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Anno XIV num.4
Lug./Ago. 2015

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G. W. LeibNIZ:

  • La Characteristica Universalis

  • Lingua Rationis e Scientia Generalis

di Stefano Iunca

G. W. Leibniz [7di8]:

La Characteristica Universalis (Lug.2012)

 

      Per una definizione che permetta di individuare senso e significato della characteristica universalis nel pensiero di Leibniz, ciò che anzitutto importa è che l’ambito del discorso riguarda il pensiero teorico–filosofico e il modello algebrico– matematico.[1] Nel pensiero di Leibniz, infatti, un momento esemplare di ricerca è da rintracciare nell’ambizione di realizzare una scienza universale (la scientia generalis) in sé capace di esprimersi, o meglio di costituirsi attraverso una «tecnica generale di simbolizzazione»,[2] tecnica interpretata quale strumento logico proprio alla scienza universale.[3]

   Sotto tale profilo un primo momento specifico del discorso riguarda - secondo Mathieu - il tratto fondamentale di un argomento cruciale, la characteristica universalis, ossia la « […] traduzione in caratteri numerici di tutti i concetti primitivi e, quindi, dei loro derivati».[4]

   Seguendo l’ordine di idee di Leibniz, la scientia generalis è essa stessa dotata della “tecnica” necessaria a simbolizzare l’ordine della realtà, un processo di simbolizzazione fondato essenzialmente sul metodo logico–matematico. Ciò su cui lavora il filosofo di Hannover è un sistema simbolico dotato di sottocategorie, ad esempio simboli e caratteri, insomma un alfabeto di riferimento, il cui scopo principale riguarda il calcolo, o meglio la possibilità di calcolare eseguendo operazioni di carattere formale, in sostanza riferendo tale procedimento intellettuale a regole sistematiche, assiomatiche, rigorose come appunto il modello della scienza algebrica.

   In sostanza, Leibniz sembra voler costituire una disciplina logico–filosofica fondata su un modello di pensiero misto, ossia un’idea di logica di tipo simbolico–matematico. La centralità del metodo matematico nel pensiero logico e filosofico di Leibniz costituisce un elemento sostanziale della sua speculazione in quanto Leibniz mostra di avere un’idea “dinamica” della matematica ed una sconfinata fiducia “scientifica” nel calcolo numerico o algebrico come modello di riferimento per giungere alla soluzione di ogni problema.

   Mathieu ricorda che un primo momento d’attenzione leibniziana alla polarità concetto vs algebra nasce nel 1663 alla scuola di Weigel:

 

   «Nel 1663, a Jena, era stato alla scuola di Erhard Weigel, e lì aveva concepito il disegno di trattare le combinazioni di concetti come combinazioni algebriche».[5]

 

   Il sistema della matematica ed il sistema concettuale, tuttavia, non sono paragonabili, poiché il calcolo, sia come modello, sia come metodo permette in teoria un’analisi infinita e l’approdo finale alla sintesi, momento che è precluso alla logica formale. Nel pensiero di Leibniz, sempre proteso a formalizzare ogni modello culturale, sia esso matematico, sia esso concettuale, il principio della verifica razionale costituisce il fine, la teleologia del pensiero, ma anche la proiezione impossibile da ottenersi:

 

   «Lo sviluppo della moderna logica formale, per contro, ha mostrato che attraverso procedure decisionali meccaniche è possibile tutt’al più verificare la correttezza formale delle strutture argomentative, ma che di regola, sul piano dei contenuti, le decisioni si sottraggono in linea di principio ad una rigorosa verifica razionale».[6]

   Leibniz era veramente convinto di poter fare del calcolo, del modello che il calcolo istituisce per un procedimento di logica formale, il centro nevralgico di un sistema d’analisi teso anche alla verifica di contenuti culturali alternativi. L’elemento che probabilmente ispira a Leibniz la fiducia in un universo filosofico basato sul calcolo è originato dal fatto che proprio il calcolo appare l’esito di un modello simbolico non “esterno” alla creazione umana, anzi proprio per questo “riproducibile” in altro sistema di pensiero.

