La percezione del rischio
di Sara Bonati
Indice:
1.
Definire il «rischio», p. 3
2.
La
percezione del rischio nelle diverse culture: quadro storico, p. 3
3.
La
percezione del rischio oggi, p. 4
4.
Alcuni dati sull’impegno ambientale, p. 5
5.
La
preoccupazione dell’opinione pubblica, p. 7
6.
L’informazione e la comunicazione ambientale, p. 8
7.
Conclusioni, p. 10
Abstract
La presente ricerca si propone il compito di definire il concetto di
«percezione dei rischi ambientali». Il lavoro parte da un primo
inquadramento della parola «rischio» e delle diverse sfaccettature che
racchiude. In seguito si ripercorre la storia culturale dell’uomo e il
suo modo di «vedere» l’ambiente (e le crisi ambientali) attraverso
alcuni esempi.
In un secondo momento si cerca di «attualizzare» la percezione del
rischio, attraverso l’analisi di alcuni sondaggi sulla comunicazione e
sulla classificazione dei rischi.
La ricerca cerca di capire come la questione ambientale si colloca nel
dibattito pubblico e quanto realmente la popolazione e il mondo politico
«percepiscono» il problema (ossia qual è il grado di importanza che
l’ambiente occupa nella coscienza comune).
-
Definire il «rischio»
Il rischio può essere definito come
«la probabilità del verificarsi di un danno ambientale moltiplicata per
la grandezza (magnitudo) del danno stesso», ossia un elemento o fattore
considerato pericoloso può esistere senza dare necessariamente origine a
situazioni dannose. Il rischio è dunque «la possibilità che da una
condizione di pericolo o da un fattore di pressione scaturisca un
danno».
Il
concetto di «rischio» si distingue in «rischio ambientale» e «rischio
antropico». Per parlare di «rischio naturale» è necessario che
sussistano tre fattori concomitanti: pericolosità, vulnerabilità ed
esposizione. Il «rischio antropico o tecnologico» invece è direttamente
collegato alle attività umane. Esso si distingue ulteriormente in
«rischio diffuso» (legato ad attività inquinanti) e «rischio puntuale»,
identificabile con il rischio di incidente.
Un aspetto legato al rischio è la
«vulnerabilità» di un sistema sociale nelle emergenze. La valutazione
del livello di vulnerabilità è data da alcuni indicatori:
-
La capacità di riconoscere il pericolo e di attivarne
l’allarme;
-
Il livello di misure preventive intraprese per
contenere le emergenze;
-
Il grado di preparazione e il livello di risposta
organizzata – collettiva e individuale;
-
La possibilità di mitigazione, di contenimento e
riduzione del danno;
-
Il rispetto degli obblighi derivanti dalle normative
di riduzione, contenimento e gestione dell’emergenza e di ripristino
della normalità;
-
La volontà politica e la capacità dei decisori di
affrontare i differenti livelli di emergenza;
-
Le risorse economiche a disposizione dei sistemi di
soccorso.
2.
La percezione del rischio nelle diverse culture: Inquadramento storico
Il
rapporto tra rischio e mito è molto stretto. I miti rappresentano storie
tradizionali il cui obiettivo è dare una spiegazione ai fenomeni
naturali, attraverso la «revisione mitologica» dei fatti storici e
l’attribuzione di responabilità a forze sovrannaturali. Presso le prime
comunità insediative, gli hazards erano spiegati come attività
divine. La mitologia, per alcune popolazioni, è un mezzo
d’interpretazione della realtà, come ad esempio per gli aborigeni in
Australia, i Melanesiani nel Sud Pacifico e gli indigeni delle Americhe
e del Circolo Artico.
Con
l’avvento della scrittura, parte della mitologia è stata incorporata nei
testi epici e religiosi. Un esempio è dato dalle storie sul diluvio
universale, tra cui ricordiamo quella descritta nella Bibbia. Il
racconto biblico di Noè presenta diverse analogie con l’epica babilonese
di Gilgamesh, nella quale la figura di profeta è rimpiazzata da un uomo
di nome Utnapishtim, realmente esistito durante il regno del decimo re
di Babilonia. Entrambi gli scritti parlano della costruzione di un’arca
su cui furono caricate diverse specie animali.
La
civiltà babilonese è risieduta nella Mesopotamia, tra i fiumi Tigri ed
Eufrate, e per questo è stata frequentemente soggetta a cataclismi
marittimi. I due racconti risalgono allo stesso periodo storico e
narrano della stessa vicenda, così come testimoniato da altri scritti
mediorientali. L’aspetto interessante è che lo stesso evento, in questo
caso un cataclisma di origine marina, è stato interpretato e percepito
in modi diffententi, in base alla necessità umana di dare una
spiegazione accettabile a tutto ciò che accade.
