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Anno XIV num.4
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L’INQUINAMENTO DEL SUOLO IN ITALIA E I METODI DI BONIFICA

 

di Paolo Campostrini

 

L’INQUINAMENTO DEL SUOLO: LA SITUAZIONE ITALIANA

Nel nostro Paese esistono gravi problematiche di inquinamento per la presenza di contaminanti nelle matrici ambientali: si stima che in Italia i siti potenzialmente contaminati (dati Confindustria) siano circa 13.000, di cui 12.943 di competenza regionale.

I restanti 57 sono denominati SIN (siti ad interesse nazionale) ossia siti dove la bonifica è considerata prioritaria (li possiamo osservare nell’immagine sottostante tratta dal 10° Annuario dei Dati Ambientali 2011 dell’ISPRA). Queste aree occupano una superficie pari al 3% di tutto il territorio italiano (821.000 ettari di terra e 340.000 ettari in mare) distribuite nelle varie regioni italiane. Tra queste troviamo le aree Trento Nord (Carbochimica ed ex-SLOI), Casal Monferrato, Sesto San Giovanni, Laghi di Mantova e polo chimico, Porto Marghera, La Spezia, Sassuolo, Scandiano, Piombino, Massa Carrara, Livorno e Scarlino, Frosinone, Inglesias e Napoli Bagnolo.

Dai rapporti ISPRA e Confindustria si evince che il numero di siti bonificati riguarda il 30% del totale mentre per quanto riguarda i SIN la superficie bonificata è molto ridotta. Molti siti contaminati risultano infatti fermi alla fase preliminare di caratterizzazione da decine di anni a causa degli alti costi. Per fare il punto sulla situazione delle bonifiche una fonte autorevole di informazioni è inoltre il “Rapporto Bonifiche Federambiente 2010”, dal quale risulta che il totale dei siti contaminati da bonificare dichiarati in Italia sono 4.128, mentre sono 6.500 i siti stimati come potenzialmente contaminati ancora da indagare e 1.500 i siti minerari contaminati abbandonati.

Il Rapporto ISPRA 2011 cita i cosiddetti brownfields, cioè siti abbandonati, inattivi o sotto-utilizzati che hanno ospitato in passato attività produttive, in genere industriali o commerciali, e per i quali il recupero è ostacolato da una situazione di inquinamento. Le regioni con il maggior numero di brownfields sono quelle del Nord (Lombardia, Piemonte e Veneto), mentre al centro-sud vi è la presenza di poche ma estese zone industriali, testimoni di uno sviluppo concentrato in un limitato numero di aree.

Le zone di elevata contaminazione sono nelle vicinanze delle infrastrutture stradali (piombo), nei comprensori vinicoli (rame) e nelle aree interessate da pratiche agricole.

Si registra la presenza nei terreni di eccessi di azoto e fosforo, oltre a metalli pesanti apportati da fanghi di depurazione utilizzati in ambito agricolo.

 

LE MODALITÀ OPERATIVE: IL DECRETO LEGISLATIVO 152/2006

Le procedure operative necessarie per la realizzazione di un intervento di bonifica di un sito contaminato sono stabilite dal Decreto legislativo 152/2006. Di seguito viene presentato un riassunto delle fasi più importanti:

Se si verifica un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare un sito o in caso di contaminazioni storiche che rischiano di aggravarsi, il responsabile dell'inquinamento entro ventiquattro ore deve dare comunicazione al proprio comune, alla provincia, alla regione, o alla provincia autonoma e al Prefetto della provincia. Vanno dichiarate le generalità dell'operatore, le caratteristiche del sito interessato, le matrici ambientali presumibilmente coinvolte e la descrizione degli interventi da eseguire.

Se il responsabile dell'inquinamento accerta che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non è stato superato, provvede al ripristino della zona contaminata, comunicandolo con un’autocertificazione al comune ed alla provincia competenti per territorio entro quarantotto ore.

Se le CSC sono state superate, il responsabile dell'inquinamento lo comunica al comune ed alle province competenti, descrive le misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza adottate e presenta entro trenta giorni il piano di caratterizzazione, un documento che descrive le caratteristiche del sito, le contaminazioni delle matrici ambientali e la stima dell’esposizione al rischio sanitario, non trascurando una descrizione storica del sito e i risultati di eventuali analisi precedenti. Entro i trenta giorni successivi la regione autorizza il piano di caratterizzazione con eventuali prescrizioni integrative.

