Inquinamento delle falde acquifere
superficiali da impianti petrolchimici:
interventi e sistemi di captazione e
trattamento
di Alessandro
Colafigli
Gli impianti petrolchimici sono, tra tutte le attività
antropologiche, quelle più impattanti dal punto di vista ambientale
sotto molteplici aspetti: quantità e qualità delle sostanze scaricate,
mezzi interessati: aria (scarichi in atmosfera), acqua (perdite e
sversamenti che finiscono nelle falde acquifere superficiali), terreni
(accumuli di inquinanti nei terreni), oltre agli alti rischi di
"incidenti rilevanti" insiti in tali realtà industriali.
L'inquinamento dell'aria tende a disperdersi per effetto
delle correnti e viene percepito in maniera limitata in quanto l’olfatto
crea una sorta di abitudine nonostante risulti opprimente e fortemente
dannoso per coloro i quali si vadano a trovare in pianta stabile nei
pressi delle fonti di emissione, quello dei terreni rappresenta un
inquinamento confinato, sebbene le sostanze vengano successivamente
disciolte dalle acque piovane e trasferite nelle falde acquifere, quello
delle acque risulta infine il più impattante sull'opinione pubblica a
causa del suo riversarsi sulle coste e del rischio di ritrovare i
prodotti o gli scarti delle industrie petrolchimiche nelle acque degli
acquedotti comunali (molto caratteristico è il caso del contadino di
Siracusa, in provincia di Siracusa che alcuni anni fa fece perforare un
pozzo per emungere acqua destinata all'irrigazione e che si ritrovò ad
emungere benzene).
Ad onor del vero la sensibilità verso le tematiche
ambientali è andata via via crescendo negli anni e l’attenzione verso la
sicurezza degli impianti allo stato attuale degli standard di
progettazione è elevata al contrario degli anni 50 e 60 nei quali la
forza motrice dello sviluppo industriale annebbiava tale problematica
che veniva considerata esclusivamente come un peso, un prezzo da pagare
ma i residui degli inquinamenti e della precaria progettazione degli
impianti fatta nel passato si manifesta tutt’oggi ed in maniera molto
pesante. Inoltre la quasi totalità degli impianti del passato sono ad
oggi in funzione dopo aver subito dei “revamping” o sono stati
abbandonati, in pochissimi casi si è proceduto ad uno smantellamento con
relativa bonifica dell’area (operazione lunga, complessa e soprattutto
molto costosa).
Inoltre molti degli impianti risalenti agli anni dello
sprint economico sono passati di mano in mano tra le aziende
petrolchimiche mondiali rendendo difficile l’individuazione delle
responsabilità e, come se non bastasse, il posizionamento di diverse
realtà industriali in una ristretta zona spaziale e la capacità di
dispersione degli inquinanti in falda fa sì che tale individuazione
possa in alcuni casi diventare pressoché impossibile da determinare.
Negli ultimi anni la problematica ha subito una forte
attenzione da parte delle istituzioni, imponendo alle aziende di porvi
rimedio sotto la minaccia di azioni legali.
Se un sito risulta potenzialmente contaminato si procede
con una serie di interventi di caratterizzazione ambientale effettuata
mediante indagini (sondaggi, carotaggi, piezometri, analisi chimiche
etc.).
Se i limiti di legge riguardanti la concentrazione di
prodotti inquinanti dovessero risultare superati è necessario procedere
all’operazione di “messa in sicurezza” del sito.
Un’analisi storica del sito, la concentrazione di
inquinanti rilevata e lo stato dell’impianto sovrastante permettono di
capire quale possa essere la fonte dell’inquinamento e l’entità dello
stesso.
A seconda del risultato di tali indagini può essere
necessario un semplice “spurgo” di una pozza inquinata di dimensioni
limitate o la rimozione e l’invio in discarica di terreni inquinati
soggetti a sversamenti fino al confinamento fisico del sito e del suo
successivo trattamento.
Se dovesse essere necessario evitare che le falde
acquifere che attraversano la zona contaminata impregnandosi di elementi
inquinanti fuoriescano dalla stessa si procede ad un barrieramento che
potrà essere di tipo fisico o idraulico.
Il primo consiste nell’introdurre nel terreno delle
barriere metalliche che andranno infilzate all’interno del primo strato
di terreno impermeabile sottostante la falda da confinare. Il
barrieramento potrà riguardare uno o più lati dell’impianto e potrà
addirittura circondarlo completamente. L’acqua fermata dalla barriera
fisica andrà poi emunta e trattata opportunamente.
