genere più facili da stoccare e da maneggiare. Per questo motivo
la benzina, il gasolio, il metanolo e l’etanolo, liquidi in normali
condizioni atmosferiche, sono più convenienti di quelli gassosi, come
l’idrogeno e il gas naturale. Quando è usato come carburante per i
veicoli, la bassa densità dell’idrogeno fa sì che si necessiti di grandi
volumi; a causa del basso punto di ebollizione, in caso di perdite
l’idrogeno liquido evapora molto velocemente. Inoltre essendo le
molecole di idrogeno gassoso più piccole di quelle di qualsiasi altro
gas, risultano difficili da contenere con i materiali comuni.
Quando l’energia di
attivazione, sotto forma di scintilla, è fornita ad una miscela di
idrogeno ed ossigeno, le molecole reagiscono portando alla produzione di
calore ed acqua come prodotti finali, secondo la reazione:
H2 + ½ O2
= H2O + calore
La reazione contraria
(ovvero il principio seguito dall’elettrolisi) è possibile, ma necessita
di energia per potersi verificare.
Nel caso della
combustione del metano e della benzina la presenza contemporanea di
carbonio, azoto (nell’aria) e zolfo (impurità degli idrocarburi)
determina la formazione di una serie di composti chimici che possono
essere causa di seri problemi per la salute e l’ambiente.
Studi statunitensi hanno
dimostrato che l’uso dell’H2 nel settore dei trasporti
consentirebbe di ridurre del 70% le emissioni di CO, del 30% quelle di
CO2, del 41% quelle di NOx e del 31% le emissioni
di idrocarburi.
L’idrogeno è
infiammabile se presente in una miscela in concentrazioni dal 4% al 75%
ed esplosivo in concentrazioni dal 15% al 59%. La fiamma dell’H2
che brucia è di un colore blu molto pallido, quasi invisibile alla luce
del giorno a causa dell’assenza di particelle di fuliggine, ma
facilmente individuabile al buio grazie all’emanazione di “onde di
calore” e radiazioni termiche.
Un problema legato alla
pericolosità dell’idrogeno è che, a causa delle sue dimensioni
molecolari ridotte, è capace di diffondere facilmente attraverso molti
materiali, quali alluminio, vetro, acciaio e ferro. In presenza di
inevitabili discontinuità del reticolo cristallino, l’atomo di idrogeno
penetra velocissimo, e poi, ricongiungendosi in molecole all’interno
dello strato attraversato, è in grado di esercitare pressioni enormi con
l’effetto di indebolire il materiale con il quale è venuto a contatto.
Tale fenomeno, noto in metallurgia con il termine “embrittlement”, è
influenzato, oltre che dalla concentrazione di idrogeno, anche dalla sua
pressione, dalla composizione del metallo e dalla presenza di impurità.
Attualmente, l’unico
impiego dell’idrogeno come combustibile avviene nei programmi spaziali
della NASA, in cui idrogeno ed ossigeno allo stato liquido vengono
combinati per ottenere il combustibile necessario per gli shuttle e i
razzi. Le celle a combustibile a bordo, sempre grazie ad idrogeno ed
ossigeno, producono gran parte dell’energia elettrica richiesta. L’unico
materiale di scarto prodotto da questo tipo di celle è l’acqua,
utilizzata poi dall’equipaggio per dissetarsi. Le celle a combustibile
rappresentano il mezzo migliore per utilizzare l’idrogeno come vettore
energetico.
Nella cella a combustibile l’anodo è immerso
nell’idrogeno (H2)
e il catodo nell’ossigeno (O2): la molecola
d’idrogeno si scinde in due atomi con la liberazione di
elettroni (e-).
2 H2
→ 4 H+ + 4 e-
Gli ioni idrogeno così
formatisi migrano attraverso l’elettrolita verso il catodo,
reagendo con l’ossigeno, formando acqua e producendo calore (la
reazione è esotermica) (Fig. 2).
