G.
W.
Leibniz [7di8]:
La Characteristica Universalis
(Lug.2012)
Per una definizione che
permetta di individuare senso e significato della
characteristica universalis nel pensiero di Leibniz, ciò che
anzitutto importa è che l’ambito del discorso riguarda il
pensiero teorico–filosofico e il modello algebrico– matematico.[1]
Nel pensiero di Leibniz, infatti, un momento esemplare di
ricerca è da rintracciare nell’ambizione di realizzare una
scienza universale (la scientia generalis) in sé capace
di esprimersi, o meglio di costituirsi attraverso una «tecnica
generale di simbolizzazione»,[2]
tecnica interpretata quale strumento logico proprio alla scienza
universale.[3]
Sotto tale profilo un primo
momento specifico del discorso riguarda - secondo Mathieu - il
tratto fondamentale di un argomento cruciale, la
characteristica universalis, ossia la « […] traduzione in
caratteri numerici di tutti i concetti primitivi e, quindi, dei
loro derivati».[4]
Seguendo l’ordine di idee di
Leibniz, la scientia generalis è essa stessa dotata della
“tecnica” necessaria a simbolizzare l’ordine della realtà, un
processo di simbolizzazione fondato essenzialmente sul metodo
logico–matematico. Ciò su cui lavora il filosofo di Hannover è
un sistema simbolico dotato di sottocategorie, ad esempio
simboli e caratteri, insomma un alfabeto di riferimento, il cui
scopo principale riguarda il calcolo, o meglio la possibilità di
calcolare eseguendo operazioni di carattere formale, in sostanza
riferendo tale procedimento intellettuale a regole sistematiche,
assiomatiche, rigorose come appunto il modello della scienza
algebrica.
In sostanza, Leibniz sembra voler
costituire una disciplina logico–filosofica fondata su un
modello di pensiero misto, ossia un’idea di logica di tipo
simbolico–matematico. La centralità del metodo matematico nel
pensiero logico e filosofico di Leibniz costituisce un elemento
sostanziale della sua speculazione in quanto Leibniz mostra di
avere un’idea “dinamica” della matematica ed una sconfinata
fiducia “scientifica” nel calcolo numerico o algebrico come
modello di riferimento per giungere alla soluzione di ogni
problema.
Mathieu ricorda che un primo
momento d’attenzione leibniziana alla polarità concetto vs
algebra nasce nel 1663 alla scuola di Weigel:
«Nel 1663, a Jena, era stato alla scuola di Erhard Weigel, e lì
aveva concepito il disegno di trattare le combinazioni di
concetti come combinazioni algebriche».[5]
Il sistema della matematica ed il
sistema concettuale, tuttavia, non sono paragonabili, poiché il
calcolo, sia come modello, sia come metodo permette in teoria
un’analisi infinita e l’approdo finale alla sintesi, momento che
è precluso alla logica formale. Nel pensiero di Leibniz, sempre
proteso a formalizzare ogni modello culturale, sia esso
matematico, sia esso concettuale, il principio della verifica
razionale costituisce il fine, la teleologia del pensiero, ma
anche la proiezione impossibile da ottenersi:
«Lo sviluppo della moderna logica formale, per contro, ha
mostrato che attraverso procedure decisionali meccaniche è
possibile tutt’al più verificare la correttezza formale delle
strutture argomentative, ma che di regola, sul piano dei
contenuti, le decisioni si sottraggono in linea di principio ad
una rigorosa verifica razionale».[6]
Leibniz era veramente convinto di
poter fare del calcolo, del modello che il calcolo istituisce
per un procedimento di logica formale, il centro nevralgico di
un sistema d’analisi teso anche alla verifica di contenuti
culturali alternativi. L’elemento che probabilmente ispira a
Leibniz la fiducia in un universo filosofico basato sul calcolo
è originato dal fatto che proprio il calcolo appare l’esito di
un modello simbolico non “esterno” alla creazione umana, anzi
proprio per questo “riproducibile” in altro sistema di pensiero.
