Una nuova visione della vita
di
Francesco Tassone
I
sostenitori della decrescita rifiutano il concetto stesso di
sviluppo, considerandolo negativo in sè. Partendo dalla
constatazione del limite delle risorse naturali e dell’implicita
ingiustizia sociale della pratica della crescita senza freni, essa
cerca di rintracciare forme economiche rispettose dell’ambiente. Ma
oltre a rispondere alle preoccupazioni ambientali, la decrescita
costituisce anche una valida alternativa in termini di equità
sociale.
La
teoria della decrescita implica una radicale inversione del modo di
pensare, un abbandono dell’economicismo sfrenato, della logica
meramente produttivista, a favore di un’esistenza più riflessiva,
non vincolata alla crescita del PIL, il cui aumento viene
universalmente riconosciuto come segno positivo di benessere del
sistema, ma che, in realtà, non registra la qualità della vita, la
felicità delle persone, né i danni ambientali, né la sottrazione
delle risorse naturali, che vengono irrimediabilmente sottratte alle
future generazioni.
Puntare
sulla decrescita significa, perciò, imboccare una strada diversa,
una strada che implica la ricerca di uno stile di vita più
equilibrato, in grado di distinguere i bisogni reali da quelli
indotti, effimeri, e che miri alla soddisfazione anche di interessi
affettivi, intellettuali, sociali. La soddisfazione dei bisogni,
difatti, può passare attraverso altre vie, diverse dalla sfrenata
crescita al suo impatto ambientale.
Latouche
sintetizza gli obiettivi della sua teoria della decrescita nel
cosiddetto programma delle otto “R”: rivalutare, riconcettualizzare,
ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare,
riciclare ma, in generale si può affermare che i sostenitori della
decrescita mirano a realizzare tre obiettivi fondamentali:
valorizzare la dimensione locale, incentivare l’equità sociale e la
sostenibilità ecologica.
Valorizzare il locale significa, innanzitutto, uscire dalla logica
del mercato globale, la cui peculiarità è, come ha osservato M.
Bonaiuti, «l’assoluta
impersonalità
dei rapporti».[1]
Nell’epoca della globalizzazione, il mercato diviene sempre meno un
luogo di incontro e di scambio non solo economico, ma anche
culturale, e sempre più, un’entità astratta, anonima ed impersonale
che tende a mercificare i rapporti sociali e ad annullare la fiducia
tra produttore e consumatori: gli episodi di traffici di organi, di
bambini, contraffazioni di alimenti bene lo dimostrano.
Nel
mercato globale, il ruolo del consumatore nelle definizione delle
modalità produttive è assolutamente nullo: il consumatore può
solamente rifiutare l’acquisto di un prodotto, ma non può prendere
parte alle decisioni relative alle modalità produttive. Al
contrario, solamente a livello locale, è possibile «immaginare
quella partecipazione alla definizione delle modalità di produzione
della ricchezza che una società conviviale presuppone».[2]
Decrescita significa, perciò, localizzare le attività: utilizzare i
prodotti del territorio, riducendo i trasporti, i maggiori
imballaggi inutili, i trattamenti che consentono ad un prodotto
alimentare di essere consumato dopo giorni. L’attenzione ai prodotti
locali implica una maggiore attenzione al territorio locale, da cui
dipende il nostro approvvigionamento. Si ricrea il rapporto che il
contadino aveva con la terra, la consapevolezza che il suo utilizzo
doveva essere sostenibile, all’insegna della riproduzione durevole.
Ma si ricreano anche rapporti con i produttori del territorio, in
alternativa ai prodotti senza volto dell’industria e dei centri
commerciali. E si contrasta così anche il problema della concorrenza
dei paesi dove produrre costa meno perché si sacrificano diritti e
ambiente.
La
decrescita ripropone, poi, forme tradizionali di produzione di beni,
non monetarizzate: l’autoproduzione, la produzione da sé dei beni,
essenziali o non, e lo scambio non monetario, il dono o il favore
agli altri, il mettere a disposizione le proprie capacità ed il
proprio tempo, sistema questo peculiare nelle civiltà tradizionali,
finché non è si è imposto il mito dello sviluppo, che ha prodotto la
mercificazione dei rapporti tra gli uomini e di questi con la
natura.
Lo
scambio costituisce un modo diverso di produrre beni e soddisfare
bisogni, ma anche e soprattutto un diverso modo di vivere con gli
altri, all’insegna dei legami comunitari, della convivialità, della
partecipazione e, dunque, della «ri-appropriazione delle principali
attività umane, come il lavoro, lo scambio, la salute e il sapere, e
delle relative istituzioni»[3].
Esistono
delle esperienze, delle pratiche di decrescita che dimostrano e
chiarificano come la prospettiva della decrescita possa essere forse
considerata un’utopia, ma concreta.
Vi sono,
infatti, delle forme di attività commerciali che non hanno come
finalità il perseguimento della massimizzazione del profitto, bensì
il loro obiettivo è la lotta allo sfruttamento e alla povertà,
legata a cause economiche, politiche e sociali.