   Se il calcolo si fonda sul simbolo numerico, per Leibniz qualunque altro universo di pensiero può essere costituito da simboli, di necessità diversi, necessari per edificare un sistema logico formale con cui “leggere” i concetti, i contenuti, le idee. La centralità del calcolo è pertanto fondamentale, il filosofo di Hannover scommette in sostanza sulla sua “validazione” negli altri ambiti in cui intende applicarlo:

 

   «Poiché Leibniz affida al calcolo una funzione universale – quella di rendere risolvibili tutte le questioni attraverso operazioni meccaniche basate su regole fisse, cioè attraverso sostituzioni progressive –, anche il simbolismo di un calcolo siffatto deve poter subire a una validità universale: non è dunque un caso che egli lo definisca proprio come un’arte caratteristica universale (characteristica universalis)».[7]    

   Nel pensiero di Leibniz, a proposito della characteristica universalis la premessa essenziale è che il calcolo logico consiste in un’operazione, un’invenzione o creazione umana basata sull’utilizzo di un simbolo, o meglio di un insieme di simboli che ne permette il funzionamento come sistema. Su tale principio basilare Leibniz impianta la sua visione “logica”  (più precisamente assiologica ) anche di altri “saperi”.

   A tale riguardo, il filosofo tedesco sa che occorre definire anzitutto il simbolo ed inoltre costruire un sistema di simboli, in sostanza inventare un nuovo alfabeto di riferimento allo scopo di ottenere una “griglia” di lettura della realtà particolare che s’intende leggere o interpretare. È qui che nasce l’arte caratteristica universale, un’arte – è utile precisarlo immediatamente – la cui teleologia implica e impone la conoscenza universale del mondo, e, più precisamente, introduce l’elemento veramente distintivo del discorso, ossia il fatto che quest’arte si basa o rinvia agli elementi fondamentali della realtà intesa nella sua totalità.

   D’altra parte, nella riflessione che porta Leibniz a formulare la lingua rationis e la scientia generalis (di cui si parla nel prossimo paragrafo), un elemento di distinzione essenziale riguarda – nell’ambito ristretto del concetto di characteristica universalis – l’idea secondo la quale la “caratteristica” è propriamente un concetto o tema che rinvia ad un “segno”, un segno che unitamente è significante e significato.

   Per Leibniz, quando si parla di characteristica universalis non si tratta, anche un po’ genericamente, di immaginare un sistema linguistico in cui il simbolo è chiamato ad introdurre una “nuova” lingua, in tutt’altro modo il filosofo non pensa ad un mero significante, ad un segno grafico o fonetico come base per la costruzione dell’alfabeto “caratteristico”. L’elemento di sistema sul quale è necessario ricercare un accordo concreto e verificabile è l’idea di lingua come fondamento di una neo–lingua:

 

   «Una caratteristica non è un linguaggio parlato e solo a posteriori fissato per iscritto, secondo il modello della lingua di uso comune, ma è fin dall’inizio un linguaggio simbolico scritto e costruito in modo consapevole, di cui troviamo esempi nella matematica e nelle scienze della natura».[8]        

 

   Leibniz pensa ad un sistema di segni, medita su una “simbolica” in cui la characteristica universalis costituisca la premessa essenziale per la definizione di un sistema concettuale universale. Il concetto primitivo e il concetto complesso costituiscono pertanto un modello finale derivato da una logica combinatoria semplice.

   I segni o l’elemento simbolico elementare è inteso nella sua appartenenza, al suo radicamento, al concetto primitivo od originario, di conseguenza – tra analisi e sintesi – il procedimento porta il momento “semplice” alla costruzione del momento “complesso”, ossia l’applicazione di sistema in cui il segno semplice è combinato e produce il segno derivato, ciò che altrimenti è il segno cosiddetto “composto”. Seguendo tale procedimento od operazione, il semplice produce il complesso ed il complesso è nient’altro che la traduzione o la conversione del semplice. A tale riguardo, Mugnai scrive:

   «Non appena siano stati raggiunti i concetti semplici, o primi, li si elenchi in successione; si proceda quindi a fare l’elenco di tutti i concetti che si ottengono combinando a due a due i semplici: si otterrà così una seconda serie di concetti; la terza serie sarà formata dai concetti ottenuti combinando i concetti primi a tre a tre, e così via. Mediante ulteriori procedimenti combinatori sarà possibile ottenere, a partire dai concetti primi, tutti i restanti; e tra questi figureranno non solo i concetti composti già noti, ma anche i concetti nuovi, ai quali nessuno prima aveva mai pensato».[9]  

   Nella simbolica di Leibniz, il momento forse più seducente è costituito dal costante riferimento alla realtà empirica. In sostanza, il filosofo tedesco non costruisce una teoria astratta, in tutt’altro modo veicola il modello nome/cosa partendo da un’idea cardinale e inalienabile: la “cosa”.