Se il calcolo si fonda sul
simbolo numerico, per Leibniz qualunque altro universo di
pensiero può essere costituito da simboli, di necessità diversi,
necessari per edificare un sistema logico formale con cui
“leggere” i concetti, i contenuti, le idee. La centralità del
calcolo è pertanto fondamentale, il filosofo di Hannover
scommette in sostanza sulla sua “validazione” negli altri ambiti
in cui intende applicarlo:
«Poiché Leibniz affida al calcolo una funzione universale –
quella di rendere risolvibili tutte le questioni attraverso
operazioni meccaniche basate su regole fisse, cioè attraverso
sostituzioni progressive –, anche il simbolismo di un calcolo
siffatto deve poter subire a una validità universale: non è
dunque un caso che egli lo definisca proprio come un’arte
caratteristica universale (characteristica universalis)».[7]
Nel pensiero di Leibniz, a
proposito della characteristica universalis la premessa
essenziale è che il calcolo logico consiste in un’operazione,
un’invenzione o creazione umana basata sull’utilizzo di un
simbolo, o meglio di un insieme di simboli che ne permette il
funzionamento come sistema. Su tale principio basilare Leibniz
impianta la sua visione “logica” (più precisamente
assiologica ) anche di altri “saperi”.
A tale riguardo, il filosofo
tedesco sa che occorre definire anzitutto il simbolo ed inoltre
costruire un sistema di simboli, in sostanza inventare un nuovo
alfabeto di riferimento allo scopo di ottenere una “griglia” di
lettura della realtà particolare che s’intende leggere o
interpretare. È qui che nasce l’arte caratteristica universale,
un’arte – è utile precisarlo immediatamente – la cui teleologia
implica e impone la conoscenza universale del mondo, e, più
precisamente, introduce l’elemento veramente distintivo del
discorso, ossia il fatto che quest’arte si basa o rinvia agli
elementi fondamentali della realtà intesa nella sua totalità.
D’altra parte, nella riflessione
che porta Leibniz a formulare la lingua rationis e la
scientia generalis (di cui si parla nel prossimo paragrafo),
un elemento di distinzione essenziale riguarda – nell’ambito
ristretto del concetto di characteristica universalis –
l’idea secondo la quale la “caratteristica” è propriamente un
concetto o tema che rinvia ad un “segno”, un segno che
unitamente è significante e significato.
Per Leibniz, quando si parla di
characteristica universalis non si tratta, anche un po’
genericamente, di immaginare un sistema linguistico in cui il
simbolo è chiamato ad introdurre una “nuova” lingua, in
tutt’altro modo il filosofo non pensa ad un mero significante,
ad un segno grafico o fonetico come base per la costruzione
dell’alfabeto “caratteristico”. L’elemento di sistema sul quale
è necessario ricercare un accordo concreto e verificabile è
l’idea di lingua come fondamento di una neo–lingua:
«Una caratteristica non è un linguaggio parlato e solo a
posteriori fissato per iscritto, secondo il modello della lingua
di uso comune, ma è fin dall’inizio un linguaggio simbolico
scritto e costruito in modo consapevole, di cui troviamo esempi
nella matematica e nelle scienze della natura».[8]
Leibniz pensa ad un sistema di
segni, medita su una “simbolica” in cui la characteristica
universalis costituisca la premessa essenziale per la
definizione di un sistema concettuale universale. Il concetto
primitivo e il concetto complesso costituiscono pertanto un
modello finale derivato da una logica combinatoria semplice.
I segni o l’elemento simbolico
elementare è inteso nella sua appartenenza, al suo radicamento,
al concetto primitivo od originario, di conseguenza – tra
analisi e sintesi – il procedimento porta il momento “semplice”
alla costruzione del momento “complesso”, ossia l’applicazione
di sistema in cui il segno semplice è combinato e produce il
segno derivato, ciò che altrimenti è il segno cosiddetto
“composto”. Seguendo tale procedimento od operazione, il
semplice produce il complesso ed il complesso è nient’altro che
la traduzione o la conversione del semplice. A tale riguardo,
Mugnai scrive:
«Non appena siano stati raggiunti i concetti semplici, o primi,
li si elenchi in successione; si proceda quindi a fare l’elenco
di tutti i concetti che si ottengono combinando a due a due i
semplici: si otterrà così una seconda serie di concetti; la
terza serie sarà formata dai concetti ottenuti combinando i
concetti primi a tre a tre, e così via. Mediante ulteriori
procedimenti combinatori sarà possibile ottenere, a partire dai
concetti primi, tutti i restanti; e tra questi figureranno non
solo i concetti composti già noti, ma anche i concetti nuovi, ai
quali nessuno prima aveva mai pensato».[9]
Nella simbolica di Leibniz, il
momento forse più seducente è costituito dal costante
riferimento alla realtà empirica. In sostanza, il filosofo
tedesco non costruisce una teoria astratta, in tutt’altro modo
veicola il modello nome/cosa partendo da un’idea cardinale e
inalienabile: la “cosa”.
