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L’INQUINAMENTO DEL
SUOLO IN ITALIA E I METODI DI BONIFICA
di Paolo
Campostrini
L’INQUINAMENTO DEL
SUOLO: LA SITUAZIONE ITALIANA
Nel nostro Paese
esistono gravi problematiche di inquinamento per la presenza di
contaminanti nelle matrici ambientali: si stima che in Italia i siti
potenzialmente contaminati (dati Confindustria) siano circa 13.000, di
cui 12.943 di competenza regionale.
I restanti 57 sono
denominati SIN (siti ad interesse nazionale) ossia siti dove la bonifica
è considerata prioritaria (li possiamo osservare nell’immagine
sottostante tratta dal 10° Annuario dei Dati Ambientali 2011 dell’ISPRA).
Queste aree occupano una superficie pari al 3% di tutto il territorio
italiano (821.000 ettari di terra e 340.000 ettari in mare) distribuite
nelle varie regioni italiane. Tra queste troviamo le aree Trento Nord
(Carbochimica ed ex-SLOI), Casal Monferrato, Sesto San Giovanni, Laghi
di Mantova e polo chimico, Porto Marghera, La Spezia, Sassuolo,
Scandiano, Piombino, Massa Carrara, Livorno e Scarlino, Frosinone,
Inglesias e Napoli Bagnolo.
Dai rapporti ISPRA e
Confindustria si evince che il numero di siti bonificati riguarda il 30%
del totale mentre per quanto riguarda i SIN la superficie bonificata è
molto ridotta. Molti siti contaminati risultano infatti fermi alla fase
preliminare di caratterizzazione da decine di anni a causa degli alti
costi.
Per fare il punto sulla situazione delle bonifiche una fonte autorevole
di informazioni è inoltre il “Rapporto Bonifiche Federambiente 2010”,
dal quale risulta che il totale dei siti contaminati da bonificare
dichiarati in Italia sono
4.128, mentre sono 6.500
i siti stimati come potenzialmente contaminati ancora da indagare e
1.500 i siti minerari contaminati abbandonati.
Il Rapporto ISPRA 2011
cita i cosiddetti brownfields, cioè siti abbandonati,
inattivi o sotto-utilizzati che hanno ospitato in passato attività
produttive, in genere industriali o commerciali, e per i quali il
recupero è ostacolato da una situazione di inquinamento. Le regioni con
il maggior numero di brownfields sono quelle del Nord (Lombardia,
Piemonte e Veneto), mentre al centro-sud vi è la presenza di poche ma
estese zone industriali, testimoni di uno sviluppo concentrato in un
limitato numero di aree.
Le zone di elevata
contaminazione sono nelle vicinanze delle infrastrutture stradali
(piombo), nei comprensori vinicoli (rame) e nelle aree interessate da
pratiche agricole.
Si registra la presenza
nei terreni di eccessi di azoto e fosforo, oltre a metalli pesanti
apportati da fanghi di depurazione utilizzati in ambito agricolo.
LE MODALITÀ OPERATIVE: IL DECRETO LEGISLATIVO 152/2006
Le procedure operative
necessarie per la realizzazione di un intervento di bonifica di un sito
contaminato sono stabilite dal Decreto legislativo 152/2006. Di seguito
viene presentato un riassunto delle fasi più importanti:
Se si
verifica un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare un
sito o in caso di contaminazioni storiche che rischiano di aggravarsi,
il responsabile dell'inquinamento entro ventiquattro ore deve dare
comunicazione al proprio comune, alla provincia, alla regione, o alla
provincia autonoma e al Prefetto della provincia. Vanno dichiarate le
generalità dell'operatore, le caratteristiche del sito interessato, le
matrici ambientali presumibilmente coinvolte e la descrizione degli
interventi da eseguire.
Se il
responsabile dell'inquinamento accerta che il livello delle
concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non è stato superato,
provvede al ripristino della zona contaminata, comunicandolo con
un’autocertificazione al comune ed alla provincia competenti per
territorio entro quarantotto ore.
Se le CSC
sono state superate, il responsabile dell'inquinamento lo comunica al
comune ed alle province competenti, descrive le misure di prevenzione e
di messa in sicurezza di emergenza adottate e presenta entro trenta
giorni il piano di caratterizzazione, un documento che descrive le
caratteristiche del sito, le contaminazioni delle matrici ambientali e
la stima dell’esposizione al rischio sanitario, non trascurando una
descrizione storica del sito e i risultati di eventuali analisi
precedenti. Entro i trenta giorni successivi la regione autorizza il
piano di caratterizzazione con eventuali prescrizioni integrative.