   Leibniz pertanto non prescinde dalla realtà poiché è nella realtà empirica, nel mondo delle cose che è possibile ritrovare la sostanza prima di una lingua in natura che l’alfabeto simbolico o segnico edifica in sistema. L’utilizzo in Leibniz del lessico alfabetico per individuare le regole portanti della propria simbolica universale, fa dei segni costitutivi della characteristica universalis qualcosa di estremamente diverso in confronto ai segni tipici della fonetica nell’ambito delle lingue correnti.

   Un alfabeto di partenza è anche parte della simbolica leibniziana, tuttavia qui non si tratta di ricorrere ad un modello in cui vige la scrittura fonetica corrente, che pure rinvia ad un alfabeto ridotto, si tratta invece di pensare in termini di “naturalità” del segno. In sostanza, può essere pensato un segno rinviante ad un oggetto la cui “dicibilità” è prodotta da un segno “cosale”.

   Per chiarire tale passaggio è possibile ricorrere all’onomatopea e ai “mots radicaux” in cui il filosofo di Hannover scorgeva l’esistenza del primitivo e del cosale:

 

   «Così, quando Leibniz parla di parole radicali (mots radicaux), che costituiscono il nucleo primitivo dei vocaboli di una data lingua, intende designare proprio quei vocaboli nei quali più manifesta è la “vicinanza alle cose” espressa mediante l’onomatopea».[10]

   Più precisamente, Leibniz pensa che il “nome” debba avere la caratteristica di rinviare alla cosa in quanto riflesso della cosa, segno cosale appunto o ideogramma, come ad esempio è proprio alle lingue orientali. Sotto tale profilo, tra la scrittura fonetica e la scrittura ideogrammatica, Leibniz intravede una possibile sintesi da cui ricavare un modello che da un lato capitalizza la relativa esiguità dell’alfabeto fonetico, dall’altro introduce un elemento propriamente ideogrammatico, ossia la possibilità di rinviare alla “cosa” facendo del “nome” un nome cosale. Il filosofo tedesco pensa finanche di « […] rappresentare mediante figure geometriche le strutture dell’oggetto designato».[11]

   La characteristica universalis di Leibniz è rimasta allo stato progettuale. È difficile, infatti, immaginare, che un modello teorico così complesso – anche in considerazione della pluralità di interessi e impegni di Leibniz – potesse tradursi in uno studio organico relativo. La characteristica universalis di Leibniz, anche se nella fase del reperimento e della costituzione di un insieme finito di concetti primitivi, in sé sembra mancare nel secondo importante grado d’elaborazione, la fase di “costruzione” in cui l’insieme dei concetti primitivi diviene il momento per compiere la sintesi.

   È proprio il passaggio alla sintesi a costituire il momento invalicabile della teoria filosofica di Leibniz, a determinare cioè lo statuto sostanzialmente progettuale della ricerca impedendo una sua traduzione in un modello finito, capace di operare allo scopo della conoscenza.

 

   [1] Scrive Mathieu sul tema matematico in Leibniz: «Dal punto di vista teorico, il vantaggio della caratteristica universale è abbastanza evidente: grazie all’aritmetizzazione si potranno rappresentare su uno stesso piano, in forma di numeri, sia gli elementi da combinare, sia il loro rapporto, che sarà ancora sempre rappresentato da numeri». V. Mathieu, Introduzione a Leibniz, cit. p. 12.

   [2] M.–T. Liske, Leibniz, cit. p. 33. 

   [3] «Con l’espressione “scienza generale”, Leibniz intende designare una disciplina composta di due parti: l’analisi dei concetti e la sintesi, o combinatoria». M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, cit. p. 250.

   [4] V. Mathieu, Introduzione a Leibniz, cit. p. 11.

   [5] Ivi, p. 9.

   [6] M.–T. Liske, Leibniz, cit. p. 33.

   [7] Ivi, p. 203.

   [8] Ivi, p. 204.

   [9] M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, cit. p. 246. 

   [10] Ivi, p. 242.

   [11] M.–T. Liske, Leibniz, cit. p. 206. 

 


Lingua Rationis e Scientia Generalis (Ago. 2012)

      Seguendo alle premesse filosofiche del pensiero leibniziano sulla characteristica universalis, un principio essenziale della teoria propria al filosofo di Hannover sta in due sviluppi o prospettive fondamentali. Da un lato, infatti, Leibniz lega in un unico disegno la characteristica universalis alla fondazione teorica di una lingua razionale, scientifica, che il filosofo tedesco definisce con il nome di lingua rationis, una lingua, è utile premetterlo, da costituire partendo da una serie di criteri puramente filosofici; dall’altro, invece, il discorso del filosofo tedesco va in una direzione all’apparenza non dissimile, poiché in sede di riflessione filosofica è introdotta l’espressione scientia generalis.