4 H+ + 4 e- + O2
→ 2 H2O |
Figura 2 – Schema di
una tipica cella a combustibile specifica per l’idrogeno
In realtà l’interesse
verso l’idrogeno come vettore energetico risale ai primi anni ‘70,
durante un’importante crisi petrolifera. L’idrogeno poteva essere
agevolmente prodotto con l’impiego di energia elettrica, tramite
elettrolisi ed essere immagazzinato e trasportato in diversi modi.
Nel corso degli anni ‘80
furono fatti notevoli passi avanti nello studio delle tecnologie
relative alle risorse rinnovabili e all’efficienza energetica; in
particolare, si intensificarono gli sforzi per lo sviluppo di tecnologie
che riducessero, se non eliminassero del tutto, la dipendenza dai
combustibili fossili tradizionali. A tale scopo, le fonti rinnovabili
vennero utilizzate per produrre idrogeno da impiegare, a sua volta, come
vettore in processi che non comportassero emissioni inquinanti e che non
avessero problemi di continuità nell’approvvigionamento della materia
prima.
4.3. Cenni sulla
produzione, l’immagazzinamento e il trasporto di H2
Come già detto,
l’idrogeno è un vettore energetico che deve essere prodotto da altre
fonti. Il fatto che sia l’elemento più abbondante dell’universo potrebbe
far pensare che sia estremamente facile produrlo, ad esempio estraendolo
dall’acqua. Questo è vero in linea teorica, ma nella pratica attualmente
il modo più economico per produrlo consiste nell’utilizzo di petrolio o
di altri combustibili fossili. Infatti, da questi si ricava circa il 97%
dell’idrogeno prodotto, mentre soltanto un 3% si ottiene tramite
l’elettrolisi dell’acqua. Se l’idrogeno venisse prodotto in questo modo
per essere diffusamente utilizzato come vettore energetico, i problemi
ambientali connessi con la generazione di gas serra anziché ridursi
verrebbero aumentati significativamente. E’ quindi necessario
individuare dei metodi alternativi per la produzione di questo vettore
energetico.
Sulla base dell’energia
impiegata per la sintesi di H2, le varie metodiche di
produzione possono essere classificate come:
ü
termochimiche, che consentono di produrre idrogeno utilizzando l’energia
termica (steam reforming del metano, pirolisi, gassificazione del
carbone);
ü
elettrochimiche, che consentono di produrre idrogeno utilizzando
corrente elettrica (elettrolisi e fotoelettrolisi dell’acqua);
ü
biochimiche, che consentono di produrre idrogeno utilizzando organismi
(quali alghe e batteri) (fotofermentazione, fermentazione al buio).
Affinché l’idrogeno
diventi una fonte di energia sfruttabile con continuità devono essere
soddisfatte due condizioni fondamentali:
ü
i processi
di produzione devono essere caratterizzati da favorevoli bilanci
complessivi di emissione di anidride carbonica;
ü
i sistemi
di produzione-stoccaggio-distribuzione devono assicurare un’ampia
disponibilità sul territorio ad un costo competitivo ed a un livello di
rischio di incidenti accettabilmente contenuto.
Le ricerche scientifiche
più recenti hanno evidenziato che, per produrre idrogeno senza incidere
sui bilanci di emissione di gas serra, occorre utilizzare le biomasse:
con questo termine si intende la componente organica biodegradabile dei
prodotti, rifiuti e residui provenienti dall’agricoltura (comprendendo
sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie
connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti urbani e
industriali.