Al sito
viene applicata la procedura di analisi del rischio sito specifica per
la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR). Entro
sei mesi dall'approvazione del piano di caratterizzazione, il soggetto
responsabile presenta alla regione i risultati dell'analisi di rischio.
La conferenza di servizi convocata dalla regione approva il documento di
analisi di rischio entro sessanta giorni dalla ricezione.
Se la
concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è inferiore alle
concentrazioni soglia di rischio, la conferenza dei servizi, con
l'approvazione del documento dell'analisi del rischio, dichiara concluso
positivamente il procedimento e può prescrivere un piano di monitoraggio
del sito, inviato da responsabile dell’inquinamento entro sessanta
giorni, costituito dai parametri da verificare e la frequenza e la
durata del monitoraggio.
La regione
approva il piano di monitoraggio entro trenta giorni, al termine dei
quali il soggetto responsabile invia una relazione tecnica riassuntiva
degli esiti del monitoraggio svolto. Nel caso in cui le attività di
monitoraggio rilevino il superamento di uno o più delle concentrazioni
soglia di rischio, il soggetto responsabile dovrà avviare la procedura
di bonifica.
Se la
concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è superiore ai valori
di concentrazione soglia di rischio (CSR), il soggetto responsabile
sottopone alla regione, nei successivi sei mesi dall'approvazione del
documento di analisi di rischio, il progetto operativo degli interventi
di bonifica, di messa in sicurezza e di ripristino ambientale.
In alcuni
casi la complessità di tali interventi potrebbe risultare molto elevata
(soprattutto per la natura del contaminante), di conseguenza il decreto
non esclude l’adozione di tecnologie innovative frutto del progresso
tecnologico, che possano dare risultati soddisfacenti con costi
inferiori (in questo caso si parla di B.A.T.N.E.E.C. - Best Available
Technology Not Entailing Excessive Costs).
La
regione, acquisito il parere del comune e della provincia, approva il
progetto entro sessanta giorni. Le attività di caratterizzazione,
bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale devono essere il
più possibile compatibili con la prosecuzione dell’attività. La
provincia svolge infine le indagini sul sito interessato con il supporto
tecnico dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, mentre
approvazione della caratterizzazione e del progetto di bonifica si
svolge in Conferenza di servizi convocata dalla regione. La provincia
rilascia quindi la certificazione di avvenuta bonifica.
LE TECNICHE DI BONIFICA
Le tecnologie di
bonifica attualmente utilizzate si dividono in tecniche di
trattamento in situ, dove le operazioni di bonifica del
materiale contaminato avvengono nel sito in cui si trova e in
tecniche ex-situ, dove le operazioni comportano la rimozione
del materiale contaminato, il trasporto in una località diversa per il
trattamento e infine la reintroduzione del materiale trattato nel sito
d’origine.
Le tecniche di bonifica
possono inoltre essere:
-
chimiche e
chimico-fisiche:
presentano generalmente maggiore efficienza di rimozione dei
contaminanti e tempi di bonifica relativamente brevi, ma sono anche
i più costosi e comportano modifica delle caratteristiche del suolo
o delle acque. I trattamenti fisici si basano sul passaggio di fase
o sulla concentrazione dei contaminanti, mentre le tecniche chimiche
permettono la trasformazione dei contaminanti, abbassandone il
rischio.
-
termiche:
si porta il terreno a temperature elevate per distruggere i
contaminanti o permetterne il passaggio di fase. Si tratta
dell’incenerimento, nel quale i composti organici vengono
mineralizzati ma con lo svantaggio che il suolo diventa sterile, e
del desorbimento termico, una tecnica che ha l’obiettivo di far
passare il contaminante verso una fase mobile (generalmente vapore)
opportunamente trattenuta e trattata. Le metodologie di tipo termico
presentano un buona possibilità di successo, ma anche costi alti.
-
biologiche:
si basano sul metabolismo microbico e utilizzano organismi
differenti (batteri, fungi e piante) e le loro reazioni metaboliche
utili per la decontaminazione. Si tratta di metodologie con velocità
più lenta e con minore efficienza di rimozione del contaminante, ma
presentano costi decisamente più bassi e comportano una
modificazione delle caratteristiche del terreno molto bassa,
coinvolgendo la microflora batterica endogena della matrice da
decontaminare.
LE TECNICHE DI BONIFICA: ALCUNI ESEMPI
Le metodiche di bonifica
chimico-fisiche, termiche o biologiche sono molteplici; viene presentato
un esempio appartenente a ognuna delle categorie appena citate:
-
La dealogenazione
chimica, appartenente alle metodologie chimico-fisiche;
-
Il desorbimento
termico, appartenente ai metodi termici;
-
La phytoremediation
tra i metodi biologici.