Esempi di diluvi mitizzati si ritrovano anche in altre culture: un caso
simile è rintracciabile nella leggenda zapoteca che narra di un eroe,
Tezpi, e dell’imbarcazione su cui si rifugiò con la sua famiglia e
alcuni animali per sfuggire all’ira divina.
Moltissime culture hanno lasciato testimonianza di catastrofi di
responsabilità divina, molte delle quali storicamente accadute. Nella
mitologia greca, ad esempio, a ogni divinità era attribuita una forza
della natura: Zeus era il dio dei fulmini e Poseidone dei mari, a loro
era fatta risalire la responsabilità dei disastri naturali. Omero
nell’Odissea indica l’ira di Poseidone come causa dei continui maremoti
a cui Odisseo è soggetto.
Altri
miti sono invece legati a violazioni della natura umana, alla ciclicità
della donna, e all’imprudenza degli uomini. L’intento di queste storie è
avvisare i lettori dei rischi derivanti da determinati comportamenti.
Esisteva già in passato, dunque, una forma di prevenzione e informazione
sulle catastrofi, costruita su quelle che erano le credenze di allora.
Interessanti sono anche i termini utilizzati per descrivere gli eventi:
l’isola di Santorini è stata definita la «spiaggia del sangue», in
riferimento al colore dei gas e dei materiali espulsi dal vulcano poco
prima dell’eruzione. Altri racconti parlano del ruolo punitivo che
avrebbero le catastrofi «di origine divina», ad esempio la distruzione
delle città Sodoma e Gomorra. L’angelo che scende nella tomba di Gesù al
momento della resurezione è preceduto da un terremoto. I movimenti
naturali diventano così segnali di avviso che indicano il verificarsi o
l’accadere di eventi significativi per l’umanità.
Prima
del diciannovesimo secolo gli studi sulla terra, non di metodo
scientifico, sono dominati dalle teorie catastrofiste. I catastrofisti
credono che gli eventi naturali sono il più delle volte riconducibili
all’attività divina. È Lyell, uno dei padri della geologia odierna, a
sostiuire la teoria catastrofista con l’idea che sono i fattori
geologici e geomorfologici, e non gli dei, a causare i disastri (leggi
della natura).
3.
La percezione del rischio oggi
Oggi il modo di percepire gli eventi
è cambiato. Ad eccezione delle comunità indigine, la maggior parte della
popolazione mondiale è a conoscenza che le cause dei disastri naturali
sono da ricondurre a fattori geologici e morfologici. Tuttavia, molti
studi hanno dimostrato che,
accanto a fattori esclusivamente naturali, nell’ultimo secolo si sono
sommati anche fattori legati all’attività umana. La nascita di
molteplici associazioni ambientiste e provvedimenti statali e
internazionali per la difesa dell’ambiente testimoniano la
consapevolezza oggi acquisita.
La percezione del rischio può essere
definita con i termini utilizzati da Kates, ossia la combinazione
tra alcuni fattori: 1 - come sono viste le componenti del cataclisma, 2
- qual è la natura del personale rapporto che ciascuno ha con le
situazioni di crisi, e 3 - quali sono i fattori legati alla personalità
individuale.
Ciascuna cultura, benché sussistano
credenze e considerazioni comuni, tende a “percepire” le crisi naturali
in modo diverso, e questo è dimostrato dalla differente priorità
accordata da ciascuna nazione alla prevenzione e al finanziamento dei
sistemi di soccorso. La diversa percezione delle priorità è da
ricondurre, oltre a fattori economici e storici, anche e soprattutto ad
elementi culturali. Un esempio è il «gene dell’ottimismo» occidentale, che si
contrappone al pessimismo orientale. Secondo studi scientifici, il
Giappone dedica maggiore attenzione allo sviluppo di progetti di
prevenzione e informazione rispetto agli Stai Uniti. I giapponesi si
sarebbero dimostrati più lenti dei colleghi americani nella risposta ai
segnali di allarme, e per questo il Governo ha deciso di investire in
misura crescente in questo settore. Le ragioni di questo diverso
comportamento sarebbero da ricondurre proprio alla diversa cultura:
mentre gli americani tendono a lasciarsi influenzare dai mass media e a
scatenare reazioni di panico con maggiore facilità, i giapponesi
attendono il verificarsi dell’evento e non reagiscono prima di avere
chiara la situazione, da qui la lentezza nel riconoscere l’allarme.