Le tecnologie di
immagazzinamento dell’H2 attualmente oggetto di ricerca e
studio sono:
ü
l’idrogeno
compresso, che è il sistema più semplice e più utilizzato, ma che
richiede un grande volume di accumulo, circa tre e dieci volte maggiore
di quello del metano e della benzina, rispettivamente; nonostante ciò,
il peso è relativamente esiguo;
ü
l’idrogeno
liquido, che però presenta il problema legato al fatto che l’H2
diventa liquido a -253°C. Ciò implica la necessità di impiegare una
quantità molto elevata di energia per portarlo e mantenerlo a tali
temperature, nonché varie difficoltà tecniche e ingenti costi;
ü
gli
idruri metallici, che sono utilizzati per superare i problemi di
costo e i rischi connessi con lo stoccaggio dell’idrogeno in forma
pressurizzata e/o liquida. Questi composti trattengono l’idrogeno nello
spazio interatomico del metallo;
ü
gli
idruri chimici, che permettono che l’idrogeno venga trattenuto nei
legami chimici di varie molecole inorganiche: con l’azoto per formare
l’ammoniaca, con l’anidride carbonica per formare metanolo, con il
carbonio per formare metilcicloesano o con borace a costituire il sodio
boroidruro;
ü
il
sodio boroidruro (NaBH4), che è il risultato del legame
dell’idrogeno con boro e sodio. Una soluzione acquosa composta per metà
da sodio boroidruro e per metà da acqua (in peso) fornisce (attraverso
un catalizzatore al rutenio) idrogeno con un rapporto energetico simile,
in volume, alla benzina. Una volta che l’idrogeno è stato estratto dal
sodio boroidruro rimane il borace, che è una sostanza presente nei
detersivi comuni e che può essere riciclata per formare altro sodio
boroidruro;
ü
le
nanotecnologie, che possono rappresentare la risposta alla richiesta
di un sistema che renda realizzabile il progetto di veicoli alimentati a
idrogeno. I sistemi che si basano sulle nanostrutture potrebbero essere
realizzati con costi particolarmente bassi, ma la ricerca è ancora ai
primi passi e attualmente non è possibile effettuare analisi precise;
ü
le
microsfere di cristallo consistono in piccole sfere, vuote, con un
diametro che varia da 25 a 500 µm ed uno spessore di 1 µm, che
consentono di imprigionare l’idrogeno ottenendo così un materiale che si
presenta come una sabbia, dall’alta densità di accumulo, un peso
relativamente basso e costi contenuti. Attualmente in commercio ne sono
disponibili numerosi tipi di diversa taglia, spessore e composizione;
ü
gli
zeoliti, che sono rocce che, a livello molecolare, si comportano
come spugne. E’ possibile far penetrare al loro interno idrogeno che
rimane intrappolato e pronto per un successivo utilizzo. Riscaldando
leggermente i cristalli, gli ioni carichi negativamente (che bloccano i
pori presenti nei cristalli di zeolite) vengono rimossi e si può
procedere con l’intrappolamento dell’idrogeno. Una volta riportato il
sistema a temperatura ambiente, gli ioni ritornano al loro posto,
sigillando l’idrogeno all’interno dei cristalli. In natura esistono
circa 50 diversi tipi di zeoliti, differenti tra loro per proprietà
chimiche e struttura cristallina. Nessuno di loro è però in grado di
conservare più del 2%-3% in peso di idrogeno: troppo poco.
Ovviamente, gli elementi
principali che influenzano la scelta del metodo di trasporto
dell’idrogeno sono la quantità e la distanza da coprire. Per grossi
quantitativi, il metodo più conveniente è il gasdotto, in quanto, dopo i
primi investimenti per la costruzione, i costi operativi diventano più
bassi. Invece per modeste quantità, l’idrogeno compresso può
rappresentare una buona alternativa all’idrogeno liquido, i cui costi
operativi sono molto elevati.
Le future applicazioni
dell’idrogeno sono legate all’effettiva capacità di incrementare le
attuali rese e tassi di produzione biologica e il superamento dei
problemi e dei costi legati all’immagazzinamento e al trasporto.
5.