Leibniz pertanto non prescinde
dalla realtà poiché è nella realtà empirica, nel mondo delle
cose che è possibile ritrovare la sostanza prima di una lingua
in natura che l’alfabeto simbolico o segnico edifica in sistema.
L’utilizzo in Leibniz del lessico alfabetico per individuare le
regole portanti della propria simbolica universale, fa dei segni
costitutivi della characteristica universalis qualcosa di
estremamente diverso in confronto ai segni tipici della fonetica
nell’ambito delle lingue correnti.
Un alfabeto di partenza è anche
parte della simbolica leibniziana, tuttavia qui non si tratta di
ricorrere ad un modello in cui vige la scrittura fonetica
corrente, che pure rinvia ad un alfabeto ridotto, si tratta
invece di pensare in termini di “naturalità” del segno. In
sostanza, può essere pensato un segno rinviante ad un oggetto la
cui “dicibilità” è prodotta da un segno “cosale”.
Per chiarire tale passaggio è
possibile ricorrere all’onomatopea e ai “mots radicaux” in cui
il filosofo di Hannover scorgeva l’esistenza del primitivo e del
cosale:
«Così, quando Leibniz parla di parole radicali (mots
radicaux), che costituiscono il nucleo primitivo dei
vocaboli di una data lingua, intende designare proprio quei
vocaboli nei quali più manifesta è la “vicinanza alle cose”
espressa mediante l’onomatopea».[10]
Più precisamente, Leibniz pensa
che il “nome” debba avere la caratteristica di rinviare alla
cosa in quanto riflesso della cosa, segno cosale appunto o
ideogramma, come ad esempio è proprio alle lingue orientali.
Sotto tale profilo, tra la scrittura fonetica e la scrittura
ideogrammatica, Leibniz intravede una possibile sintesi da cui
ricavare un modello che da un lato capitalizza la relativa
esiguità dell’alfabeto fonetico, dall’altro introduce un
elemento propriamente ideogrammatico, ossia la possibilità di
rinviare alla “cosa” facendo del “nome” un nome cosale. Il
filosofo tedesco pensa finanche di « […] rappresentare mediante
figure geometriche le strutture dell’oggetto designato».[11]
La characteristica universalis
di Leibniz è rimasta allo stato progettuale. È difficile,
infatti, immaginare, che un modello teorico così complesso –
anche in considerazione della pluralità di interessi e impegni
di Leibniz – potesse tradursi in uno studio organico relativo.
La characteristica universalis di Leibniz, anche se nella
fase del reperimento e della costituzione di un insieme finito
di concetti primitivi, in sé sembra mancare nel secondo
importante grado d’elaborazione, la fase di “costruzione” in cui
l’insieme dei concetti primitivi diviene il momento per compiere
la sintesi.
È proprio il passaggio alla sintesi a costituire il momento
invalicabile della teoria filosofica di Leibniz, a determinare
cioè lo statuto sostanzialmente progettuale della ricerca
impedendo una sua traduzione in un modello finito, capace di
operare allo scopo della conoscenza.
Lingua Rationis e Scientia Generalis
(Ago. 2012)
Seguendo alle premesse
filosofiche del pensiero leibniziano sulla characteristica
universalis, un principio essenziale della teoria propria al
filosofo di Hannover sta in due sviluppi o prospettive
fondamentali. Da un lato, infatti, Leibniz lega in un unico
disegno la characteristica universalis alla fondazione
teorica di una lingua razionale, scientifica, che il filosofo
tedesco definisce con il nome di lingua rationis, una
lingua, è utile premetterlo, da costituire partendo da una serie
di criteri puramente filosofici; dall’altro, invece, il discorso
del filosofo tedesco va in una direzione all’apparenza non
dissimile, poiché in sede di riflessione filosofica è introdotta
l’espressione scientia generalis.