   Alla maniera della lingua rationis, la scientia generalis non rinvia ad altro che ad un ulteriore sistema di tipologia scientifica tramite cui è possibile – in linea teorica – “leggere” la realtà nella sua totalità. Ma nel pensiero di Leibniz, la costituzione di un nuovo alfabeto – seguendo il modello della lingua, ossia il legame nome e cosa – non rinvia alla strutturazione di un sistema astratto o privo di riferimento alla concretezza della realtà, insomma estraneo all’empirismo necessario al sistema per funzionare adeguatamente. Il filosofo tedesco, infatti, non prescinde da un’idea di lingua rationis strettamente legata alla realtà.

   Il momento esemplare della riflessione di Leibniz sull’argomento sta propriamente nella cautela con la quale il filosofo difende il sistema da un rischio, la ricaduta nel campo dell’astrazione, ossia il pericolo di perdere di vista il nesso nome/cosa o simbolo/realtà. Il profilo della teoria è dunque radicato alla realtà. D’altra parte, la lingua rationis – in una lettera di Leibniz ad Oldenburg – è la Porta delle Cose. Ciò introduce però un elemento che si potrebbe definire o identificare in una “caratteristica”, ossia che il “segno” o simbolo che rinvia alla “cosa” o alla realtà in sé è più che una semplice unità mono–significante.

   Sotto tale profilo, il momento rivoluzionario nel pensiero di Leibniz sta nell’identificazione di una nuova prospettiva in cui il “segno” rinvia ad una pluralità, identifica cioè un amplissimo orizzonte di significazione. In altri termini, la lingua rationis e i segni/simboli che la compongono costituiscono, ognuno, non un semplice ed univoco rinvio ad una determina cosa (ad esempio, la serie di segni grafici “pane” rinvia all’oggetto commestibile), al contrario nella teoria linguistica di Leibniz il “nome” è una sorta di clavis universalis capace di “significare” un esteso orizzonte di significazione. Nella lettera a Oldenburg, Leibniz scrive:

 

   «Il nome stesso di ogni cosa sarà la chiave di tutto ciò che a proposito di essa si deve dire e pensare, o deve accadere con ragione».[1]

 

   Se è vero che il «nome» non rinvia soltanto ad una «cosa», ugualmente si può sostenere che il «nome», ossia il segno della lingua simbolica immaginata da Leibniz reca in sé un principio fondamentale. Esso sta nel fatto che proprio quel nome è pluri–significante, in particolare – utilizzando le precise parole di Leibniz – è la «chiave di tutto».

   Il riferimento al «nome» come clavis universalis, ossia l’introduzione ad una “dicibilità” della realtà partendo da un sistema simbolico che scardina il nesso nome/cosa, in Leibniz assume una qualificazione “aperta”. Si ha, infatti, l’impressione che il «nome», veicolando una lingua d’uso simbolica (la lingua rationis) determini anche un’ulteriore novità, ad esempio che relativa alla lingua rationis è la natura di organismo vivente, organismo dinamico, a differenza della lingua corrente o comune che invece impone una correlazione diretta e mono–significante (esempio della parola “pane”), limitazione cui Leibniz lavora in nome di una radicale apertura sul piano della significazione.

   Un’idea siffatta di lingua rationis nel pensiero di Leibniz intercetta anche l’altro importante elemento della scientia generalis. È chiaro che il carattere “universale” della lingua o del sistema simbolico leibniziano non può che determinarsi ed anzi applicarsi o esprimersi in uno scenario congeniale ed adeguato, una scientia generalis la cui cardinale prerogativa sta propriamente nella dialettica analisi/sintesi di cui si è trattato nel precedente capitolo. A tal riguardo, Mugnai scrive:

 

   «Dal momento che si assume che i concetti semplici e le regole della loro composizione siano uguali per tutti gli uomini, ne segue che, per avere una lingua universale, quando si fossero portate a termine con successo l’analisi e la sintesi dei concetti, basterebbe accordarsi sull’alfabeto».[2]

   L’ordine delle “cose” del mondo o gli elementi che compongono la realtà s’identificano nel quadro generale della ragione umana, meglio ancora nella capacità dell’uomo di ridurre le “cose” analiticamente ad un principio originario. Riguardo ai princìpi di cui si è più ampiamente parlato nel precedente capitolo, ciò che ora importa in chiave analitica è sapere che la riduzione al “principio”, nel pensiero di Leibniz ha anche un ulteriore campo di sviluppo, una via verso la riduzione all’unità che transita per l’ambito delle “categorie”.