Approfondimenti sulla produzione biologica di idrogeno
5.1. Produzione da
metabolismi fermentativi
I processi per la
produzione biologica di idrogeno possono essere divisi in quattro
categorie principali:
ü
biofotolisi dell’acqua usando organismi fotosintetici, come alghe e
cianobatteri (Fig. 3);
Figura 3 – Evoluzione
di H2 gassoso mediante il processo della biofotolisi
ü
fotofermentazione di composti organici mediante batteri rossi non
sulfurei, fotosintetici e anaerobi, che necessitano della luce (Fig. 4);
Figura 4 –
Schematizzazione dei processi che portano alla produzione di H2
mediante la fotofermentazione
ü
fermentazione al buio di composti organici da batteri eterotrofi
anaerobi, che possiedono una grande versatilità. Infatti sono in grado
di utilizzare un ampio spettro di substrati per produrre, insieme
all’idrogeno, anche CO2 e acidi grassi volatili (VFA), quali
acido acetico, lattico e butirrico o alcool (come etanolo e butanolo)
(Fig. 5). I diversi prodotti del metabolismo dipendono dal batterio
considerato, dallo stato di ossidazione del substrato e dalle condizioni
ambientali, quali pH e pressione parziale di H2;
Figura 5 – Schema
semplificativo di alcuni dei differenti percorsi metabolici coinvolti
nel processo della fermentazione al buio
ü
elettroidrogenesi (Cheng e Logan 2007), che è un processo in cui protoni
ed elettroni sono rilasciati da batteri esoelettrogenici posti in
speciali bioreattori (basati su celle a combustibile microbiche
modificate) catalizzati a formare idrogeno grazie all’applicazione di un
piccolo voltaggio. Migliorando i materiali utilizzati e la geometria del
bioreattore, l’idrogeno in forma gassosa può essere prodotto con rese
pari a 2.01–3.95 mol/mol (pari a circa il 50%–99% del massimo teorico)
applicando voltaggi tra 0.2 e 0.8 V e usando come substrato l’acido
acetico, un tipico prodotto finale della fermentazione del glucosio o
della cellulosa (Fig. 6).
Figura 6 – Meccanismo
di funzionamento di una speciale cella a combustibile microbica
In ogni caso, i processi
di produzione biologica di H2, sia quelli che operano alla
luce che quelli che funzionano anche al buio, sono ancora in fase di
studio per cercare di migliorarne le rese e abbattere i costi.
L’evoluzione di idrogeno mediante la fermentazione al buio presenta
notevoli vantaggi rispetto a quella fotobiologica in funzione di una
produzione industriale su grande scala, quali:
ü
investimenti più contenuti per la realizzazione di impianti più semplici
e di ridotte dimensioni maggiormente distribuibili sul territorio
nazionale;
ü
produzione
di H2 costante di giorno e di notte (vista la non necessità
di luce solare) da substrati organici a basso costo visto l’utilizzo di
sostanze di scarto come materia prima;
ü
utilizzo
come substrati fermentabili di scarti di altre lavorazioni, che
altrimenti andrebbero incontro a ulteriori costi per il loro
smaltimento.
Svantaggi sono invece le
basse rese di H2 prodotto e la grande quantità di prodotti
secondari del metabolismo batterico.
Le reazioni della
fermentazione al buio possono avvenire a temperature mesofile
(25°C-50°C), termofile (50°C-80°C) e ipertermofile (>80°C): mediante
questo processo da esosi (glucosio e i suoi isomeri), pentosi (xilosio e
i suoi isomeri), saccarosio o polimeri (come la cellulosa o l’amido) si
producono differenti quantità di H2 per mole di substrato, in
modo dipendente dal percorso metabolico fermentativo e dai prodotti
finali.
Generalmente quando i
batteri vivono su substrati organici (crescita eterotrofa), questi sono
ossidati per permettere la formazione di biomassa e, contemporaneamente,
queste ossidazioni generano elettroni che devono essere eliminati per
mantenere i corretti equilibri fisiologici. In ambienti aerobi, è
l’ossigeno ad essere ridotto e l’acqua è il prodotto finale; invece in
condizioni anaerobiche, altri composti, come ad esempio i protoni, sono
ridotti ad idrogeno molecolare agendo come accettori di elettroni.