Alla maniera della lingua
rationis, la scientia generalis non rinvia ad altro
che ad un ulteriore sistema di tipologia scientifica tramite cui
è possibile – in linea teorica – “leggere” la realtà nella sua
totalità. Ma nel pensiero di Leibniz, la costituzione di un
nuovo alfabeto – seguendo il modello della lingua, ossia il
legame nome e cosa – non rinvia alla
strutturazione di un sistema astratto o privo di riferimento
alla concretezza della realtà, insomma estraneo all’empirismo
necessario al sistema per funzionare adeguatamente. Il filosofo
tedesco, infatti, non prescinde da un’idea di lingua rationis
strettamente legata alla realtà.
Il momento esemplare della
riflessione di Leibniz sull’argomento sta propriamente nella
cautela con la quale il filosofo difende il sistema da un
rischio, la ricaduta nel campo dell’astrazione, ossia il
pericolo di perdere di vista il nesso nome/cosa o
simbolo/realtà. Il profilo della teoria è dunque radicato alla
realtà. D’altra parte, la lingua rationis – in una
lettera di Leibniz ad Oldenburg – è la Porta delle Cose.
Ciò introduce però un elemento che si potrebbe definire o
identificare in una “caratteristica”, ossia che il “segno” o
simbolo che rinvia alla “cosa” o alla realtà in sé è più che una
semplice unità mono–significante.
Sotto tale profilo, il momento
rivoluzionario nel pensiero di Leibniz sta nell’identificazione
di una nuova prospettiva in cui il “segno” rinvia ad una
pluralità, identifica cioè un amplissimo orizzonte di
significazione. In altri termini, la lingua rationis e i
segni/simboli che la compongono costituiscono, ognuno, non un
semplice ed univoco rinvio ad una determina cosa (ad esempio, la
serie di segni grafici “pane” rinvia all’oggetto commestibile),
al contrario nella teoria linguistica di Leibniz il “nome” è una
sorta di clavis universalis capace di “significare” un
esteso orizzonte di significazione. Nella lettera a Oldenburg,
Leibniz scrive:
«Il
nome stesso di ogni cosa sarà la chiave di tutto ciò che a
proposito di essa si deve dire e pensare, o deve accadere con
ragione».[1]
Se è vero che il «nome» non
rinvia soltanto ad una «cosa», ugualmente si può sostenere che
il «nome», ossia il segno della lingua simbolica immaginata da
Leibniz reca in sé un principio fondamentale. Esso sta nel fatto
che proprio quel nome è pluri–significante, in particolare –
utilizzando le precise parole di Leibniz – è la «chiave di
tutto».
Il riferimento al «nome» come
clavis universalis, ossia l’introduzione ad una “dicibilità”
della realtà partendo da un sistema simbolico che scardina il
nesso nome/cosa, in Leibniz assume una qualificazione “aperta”.
Si ha, infatti, l’impressione che il «nome», veicolando una
lingua d’uso simbolica (la lingua rationis) determini
anche un’ulteriore novità, ad esempio che relativa alla
lingua rationis è la natura di organismo vivente, organismo
dinamico, a differenza della lingua corrente o comune che invece
impone una correlazione diretta e mono–significante (esempio
della parola “pane”), limitazione cui Leibniz lavora in nome di
una radicale apertura sul piano della significazione.
Un’idea siffatta di lingua
rationis nel pensiero di Leibniz intercetta anche l’altro
importante elemento della scientia generalis. È chiaro
che il carattere “universale” della lingua o del sistema
simbolico leibniziano non può che determinarsi ed anzi
applicarsi o esprimersi in uno scenario congeniale ed adeguato,
una scientia generalis la cui cardinale prerogativa sta
propriamente nella dialettica analisi/sintesi di cui si è
trattato nel precedente capitolo. A tal riguardo, Mugnai scrive:
«Dal momento che si assume che i concetti semplici e le regole
della loro composizione siano uguali per tutti gli uomini, ne
segue che, per avere una lingua universale, quando si fossero
portate a termine con successo l’analisi e la sintesi dei
concetti, basterebbe accordarsi sull’alfabeto».[2]
L’ordine delle “cose” del mondo o
gli elementi che compongono la realtà s’identificano nel quadro
generale della ragione umana, meglio ancora nella capacità
dell’uomo di ridurre le “cose” analiticamente ad un
principio originario. Riguardo ai princìpi di cui si è
più ampiamente parlato nel precedente capitolo, ciò che ora
importa in chiave analitica è sapere che la riduzione al
“principio”, nel pensiero di Leibniz ha anche un ulteriore campo
di sviluppo, una via verso la riduzione all’unità che transita
per l’ambito delle “categorie”.