Oggi i rischi naturali non
costituiscono una priorità per le popolazioni mondiali, molto più
preoccupate da altre cause di pericolo, quali emergenze economiche e
sociali. Tuttavia dagli anni settanta si è formata una coscienza
ambientale che sta crescendo sempre di più. Numerosi studi hanno
dimostrato i rischi a cui la Terra andrà in contro se si proseguirà
nello sfruttamento e nei livelli di inquinamento che si rilevano oggi.
La comunità internazionale si è
mobilitata attraverso l’organizzazione di una serie di conferenze
propositive finalizzate a “tamponare“ la questione ambientale,
rispondendo soprattutto alle richieste provenienti dall’opinione
pubblica.
4.
Alcuni dati sull’impegno ambientale
All’interno del bilancio dell’Unione Europea si è registrato, tra il
2006 e il 2007, un aumento (piuttosto rilevante) dell’investimento nel
settore ambientale (+17,9%), rispetto al 2005/06 (+4,2%). Allo stesso
modo si è verificato un calo nella percentuale assegnata a questo
settore nella spesa complessiva (il bilancio Ue per l’ambiente ha
previsto per il 2004 il 3%, 2005 2,6%, 2006 0,165%, 2007 0,158% del
totale del budget). Per gli Stati Uniti è stato previsto, entro il 2012,
un calo del 15,1% del finanziamento al settore dello sviluppo e delle
risorse naturali.
Questo fenomeno è indicativo di come
spesso le buone intenzioni presentate alle assemblee internazionali non
hanno una corrispendenza assoluta nella realtà. Nel caso presentato,
l’Unione Europea ha promosso un grande sforzo per l’ambiente in termini
d’investimento, soprattutto in corrispondenza del lancio dei 10 goals
delle Nu. Tuttavia il settore
ambientale non è cresciuto quanto a importanza, dal momento che in
termini di budget continua ad avere un ruolo marginale.
Se da una parte i paesi mostrano di
essere impegnati e preoccupati per la salute del pianeta, dall’altra
sono sempre più assorbiti da preoccupazioni di altra natura. Un esempio
in questo senso è dato dai Pvs: i paesi più colpiti da catastrofi
sembrano i “meno” preoccupati da eventuali crisi ambientali, almeno
stando ai dati sulla prevenzione del rischio e sulla partecipazione alle
conferenze internazionali. Basti pensare al caso di Bhopal. In molti Pvs sono
previste norme di sicurezza notevolmente inferiori a quelle dei paesi
industrializzati, mettendo maggiormente a rischio la sicurezza e la
salute del proprio paese. Di questo è possibile rintracciare prove
all’interno di molte conferenze internazionali nelle quali tende a
svilupparsi una netta divisione tra Pvs e Pi in merito all’importanza da
accordare alla tutela dell’ambiente. In realtà questo “disisteresse
apparente” trova spiegazione nella dimensione di altri problemi più
attuali, quali la povertà, la disoccupazione, il sottosviluppo.
La
necessità di rispondere alle esigenze quotidiane (altrettanto
incombenti) delle popolazioni locali, porta inevitabilmente a
trascurarne altre, in particolar modo l’ambiente, visto come una
preoccupazione non incombente e/o imminente. Mantenere misure di
sicurezza inferiori facìlita l’investimento straniero e stimola il mondo
del lavoro all’interno di economie, che protremmo definire ancora di
sussistenza.
Un
passo importante è stato però fatto nel 2008 con il “pacchetto europeo
20-20-20” seguito dalla climate change act in UK.
5.
La preoccupazione dell’opinione pubblica
Uno studio del Conai (consorzio
nazionale imballaggi) del 2007 riporta che,
rispetto al 2005, l’aumento della pratica del riciclo in percentuale a
quanto immesso al consumo è: acciaio (2,8), alluminio (2,2), carta
(0,1), legno (4,5), plastica (2,0), vetro (1,5). Nel 2006 la produzione
nazionale di beni che prevedevano questi materiali è stata di oltre 12
milioni di tonnellate. Il recupero complessivo è stato superiore agli 8
milioni di tonnellate (8.080.000), di cui il riciclo è stato pari a 6,8
milioni. Il recupero energetico è stato quasi di 1.330.000 di tonnelate,
ossia il 10,4% del totale. I risultati complessivi di riciclo
corrispondono al 55,5% e di recupero al 66%, dati superiori agli
obiettivi stabiliti dal legislatore per il 2008. Significativa è la
crescita del riciclo da raccolta differenziata urbana, che nel 2002 era
il 28% del totale, e nel 2006 il 42%. L’incremento tra il 2002 e il 2006
é stato quindi del 14%. Dal 1998 ad oggi c’è stato un aumento del 126%
delle quantità di rifiuti d’imballaggio recuperate e riciclate. Questo è
un dato molto importante, che dimostra come la preoccupazione per
l’ambiente è sentita in modo crescente dalla popolazione.