Quando il prodotto
finale non gassoso del processo fermentativo è l’acido acetico, la
massima produzione teorica raggiungibile è di 4 moli di H2
per mole di glucosio metabolizzato, secondo la tradizionale via di
Embden–Meyerhof (EM) (Kengen et al. 1996; Nandi e Sengupta 1998) con la
concomitante produzione di energia (206 kJ per mole di glucosio), che è
sufficiente per supportare la crescita microbica:
C6H12O6
+ 2 H2O → 2 CH3COOH + 4 H2 + 2 CO2
- ΔG’0 = - 206 kJ/mol
La completa ossidazione
del glucosio ad idrogeno e CO2 porterebbe alla produzione di
12 moli di idrogeno per mole di glucosio, ma in questo caso non verrebbe
più ottenuta energia metabolica per la biomassa.
Quando invece tra gli
acidi organici il prodotto finale è il butirrato (o composti finali più
ridotti, come l’acido lattico o l’etanolo) si possono ottenere al
massimo 2 moli di H2 per mole di glucosio consumato:
C6H12O6
→ CH3CH2CH2COOH + 2 H2 + 2
CO2
Negli anaerobi stretti,
come i Clostridium, quando il glucosio è utilizzato come
substrato per la produzione fermentativa di H2, il piruvato è
convertito ad acetil-CoA e CO2 grazie alla
piruvato-ferredossina ossidoreduttasi (PFOR): questa ossidazione
richiede la riduzione della ferredossina (Fd) e la formazione di
nicotinammide adenina dinucleotide ridotta (NADH) (Hallenbeck 2005;
Kraemer e Bagley 2007). L’idrogeno è prodotto dalla ferredossina ridotta
per azione dell’idrogenasi: questi passaggi metabolici portano ad una
resa massima di 2 moli di H2 prodotto per mole di glucosio.
Le altre due moli aggiuntive possono essere prodotte dal NADH, che è
ossidato dalla riduzione della ferredossina dalla NADH:ferredossina
ossidoreduttasi (NFOR). Di nuovo, l’idrogeno può essere prodotto dalla
ferredossina ridotta ad opera dell’idrogenasi. Per tale motivo, i
batteri anaerobi stretti hanno una resa teorica massima di 4 moli di H2
per mole di glucosio metabolizzato (Angenent et al. 2004; Hallenbeck
2005; Kraemer e Bagley 2007).
Inoltre, in generale, le
più alte rese di produzione di idrogeno sono associate alla produzione
di acetato e butirrato quali prodotti non gassosi della fermentazione,
mentre basse rese sono associate al propionato e ad altri prodotti
finali ridotti. I valori delle energie libere di Gibbs di queste
reazioni fermentative sono tutte positive, indicando che non sono
spontanee e l’accumulo di prodotti intermedi del metabolismo può inibire
la fermentazione stessa e la crescita batterica. In più, in molti
organismi le reali rese di H2 sono ridotte dal consumo di
parte dell’idrogeno prodotto da parte di una o più idrogenasi up-take.
Tra gli organismi
produttori di idrogeno, i batteri mesofili sono stati maggiormente
studiati, ma i batteri termofili sono considerati essere più
promettenti, in quanto sono in grado di raggiungere più alte rese,
rendendo la loro applicazione pratica per la produzione di idrogeno
economicamente e tecnicamente favorita. Ciò è principalmente dovuto ai
differenti prodotti finali del metabolismo fermentativo, in quanto molti
batteri mesofili hanno rese ridotte di produzione di H2 vista
la sintesi di lattato, etanolo, butanolo e butirrato. Invece i batteri
termofili generalmente producono solo l’acetato come principale prodotto
non gassoso della fermentazione. Inoltre è meglio utilizzare i batteri
termofili perchè risultano essere meno sensibili alle contaminazioni da
parte di organismi mesofili e inoltre possono essere facilmente
inattivati e riattivati dopo conservazione a 4°C anche per parecchi
mesi.
5.2. Miglioramento
delle rese di produzione di idrogeno
In linea generale le
rese reali di conversione degli idrati di carbonio in idrogeno sono
comprese tra quelle delle due trasformazioni ideali precedentemente
descritte.