   Il compito dell’analisi non è dunque particolare, al contrario Leibniz pensa ad una sua dimensione universale capace di condurre ai princìpi o alle categorie originarie o primitive, in secondo luogo di “costruire” (dopo la “decostruzione”) una sintesi ugualmente universale.

   Nel sistema filosofico leibniziano, l’asse portante lingua rationisscientia generalis è un modello che aggancia un’esigenza di totalità, di universalità, ragione per cui tra analisi e sintesi si giunge ad un esito che è « […] il sistema di tutti i concetti e quindi l’intero cosmo del nostro sapere».[3]  

   Quando si pensa al sistema dei concetti, un’altra particolarità della teoria filosofica leibniziana riguarda in specie la riduzione numerica proprio dei concetti semplici, una riduzione che è principio fondamentale in Leibniz, poiché costituisce un momento esemplare anche in relazione al fatto che è intima persuasione del filosofo possedere una “base” di partenza circoscritta e non estesa.

   Veicolando il lessico della lingua corrente è possibile indicare che se i segni alfabetici, opportunamente combinati formano le parole e se le parole opportunamente combinate formano le proposizioni, alla stessa maniera nel campo della simbolica leibniziana, un intero e complesso sistema di concetti è possibile ricavare partendo dai concetti semplici. Nonostante lo sforzo intellettuale di Leibniz, il progetto della scientia generalis – come d’altra parte la characteristica universalis – non ha però avuto una traduzione pratica, ad esempio non è stato convertito in un’opera coesa e organica.

 

Conclusioni

   Nella sua dimensione conoscitiva finale, lo studio su Gottfried Wilhelm Leibniz ha fornito un’immagine al contempo particolare e generale del pensiero filosofico del pensatore di Hannover. Il momento particolare riguarda il ristretto ambito del tema riguardante i princìpi e la characteristica universalis, il momento generale, o meglio la proiezione dello sforzo intellettuale compiuto da Leibniz, è un rinvio diretto alla volontà di possedere, di raccogliere in un sistema controllabile la totalità del reale.

   Lo studio sui princìpi ed in particolare attraverso un gruppo di tre opere ritenute esemplari a riguardo, ossia Nuovi saggi sullintelletto umano (1703), Principi razionali della natura e della grazia (1714), la Monadologia (1714), ha determinato un primo importante risultato: comprendere che il momento di ricerca del “primitivo” in Leibniz è un’operazione di “decostruzione” dei saperi (fase dell’analisi), così come la “costruzione” somiglia molto ad una ricostruzione su nuove fondamenta (la fase della sintesi). Sotto tale angolatura, il discorso sui princìpi primi (secondo capitolo del lavoro) appare introdurre il terzo capitolo, in cui lo sforzo di ridurre la totalità ad un sapere finito, dal punto di vista del pensiero di Leibniz costituisce la più ambiziosa finalità della riflessione filosofica.

   Tra la characteristica universalis, in cui il sapere o il tema dell’enciclopedia del sapere è l’esito di strutturate operazioni algebrico–matematiche, e, unitamente, la lingua rationis e la scientia generalis, si è avuta la palpabile impressione che la totalità in Leibniz corrisponda ad un desiderio ed ad un disegno intellettuale e culturale tesi ad un lavoro di riduzione dell’ordine reale ad unità (la monade è un ben noto concetto della filosofia leibniziana). Tale riduzione costituisce la piattaforma d’appoggio per la “costruzione” di un sistema universale (lingua e scienza) il cui carattere esemplare sta propriamente in una dimensione dello sguardo, della visione aperta appunto alla totalità.

   La figura di Leibniz in sostanza si pone il problema dell’origine, riflette sulla dimensione archetipica della natura e della cultura, ma sa anche avventurarsi nell’orizzonte aperto e sconfinato di un enciclopedismo che non è – come si potrebbe immaginare – desiderio di asettica erudizione, in tutt’altro modo è volontà di “contenere” gli elementi esemplari, insomma i fondamenti del sapere umano. In tale modo, Leibniz veicola le scienze matematiche per una mistione provvidenziale e fertile allo scopo di comprendere e fissare – in un sogno forse utopistico – l’ordine del mondo ridotto a “formula” dalla ragione e dall’intelligenza umana

 

   [1] Il passo della lettera è citato da Liske. Ivi, p. 204. 

   [2] M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, cit. p. 247.

   [3] M.–T. Liske, Leibniz, cit. p. 205.

 

Stefano Iunca

 


 

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