Al sito viene applicata la procedura di analisi del rischio sito specifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR). Entro sei mesi dall'approvazione del piano di caratterizzazione, il soggetto responsabile presenta alla regione i risultati dell'analisi di rischio. La conferenza di servizi convocata dalla regione approva il documento di analisi di rischio entro sessanta giorni dalla ricezione.

Se la concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è inferiore alle concentrazioni soglia di rischio, la conferenza dei servizi, con l'approvazione del documento dell'analisi del rischio, dichiara concluso positivamente il procedimento e può prescrivere un piano di monitoraggio del sito, inviato da responsabile dell’inquinamento entro sessanta giorni, costituito dai parametri da verificare e la frequenza e la durata del monitoraggio.

La regione approva il piano di monitoraggio entro trenta giorni, al termine dei quali il soggetto responsabile invia una relazione tecnica riassuntiva degli esiti del monitoraggio svolto. Nel caso in cui le attività di monitoraggio rilevino il superamento di uno o più delle concentrazioni soglia di rischio, il soggetto responsabile dovrà avviare la procedura di bonifica.

Se la concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è superiore ai valori di concentrazione soglia di rischio (CSR), il soggetto responsabile sottopone alla regione, nei successivi sei mesi dall'approvazione del documento di analisi di rischio, il progetto operativo degli interventi di bonifica, di messa in sicurezza e di ripristino ambientale.

In alcuni casi la complessità di tali interventi potrebbe risultare molto elevata (soprattutto per la natura del contaminante), di conseguenza il decreto non esclude l’adozione di tecnologie innovative frutto del progresso tecnologico, che possano dare risultati soddisfacenti con costi inferiori (in questo caso si parla di B.A.T.N.E.E.C. - Best Available Technology Not Entailing Excessive Costs).

La regione, acquisito il parere del comune e della provincia, approva il progetto entro sessanta giorni. Le attività di caratterizzazione, bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale devono essere il più possibile compatibili con la prosecuzione dell’attività. La provincia svolge infine le indagini sul sito interessato con il supporto tecnico dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, mentre approvazione della caratterizzazione e del progetto di bonifica si svolge in Conferenza di servizi convocata dalla regione. La provincia rilascia quindi la certificazione di avvenuta bonifica.

 

LE TECNICHE DI BONIFICA

Le tecnologie di bonifica attualmente utilizzate si dividono in tecniche di trattamento in situ, dove le operazioni di bonifica del materiale contaminato avvengono nel sito in cui si trova e in tecniche ex-situ, dove le operazioni comportano la rimozione del materiale contaminato, il trasporto in una località diversa per il trattamento e infine la reintroduzione del materiale trattato nel sito d’origine.

 

Le tecniche di bonifica possono inoltre essere:

  1. chimiche e chimico-fisiche: presentano generalmente maggiore efficienza di rimozione dei contaminanti e tempi di bonifica relativamente brevi, ma sono anche i più costosi e comportano  modifica delle caratteristiche del suolo o delle acque. I trattamenti fisici si basano sul passaggio di fase o sulla concentrazione dei contaminanti, mentre le tecniche chimiche permettono la trasformazione dei contaminanti, abbassandone il rischio.

  2. termiche: si porta il terreno a temperature elevate per distruggere i contaminanti o permetterne il passaggio di fase. Si tratta dell’incenerimento, nel quale i composti organici vengono mineralizzati ma con lo svantaggio che il suolo diventa sterile, e del desorbimento termico, una tecnica che ha l’obiettivo di far passare il contaminante verso una fase mobile (generalmente vapore) opportunamente trattenuta e trattata. Le metodologie di tipo termico presentano un buona possibilità di successo, ma anche costi alti.

  3. biologiche: si basano sul metabolismo microbico e utilizzano organismi differenti (batteri, fungi e piante) e le loro reazioni metaboliche utili per la decontaminazione. Si tratta di metodologie con velocità più lenta e con minore efficienza di rimozione del contaminante, ma presentano costi decisamente più bassi e comportano una modificazione delle caratteristiche del terreno molto bassa, coinvolgendo la microflora batterica endogena della matrice da decontaminare.

 

LE TECNICHE DI BONIFICA: ALCUNI ESEMPI

Le metodiche di bonifica chimico-fisiche, termiche o biologiche sono molteplici; viene presentato un esempio appartenente a ognuna delle categorie appena citate:

  • La dealogenazione chimica, appartenente alle metodologie chimico-fisiche;

  • Il desorbimento termico, appartenente ai metodi termici;

  • La phytoremediation tra i metodi biologici.