La produzione di H2
può essere incrementata sia mediante l’ingegneria genetica che mediante
la modulazione delle condizioni di coltura. Nel primo caso, c’è da
tenere in considerazione il fatto che ci sono limiti termodinamici per
la produzione di H2 da carboidrati e proteine (Thauer et al.
1977) e ciò può essere superato con modifiche geniche specifiche che
vadano per esempio a inattivare i geni codificanti per enzimi delle vie
metaboliche alternative che sottraggono substrato (soprattutto acido
piruvico) alla produzione di H2. Attualmente la massima
efficienza di conversione è ancora al di sotto del 33% e tale barriera
della fermentazione permane indipendentemente dal sistema fermentativo
impiegato (batch,
semi-continuo o continuo).
Nel secondo caso, è
risaputo che la produzione di idrogeno per via anaerobica e in assenza
di luce è fortemente dipendente da parametri quali tipo e concentrazione
del substrato e degli acidi organici prodotti, conformazione del
bioreattore, pH, pressione parziale dell’idrogeno, temperatura o
concentrazione di ferro (importante cofattore dell’enzima idrogenasi, la
cui quantità insufficiente ne riduce l’attività). Per esempio, è
risaputo che la pressione parziale dell’idrogeno influenza nettamente la
sua stessa produzione, soprattutto nell’ottica della produzione in
continuo, poiché quando la sua concentrazione aumenta, la sintesi
diminuisce. Ciò è dovuto ad un meccanismo di inibizione a feedback
negativo, che fa sì che vengano attivati altri percorsi metabolici
alternativi, che portano alla sintesi di substrati più ridotti, come il
lattato, l’etanolo, il butanolo o l’alanina. Un incremento di circa il
50% della produzione di H2 è stato ottenuto rimuovendo tale
prodotto dallo spazio di testa del bioreattore mediante “sparge” di
azoto (Kraemer e Bagley 2006), mentre per la purificazione dell’H2
e la sua separazione dall’N2 sono state usate membrane non
porose in polivinil-trimetil-silano (PVTMS).
Comunque, il fatto che
le rese reali siano sostanzialmente inferiori a quelle teoriche è dovuto
al fatto che:
ü
le
fermentazioni sono state ottimizzate nel corso dell’evoluzione per
produrre biomassa e non H2;
ü
il
glucosio può essere degradato attraverso altre vie metaboliche che non
portano alla produzione di H2 (Woodward et al. 2000;
Hallenbeck e Benemann 2002);
ü
parte
dell’idrogeno prodotto può essere consumato per la produzione di altri
prodotti come il propionato.
Il processo batterico
fermentativo di produzione di idrogeno è ubiquitario, ma in natura non
sono visibili “bolle” di idrogeno che provengono dal materiale organico
fermentato, perchè negli ambienti naturali batteri di tipo differente si
trovano all’interno della stessa nicchia ecologica. Ciò fa sì che
coesistono insieme batteri che producono H2 con batteri che
lo consumano rapidamente utilizzandolo come fonte di potere riducente.
Perciò se l’obiettivo è produrre idrogeno da materia organica, occorre
creare uno specifico ambiente in cui gli organismi produttori di
idrogeno non siano in competizione con altri batteri dal differente
metabolismo.
L’ossidazione della
materia organica mediante fermentazione al buio è incompleta e, come già
detto, porta alla formazione di intermedi del metabolismo, come acetato
e lattato, la cui ulteriore ossidazione al buio a H2 e CO2
è termodinamicamente sfavorevole. Per aumentare le rese globali del
processo, tali prodotti intermedi possono essere ulteriormente
metabolizzati in presenza di luce. Questo risultato può essere raggiunto
con un processo fermentativo diviso in due passaggi: nel primo le
condizioni applicate rendono possibile la fermentazione al buio con
conseguente produzione di idrogeno (come gas) e VFA in soluzione; nel
secondo passaggio, i VFA sono usati come substrato per l’ulteriore
produzione di idrogeno mediante fotofermentazione. Infatti per
applicazioni in campo biotecnologico è troppo bassa la resa di 4 mol H2/mol
glu, per tale motivo dall’accoppiamento tra i due processi si cerca di
ottenere una resa quanto più vicino possibile a quella massima di 12 mol
H2/mol glu.