L’utilizzo dei sistemi di riciclaggio differenziato è indicativo della
volontà comune di contribuire alla salvaguardia del pianeta. Tuttavia la
percentuale del riciclo registrata nel 2006 dimostra che più della metà
della popolazione italiana non si preoccupa ancora dei rifiuti che
produce. In molteplici casi la differenziazione urbana nasce
dall’attivazione politica più che dalla volontà pubblica. Molti comuni,
infatti, hanno creato dei progetti di distribuzione dei sacchetti per la
differenziazione e di raccolta «sotto casa» dei rifiuti, attività che
tuttavia trovano spesso ostilità da parte della popolazione in quanto
realtà imposta dall’alto.
Un
fattore che spesso entra in gioco e si pone in contrapposizione
all’attivismo ambientale è la sindrome Nimby (not in my
backyard), che introduce il tema del localismo. La teoria in
questione definisce quell’atteggiamento secondo il quale la soluzione a
un problema rischioso è da attivare o cercare «al di fuori del proprio
orto». La tutela del proprio interesse locale, dunque, sembra avere la
prevalenza sulla soluzione dei problemi collettivi.
Una ricerca Ecodeco sulla preoccupazione
per l’ambiente e sulla fiducia nel futuro riporta il livello d’interesse
della popolazione mondiale ai problemi ambientali: l’indice di
preoccupazione rilevato mostra che il 43% del campione è seriamente
preoccupato, il 49,1% è mediamente preoccupato, mentre solo il 7,9% è
poco preoccupato. Per quanto riguarda l’indice di fiducia per il futuro
dell’ambiente, invece, solo il 15,5% è seriamente preoccupato rispetto
al 66% che lo è a livello medio, mentre il 18,5% è poco preoccupato.
La preoccupazione per l’ambiente
sembra essere trasversale ai diversi sistemi sociali, ossia tra paesi in
via di sviluppo e paesi industrializzati. L’indagine Gallup del 1993 indica tra i
paesi più preoccupati Canada, Portogallo, Filippine e Nigeria. In
realtà, approfondendo l’indagine, si scopre che esiste una certa
variazione tra i valori medi e i valori alti: i paesi
industrializzati tendono a concentrarsi su un livello di preoccupazione
alto, mentre i paesi in via di sviluppo hanno un atteggiamento di
livello medio.
Un’altra ricerca Ecodeco indica quali servizi, a giudizio dei cittadini,
necessitano di maggiori attenzioni. La tutela ambientale ha ricevuto il
9,8% dei voti come prima scelta, il 24,8% come seconda scelta, e il
65,4% come terza scelta. Superiori d’importanza nella prima scelta sono
stati gli investimenti nei settori dell’istruzione e della sanità.
Questo dimostra che il problema ambientale è sentito, anche se non come
prima scelta.
Per
quanto riguarda il gradimento dei movimenti ambientalisti, si è rilevato
che le donne mostrano maggior interesse (59,6%) rispetto agli uomini
(45,9%), e che i ragazzi tra i 18 e i 29 anni sono più coinvolti (58,0%)
degli adulti (30-44 a. 55,9%, 45-59 a. 51,7%, oltre 60 a. 44,5%). Con
l’avanzare dell’età, l’interesse per l’associazionismo a difesa
dell’ambiente sembra scemare, anche se la percentuale resta non lontana
dal 50%.
Diversi studi sulla percezione del rischio hanno dimostrato che le
valutazioni di rischiosità del cittadino medio si basano su quattro
fattori: volontarietà, controllabilità, familiarità e temibilità.
Incidenti con bassa probabilità di occorrenza ma alto grado di danno
sono percepiti come più temibili rispetto a eventi probabilisticamente
più frequenti ma che comportano meno pericoli.
6.