LA DEALOGENAZIONE
CHIMICA:
si tratta di una metodologia ex-situ e sfrutta una serie di
reazioni chimiche tra contaminanti costituiti da composti aromatici
alogenati; in tali reazioni avviene la rottura del legame
carbonio-alogeno nella molecola. La dealogenazione chimica può essere
compiuta in due modi:
-
La dealogenazione
con idrossido di sodio e glicole polietilenico (KPEG): Nei reattori
di dealogenazione, il suolo contaminato è miscelato con i reagenti
(idrossido di potassio e glicole polietilenico) e riscaldato fino a
temperature di 80-150 °C, fase in cui avviene la trasformazione
degli atomi di cloro in composti meno tossici, generalmente un
composto aromatico non alogenato e in un sale (cloruri alcalini o
metallici). Il materiale trattato quindi viene inviato dal reattore
ad un separatore nel quale il reagente viene rimosso e riciclato. Il
solido viene lavato con acqua per rimuovere il prodotto di reazione
e neutralizzato per aggiunta di acidi. Le emissioni gassose di
contaminanti rilasciate durante la fase di riscaldamento sono
trattabili per condensazione o con carboni attivi. Con questo metodo
la concentrazione dei composti aromatici alogenati può essere
ridotta con efficienza del 99% e si possono ottenere concentrazioni
residue minori di 1 ppm.
-
Dealogenazione
meccanochimica: viene effettuata una macinazione meccanica del suolo
contaminato e un substrato di reagenti rappresentati generalmente da
un donatore di elettroni e un metallo (Ca, Na, Mg, Fe), ma anche da
idruri (CaH2, NaH, NaH4B etc.), ossidi (CaO,
MgO etc.) o idrossidi del metallo stesso. La macinazione viene
realizzata in mulini a sfere in cui il reattore (in cui sono
presenti la miscela e le sfere di macinazione) viene posto in moto
alternato tridimensionale con frequenze di circa 800 cicli/min.
IL DESORBIMENTO
TERMICO:
il suolo viene portato a temperature elevate per favorire la
volatilizzazione dei contaminanti volatili, che vengono successivamente
trattenuti utilizzando dei sistemi di aspirazione. L’aumento della
temperatura consente l’estrazione di composti che a temperatura ambiente
risulterebbero difficilmente volatilizzabili e induce anche degli
effetti positivi secondari correlati all’evaporazione dell’acque
presente nel suolo insaturo. Tale evaporazione conduce sia ad una
maggiore porosità del terreno sia ad una minor possibilità dei
contaminanti di solubilizzarsi nella fase liquida. La tecnica risulta
quindi particolarmente indicata per terreni poco permeabili e molto
umidi. Le elevate temperature raggiunte, inoltre, possono essere tali da
promuovere fenomeni ossidativi e degradativi in situ che portano
alla diminuzione del carico inquinante.
LA PHYTOREMEDIATION:
si tratta di una tecnica che permette di trattare problemi di carattere
ambientale (inquinamento di suolo ed acque) attraverso l'utilizzo di
piante che mitigano o risolvono il problema senza la necessità di
escavazioni o smaltimenti del materiale. La fitodepurazione è una
tecnica in grado di ridurre le concentrazioni di inquinanti in diverse
matrici (suoli , l'acqua o l'aria) mediante l’utilizzo esclusivo di
piante in grado di contenere, degradare o eliminare metalli , pesticidi
, solventi , esplosivi , derivanti del petrolio o greggio, e diversi
altri contaminanti.
Esistono cinque
sottogruppi di phytoremediation:
-
La fitoestrazione,
nella quale le piante rimuovono contaminanti dal suolo e li
concentrano nelle parti aeree, che vengono periodicamente rimosse;
-
La fotodegradazione,
nella quale piante associate a microrganismi degradano contaminanti
organici;
-
La rizofiltrazione,
nella quale le radici delle piante assorbono contaminanti organici
ed inorganici all’interno di appositi contenitori;
-
La
fitostabilizzazione, nella quale le piante riducono la mobilità e la
biodisponibilità dei contaminanti nell’ambiente attraverso
l’immobilizzazione o prevenendone la migrazione;
-
La
fitovolatilizzazione, nella quale avviene la volatilizzazione dei
contaminanti nell’atmosfera attraverso le piante.
La phytoremediation
viene compiuta attraverso piante definite “iperaccumulatrici”, cioè
capaci di accumulare elementi potenzialmente tossici per la pianta
stessa in concentrazioni superiori a 100 volte rispetto a piante che non
possiedono tale capacità. Tale capacità è legata a meccanismi efficienti
di sequestro dei contaminanti o alla necessità di specifici metalli
all’interno della cellula.
Paolo Campostrini |