Il compito dell’analisi non è
dunque particolare, al contrario Leibniz pensa ad una sua
dimensione universale capace di condurre ai princìpi o
alle categorie originarie o primitive, in secondo luogo di
“costruire” (dopo la “decostruzione”) una sintesi ugualmente
universale.
Nel sistema filosofico
leibniziano, l’asse portante lingua rationis–scientia
generalis è un modello che aggancia un’esigenza di totalità,
di universalità, ragione per cui tra analisi e sintesi si giunge
ad un esito che è « […] il sistema di tutti i concetti e quindi
l’intero cosmo del nostro sapere».[3]
Quando si pensa al sistema dei
concetti, un’altra particolarità della teoria filosofica
leibniziana riguarda in specie la riduzione numerica proprio dei
concetti semplici, una riduzione che è principio fondamentale in
Leibniz, poiché costituisce un momento esemplare anche in
relazione al fatto che è intima persuasione del filosofo
possedere una “base” di partenza circoscritta e non estesa.
Veicolando il lessico della
lingua corrente è possibile indicare che se i segni alfabetici,
opportunamente combinati formano le parole e se le parole
opportunamente combinate formano le proposizioni, alla stessa
maniera nel campo della simbolica leibniziana, un intero e
complesso sistema di concetti è possibile ricavare partendo dai
concetti semplici. Nonostante lo sforzo intellettuale di Leibniz,
il progetto della scientia generalis – come d’altra parte
la characteristica universalis – non ha però avuto una
traduzione pratica, ad esempio non è stato convertito in
un’opera coesa e organica.
Conclusioni
Nella sua dimensione conoscitiva
finale, lo studio su Gottfried Wilhelm Leibniz ha fornito
un’immagine al contempo particolare e generale del pensiero
filosofico del pensatore di Hannover. Il momento particolare
riguarda il ristretto ambito del tema riguardante i princìpi
e la characteristica universalis, il momento
generale, o meglio la proiezione dello sforzo intellettuale
compiuto da Leibniz, è un rinvio diretto alla volontà di
possedere, di raccogliere in un sistema controllabile la
totalità del reale.
Lo studio sui princìpi ed
in particolare attraverso un gruppo di tre opere ritenute
esemplari a riguardo, ossia Nuovi saggi sull’intelletto
umano (1703), Principi razionali della natura e della
grazia (1714), la Monadologia (1714), ha determinato
un primo importante risultato: comprendere che il momento di
ricerca del “primitivo” in Leibniz è un’operazione di
“decostruzione” dei saperi (fase dell’analisi), così come
la “costruzione” somiglia molto ad una ricostruzione su nuove
fondamenta (la fase della sintesi). Sotto tale
angolatura, il discorso sui princìpi primi (secondo
capitolo del lavoro) appare introdurre il terzo capitolo, in cui
lo sforzo di ridurre la totalità ad un sapere finito, dal punto
di vista del pensiero di Leibniz costituisce la più ambiziosa
finalità della riflessione filosofica.
Tra la characteristica
universalis, in cui il sapere o il tema dell’enciclopedia
del sapere è l’esito di strutturate operazioni
algebrico–matematiche, e, unitamente, la lingua rationis
e la scientia generalis, si è avuta la palpabile
impressione che la totalità in Leibniz corrisponda ad un
desiderio ed ad un disegno intellettuale e culturale tesi ad un
lavoro di riduzione dell’ordine reale ad unità (la monade
è un ben noto concetto della filosofia leibniziana). Tale
riduzione costituisce la piattaforma d’appoggio per la
“costruzione” di un sistema universale (lingua e scienza) il cui
carattere esemplare sta propriamente in una dimensione dello
sguardo, della visione aperta appunto alla totalità.
La figura di Leibniz in sostanza
si pone il problema dell’origine, riflette sulla dimensione
archetipica della natura e della cultura, ma sa anche
avventurarsi nell’orizzonte aperto e sconfinato di un
enciclopedismo che non è – come si potrebbe immaginare –
desiderio di asettica erudizione, in tutt’altro modo è volontà
di “contenere” gli elementi esemplari, insomma i fondamenti del
sapere umano. In tale modo, Leibniz veicola le scienze
matematiche per una mistione provvidenziale e fertile allo scopo
di comprendere e fissare – in un sogno forse utopistico –
l’ordine del mondo ridotto a “formula” dalla ragione e
dall’intelligenza umana