L’informazione e la comunicazione ambientale
La televisione è la fonte di
informazione più ascoltata da tutte le categorie d’età. Comprendere
l’informazione ambientale e la percezione della medesima da parte della
popolazione significa, in primo luogo, analizzare il meccanismo
informativo suddividendolo in aspetti importanti per la sua
comprensione, e in particolare ci riferiamo ai tre aggettivi che rendono
un’informazione completa: chiarezza, compattezza e
credibilità delle fonti. Una ricerca Ecodeco, tesa alla comprensione
del sistema informativo in campo ambientale, riporta che a chi si occupa
di difesa dell’ambiente a livello sociale (movimenti e associazioni,
gruppi di volontariato) è attribuito un maggior grado di chiarezza,
rispetto a televisione e giornali, che tendono a fornire informazioni
frammentarie. Per quanto riguarda l’indice di competenza, gli
scienziati e i tecnici sono collocati ai primi posti, seguiti dai
movimenti e dalle associazioni ambientaliste. La protezione civile e le
aziende del settore ottengono anch’esse un punteggio positivo,
piazzandosi al di sopra dei mass media. Agli ultimi posti restano
i sindacati e le forze politiche. Infine la graduatoria sulla
credibilità ripropone, con qualche leggera variazione di percetuale,
quella già stilata per la competenza.
In
merito all’effettiva conoscenza che i cittadini hanno delle tematiche
ambientali, il 40% della popolazione non ha alcuna conoscenza riguardo
l’abbattimento dei fumi delle centrali termoelettriche e dei fumi degli
insediamenti industriali, una scarsa conoscenza degli impianti di
riscaldamento a metano, della depurazione delle acque, della raccolta e
smaltimento dei rifiuti, e dell’inquinamento acustico e da traffico. Il
campo su cui sembra esserci una maggiore informazione è la riduzione
dell’inquinamento da traffico (22,7% degli intervistati «molto», mentre
il 55,5% indicava «abbastanza»). L’indice d’informazione, pertanto, è
risultato basso per il 28,7%, medio per il 60,4%, e alto solo per il
10,9%.
Dagli anni sessanta è stata prodotta
una folta letteratura con tema la percezione del rischio. Durante gli
ultimi vent’anni, in particolare, le informazioni raccolte sono state
usate per sviluppare diverse forme di approccio alla comunicazione del
rischio, definita come «an interactive process of exchange of
information and opinion among individuals, groups and institutions»
(National Research Council, 1997).
La
comunicazione del rischio è oggi parte del risk management. Di
fatto la produzione letteraria in questo campo si è indirizzata negli
ultimi anni verso la ricerca del collegamento tra percezione e risposta,
al fine di attivare un sistema efficace di comunicazione nelle
emergenze. Uno studio adeguato dell’argomento consente di procedere
verso una “rieducazione” della popolazione locale, allo scopo di
predisporla ad affrontare e concepire nel modo più proficuo le
situazioni di crisi. La differenza riscontrata tra la percezione delle
comunità e le predizioni degli esperti è fatta risalire al diverso
approccio al problema che le due categorie hanno. La popolazione tende a
rispondere alla comunicazione e all’informazione a cui è sottoposta
secondo il proprio bagaglio di esperienza, conoscenza e “senso comune”.
Il
cittadino medio, oggi, è solito accordare poca fiducia all’informazione
a cui è sottoposto, soprattutto se politica. Allo stesso tempo i mezzi
d’informazione sembrano enfatizzare le notizie sullo stato
dell’ambiente, sviluppando una comunicazione sensazionalista e
allarmista a discapito del contenuto, il che produce spesso disinteresse
e perdita di credibilità o, nel caso contrario, panico e confusione.
Conclusioni
La
percezione del rischio è da sempre un costrutto culturale, poco fondato
su reali conoscenze strutturali della realtà.
La percezione è
condizionata fortemente dalla cattiva informazione che i sistemi di
comunicazione forniscono e da una scarsa competenza in campo ambientale.
Il desiderio locale di attivismo, per sopperire alle esigenze
ambientali, trova corrispondenza nell’incremento del ricorso al
riciclaggio e nel riconoscimento dell’importanza della tematica
ambientale. Tuttavia, il fattore Nimby e il riconoscimento di un
livello di preoccupazione «medio» rappresentano degli ostacoli al
processo di sviluppo nella tutela ambientale. Gli interessi economici e
strategici degli Stati e l’attenzione che altre questioni più imminenti
esercitano sul sistema politico, portano a un passaggio in secondo piano
della questione.
Nonostante i propositi e le “buone intenzioni”, l’ambiente resta un
discorso secondario nelle politiche internazionali, e questo è
dimostrato anche dalla scarsa adesione dei PVS alle politiche ambientali
e dall’assenza di preparazione psicologica ad eventuali rischi
ambientali anche in zone frequentemente sottoposte a rischio.
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