Nel secondo caso si procede alla perforazione di pozzi di
emungimento dai quali andrà estratta una portata tale da non permettere
il riversamento delle acque in mare, ma che allo stesso tempo dovrà
impedire il rientro del cuneo salino all’interno della falda, in modo da
evitare di emungere e trattare acqua di mare, fortemente corrosiva nei
confronti delle tubazioni.
La portata emunta in questi sistemi viene generalmente
controllata da sensori di livello che comandano un inverter, il cui
scopo è quello di variare la portata sollevata dalla pompa in modo da
mantenere un livello di lavoro prefissato.
Le portate e i livelli di lavoro si ottengono mediante
piezometri e prove di pompaggio che forniscono un modello idraulico
della falda.
Generalmente sulla superficie delle falde vengono a
crearsi degli strati di idrocarburi leggeri separatisi dalle acque.
Questi idrocarburi costituiscono un grave pericolo per l’inquinamento
delle zone circostanti qualora non vengano eliminati.
Per eliminare questi idrocarburi è necessario emungere
acqua e creare un cono di influenza che richiama lo strato separato in
prossimità del pozzo, creandone uno strato molto consistente;
L’emungimento di idrocarburi non può essere fatto, generalmente,
mediante elettropompe a causa del pericolo di esplosione che
provocherebbero, essi vengono,nella stragrande maggioranza dei casi,
estratti mediante pompe pneumatiche, per mezzo del sistema noto come
Dual Pump.
Una volta estratte le due correnti acquosa e
idrocarburica (ovviamente la prima avrà tracce di idrocarburi e la
seconda conterrà dell’acqua) si procede con un primo accumulo e
stoccaggio.
Già in questa prima fase la corrente acquosa subisce una
separazione degli olii più leggeri ancora rimasti in soluzione, come
quella idrocarburica tenderà a separare acqua, generalmente più pesante
sul fondo. L’olio separato può a questo punto essere già stoccato e
riutilizzato come combustibile.
Il trattamento che dovrà subire la corrente acquosa sarà
dipendente dalla tipologia e quantità di inquinanti presenti:
idrocarburi disciolti, BOD, COD, metalli pesanti, etc.
Una prima separazione, come detto, avviene nei serbatoi
di accumulo e stoccaggio iniziale, in cui gli olii leggeri tendono a
portarsi sulla superficie e solidi di dimensioni consistenti tendono a
sedimentare.
In seguito si prevedono dei pretrattamenti che permettono
di separare una quantità maggiore di olii e di metalli pesanti. Le
tecnologie idonee ad ottenere tali separazioni sono molte, generalmente
gli idrocarburi vengono separati mediante disoleatori a piatti (CPI) che
facendo scorrere il fluido all’interno di piatti molto vicini tra di
loro producono la separazione delle particelle d’olio, la loro
agglomerazione e la risalita in superficie. Si tratta di macchine
statiche e molto semplici.
I metalli ed in generale le particelle pesanti vengono
rimosse per sedimentazione naturale o forzata coadiuvata
dall’inserimento di sostanze coagulanti.
Dopo aver rimosso gran parte degli olii e dei solidi
pesanti si procede ad una filtrazione dipendente dagli elementi ancora
presenti (ad esempio filtri a sabbia o filtri GFH) per poi giungere
all’eliminazione di elementi organici. Ciò si ottiene nella maggior
parte dei casi mediante l’utilizzo di una vasca di ossidazione biologica
a fanghi attivi. I fanghi attivi “si cibano” del carbonio organico
presente nelle acque da trattare come anche degli altri nutrienti che,
se non presenti nelle acque, vanno introdotti per permettere una
corretta crescita dei fanghi stessi.
Al termine del processo di ossidazione biologica si pone,
generalmente una fase di ultrafiltrazione che trattiene i fanghi e che
permette il solo passaggio di solidi di limitate dimensioni.
In caso di necessità si può spingere ancor più a fondo la
filtrazione mediante il processo di osmosi inversa che però richiede
pressioni di esercizio molto elevate.
L’acqua depurata così ottenuta può essere riutilizzata a
scopi industriali o, nei casi peggiori, gettata in mare.
La linea fanghi a cui si è fatto cenno in precedenza
invece passa attraverso una serie di processi di disidratazione e
compattazione degli stessi fino a giungere ad una pasta che viene
neutralizzata mediante calce ed infine inviata a smaltimento o
riutilizzata in agricoltura (fanghi di tipo biologico e non di tipo
chimico).
In Italia stanno nascendo impianti di questa tipologia (TAF,
trattamento di acque di falda) in prossimità di quasi tutti gli impianti
petrolchimici e ciò fa ben sperare per un futuro in cui l’attenzione e
la salvaguardia per l’ambiente diventino l’obiettivo principale.
21 Maggio
2010
Alessandro Colafigli |