 

LA DEALOGENAZIONE CHIMICA: si tratta di una metodologia ex-situ e sfrutta una serie di reazioni chimiche tra contaminanti costituiti da composti aromatici alogenati; in tali reazioni avviene la rottura del legame carbonio-alogeno nella molecola. La dealogenazione chimica può essere compiuta in due modi:

  • La dealogenazione con idrossido di sodio e glicole polietilenico (KPEG): Nei reattori di dealogenazione, il suolo contaminato è miscelato con i reagenti (idrossido di potassio e glicole polietilenico) e riscaldato fino a temperature di 80-150 °C, fase in cui avviene la trasformazione degli atomi di cloro in composti meno tossici, generalmente un composto aromatico non alogenato e in un sale (cloruri alcalini o metallici). Il materiale trattato quindi viene inviato dal reattore ad un separatore nel quale il reagente viene rimosso e riciclato. Il solido viene lavato con acqua per rimuovere il prodotto di reazione e neutralizzato per aggiunta di acidi. Le emissioni gassose di contaminanti rilasciate durante la fase di riscaldamento sono trattabili per condensazione o con carboni attivi. Con questo metodo la concentrazione dei composti aromatici alogenati può essere ridotta con efficienza del 99% e si possono ottenere concentrazioni residue minori di 1 ppm.

  • Dealogenazione meccanochimica: viene effettuata una macinazione meccanica del suolo contaminato e un substrato di reagenti rappresentati generalmente da un donatore di elettroni e un metallo (Ca, Na, Mg, Fe), ma anche da idruri (CaH2, NaH, NaH4B etc.), ossidi (CaO, MgO etc.) o idrossidi del metallo stesso. La macinazione viene realizzata in mulini a sfere in cui il reattore (in cui sono presenti la miscela e le sfere di macinazione) viene posto in moto alternato tridimensionale con frequenze di circa 800 cicli/min.

IL DESORBIMENTO TERMICO: il suolo viene portato a temperature elevate per favorire la volatilizzazione dei contaminanti volatili, che vengono successivamente trattenuti utilizzando dei sistemi di aspirazione. L’aumento della temperatura consente l’estrazione di composti che a temperatura ambiente risulterebbero difficilmente volatilizzabili e induce anche degli effetti positivi secondari correlati all’evaporazione dell’acque presente nel suolo insaturo. Tale evaporazione conduce sia ad una maggiore porosità del terreno sia ad una minor possibilità dei contaminanti di solubilizzarsi nella fase liquida. La tecnica risulta quindi particolarmente indicata per terreni poco permeabili e molto umidi. Le elevate temperature raggiunte, inoltre, possono essere tali da promuovere fenomeni ossidativi e degradativi in situ che portano alla diminuzione del carico inquinante.

LA PHYTOREMEDIATION: si tratta di una tecnica che permette di trattare problemi di carattere ambientale (inquinamento di suolo ed acque) attraverso l'utilizzo di piante che mitigano o risolvono il problema senza la necessità di escavazioni o smaltimenti del materiale. La fitodepurazione è una tecnica in grado di ridurre le concentrazioni di inquinanti in diverse matrici (suoli , l'acqua o l'aria) mediante l’utilizzo esclusivo di piante in grado di contenere, degradare o eliminare metalli , pesticidi , solventi , esplosivi , derivanti del petrolio o greggio, e diversi altri contaminanti.

Esistono cinque sottogruppi di phytoremediation:

  • La fitoestrazione, nella quale le piante rimuovono contaminanti dal suolo e li concentrano nelle parti aeree, che vengono periodicamente rimosse;

  • La fotodegradazione, nella quale piante associate a microrganismi degradano contaminanti organici;

  • La rizofiltrazione, nella quale le radici delle piante assorbono contaminanti organici ed inorganici all’interno di appositi contenitori;

  • La fitostabilizzazione, nella quale le piante riducono la mobilità e la biodisponibilità dei contaminanti nell’ambiente attraverso l’immobilizzazione o prevenendone la migrazione;

  • La fitovolatilizzazione, nella quale avviene la volatilizzazione dei contaminanti nell’atmosfera attraverso le piante.

La phytoremediation viene compiuta attraverso piante definite “iperaccumulatrici”, cioè capaci di accumulare elementi potenzialmente tossici per la pianta stessa in concentrazioni superiori a 100 volte rispetto a piante che non possiedono tale capacità. Tale capacità è legata a meccanismi efficienti di sequestro dei contaminanti o alla necessità di specifici metalli all’interno della cellula.

 

Paolo Campostrini

 


 

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