C6H12O6
+ 2 H2O → 2 CH3COOH + 4 H2 + 2 CO2
(fermentazione al buio)
2 CH3COOH + 4
H2O → 8 H2 + 4 CO2 (fotofermentazione)
C6H12O6
+ 6 H2O → 12 H2 + 6 CO2 (reazione
globale)
5.3. Produzione di H2
mediante fermentazione al buio da batteri termofili anaerobi
La produzione di
idrogeno mediante fermentazione al buio avviene ad opera di batteri
eterotrofi, anaerobi obbligati o facoltativi, capaci di trasformare
carboidrati, ma anche proteine, in idrogeno.
Gli studi basati sulla
produzione di idrogeno mediante fermentazione al buio sono innumerevoli
e sono soprattutto caratterizzati dall’uso di diversi substrati di
crescita, il che rende difficile considerare dei veri e propri confronti
tra le varie rese ottenute. Anche se molti studi sono stati condotti
utilizzando glucosio e saccarosio come zuccheri fermentabili, vista la
loro semplicità nell’essere metabolizzati e la loro presenza in molti
prodotti di scarto ad alto contenuto in carboidrati (Levin et al. 2004).
Ottimi microrganismi
modello da utilizzare per gli studi sulla produzione di idrogeno sono i
batteri appartenenti all’ordine
Thermotogales.
I membri di quest’ordine sono batteri termofili, anaerobi, non
sporulanti, di forma bastoncellare, Gram-negativi, circondati da una
caratteristica membrana o “toga” (Huber et al. 1986; Belkin et al.
1986). Questi batteri sono stati isolati da differenti ambienti
geotermali, caratterizzati dalla presenza di temperature
significativamente alte.
I membri dell’ordine
Thermotogales hanno mostrato
di essere capaci di utilizzare un’ampia varietà di substrati, inclusi
carboidrati complessi e proteine, dai quali produrre idrogeno, alcuni in
quantità maggiori rispetto ad altri. La quantità di idrogeno generato
può essere ampiamente variabile, in quanto dipende dalla specie
considerata (Schröder et al. 1994; van Niel et al. 2002) e dal grado di
ottimizzazione della produzione di idrogeno. Per esempio, per
Thermotoga elfii
(van Niel et al. 2002),
T. petrophila e T. naphthophila (Takahata et al. 2001)
sono state riportate rese di produzione di H2 di 3.8, 3.7 e
4.0 moli H2/mole glucosio, rispettivamente.
La scelta di utilizzare
un microrganismo termofilo anaerobio quale modello è dovuta al fatto che
questo tipo di batterio può raggiungere rese teoriche di produzione di
idrogeno molto alte (4 mol H2/mol glu) e, viste le
temperature di operatività, è meno sensibile alle contaminazioni ad
opera di microrganismi mesofili. La produzione di idrogeno mediante il
processo fermentativo degli zuccheri da T. neapolitana è stato
oggetto di vari studi indipendenti (Van Ooteghem et al. 2002, 2004;
Eriksen et al. 2008; de Vrije et al. 2009; d’Ippolito et al. 2010;
Basile et al. 2012; Dipasquale et al. 2012), sebbene i dati dalla
letteratura mostrino una certa discrepanza riguardo i tassi e le rese di
produzione e le condizioni operative.
In particolar modo,
T. neapolitana
(DSMZ 4359T),
un batterio di forma
bastoncellare, termofilo estremo, anaerobio obbligato, eterotrofo,
Gram-negativo, non sporulante, dotato di un particolare rivestimento
esterno chiamato “toga” e isolato da fumarole marine presenti presso
Lucrino, nel Golfo di Napoli
(Belkin et al. 1986; Jannasch
et al. 1988)
risulta essere resistente, adattabile a varie condizioni e capace di
usare differenti fonti primarie di carbonio e quindi realmente
promettente per la produzione su larga scala di bioidrogeno.
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