Il
commercio equo e solidale è una forma di commercio internazionale
che tenta di assicurare ai produttori e ai lavoratori dei paesi in
via di sviluppo un trattamento economico e sociale equo e
rispettoso.
Dalla
critica dell’egemonia del commercio mondiale sono nate, dunque,
delle forme di economia alternativa che si ispirano direttamente ai
principi cardine della teoria della decrescita: la Rete di Economia
solidale ne rappresenta il maggiore esempio.
Essa è
costituita da individui e gruppi, il cui obiettivo è quello di dare
risposte concrete ai problemi scaturiti dalla globalizzazione
economica, ossia incentivare la creazione di economie solidali,
«forme di economia che considerano l’attività economica uno
strumento per il soddisfacimento dei propri bisogni e un’occasione
di relazione tra persone»[4].In
vari paesi del mondo (Brasile, Argentina, Spagna, Francia) esistono
già reti di economia solidale, nate negli ultimi anni.
In
Italia la Rete di Lilliput e diversi soggetti di economia
alternativa come le Botteghe del Mondo-commercio equo solidale,
Gruppi di Acquisto Solidali (GAS), organizzazioni della Finanza
Etica e del Turismo Responsabile, cooperative sociali stanno
promuovendo un processo analogo, per collegare e rafforzare queste
pratiche di economia basate su principi antitetici a quelli del
neoliberismo.
Questo
percorso è stato avviato il 19 ottobre 2002 a Verona nel corso di un
seminario sulle “Strategie di rete per l’economia solidale”, in cui
le numerose realtà hanno deciso di affrontare questo progetto.
Un primo
passo è stata la stesura della “Carta per la Rete Italiana di
Economia Solidale”, presentata al salone Civitas di Padova il 4
maggio 2003, nella quale sono stati definiti i principi-cardine di
tale progetto: «nuove relazioni tra i soggetti economici basate su
principi di reciprocità e cooperazione; giustizia e rispetto delle
persone (condizioni di lavoro, salute, formazione, inclusione
sociale, garanzia di beni e servizi essenziali); rispetto
dell’ambiente (sostenibilità ecologica); partecipazione democratica;
disponibilità a entrare in rapporto con il territorio
(partecipazione al “progetti locale”); disponibilità ad entrare in
relazione con le altre realtà dell’economia solidale condividendo un
percorso comune; impiego degli utili per scopi di utilità sociale.»[5]
In tali
distretti, i soggetti sperimentano una partecipazione attiva e
democratica, nel definire concretamente come gestire i processi
economici e le relazioni al proprio interno e con gli altri soggetti
del proprio territorio.
In
Italia la principale organizzazione di commercio equo e solidale è
la Ctm altromercato, fondata nel 1989. Essa è un consorzio composto
da 130 cooperative e organizzazioni non-profit che gestiscono 350
negozi “Botteghe del Mondo“.Quest’ultime sono dei luoghi di scambio
culturale, e di sensibilizzazione, oltre che luoghi di vendita,
antitetici a quelle del mercato capitalistico.
In
questi luoghi, gestiti da volontari, i prodotti non vengono
propagandati per il rapporto prezzo-qualità, bensì per il
significato di cui sono portatori, per la loro storia.
Come
scrive Tonino Perna, in esse «non si vendono merci, ma prodotti,
cioè beni che hanno una storia da raccontare. (…). Gli oltre 3500
world shops oggi presenti in 14 paesi europei rappresentano il
primo serio tentativo di “demercificazione” nell’era della
globalizzazione…»[6]
Esse,
pertanto, non si limitano alla vendita dei prodotti del commercio
equo, ma propongono iniziative che vanno nella direzione di un
modello di sviluppo più giusto, umano e sostenibile.
Analoghe
motivazioni hanno spinto alla creazione dei cosiddetti Gruppi
di Acquisto Solidale (GAS).
Essi sono gruppi di acquisto che partono da un approccio critico al
consumo e che vogliono applicare il principio di equità e
solidarietà ai propri acquisti. I criteri che guidano la scelta dei
fornitori tengono conto della qualità del prodotto e dell’impatto
ambientale.
Un
gruppo d’acquisto è, perciò, formato da un insieme di persone che
decidono di incontrarsi per acquistare all’ingrosso prodotti
alimentari o di uso comune, da ridistribuire tra loro. Tali gruppi
cercano prodotti provenienti da piccoli produttori locali per avere
la possibilità di conoscerli direttamente e per ridurre
l’inquinamento e lo spreco di energia derivanti dal trasporto.
Inoltre si cercano prodotti biologici o ecologici che siano stati
realizzati rispettando le condizioni di lavoro.
La
storia dei gruppi d’acquisto solidali in Italia inizia nel 1994 con
la nascita del primo gruppo a Fidenza, quindi a Reggio Emilia e in
seguito in diverse altre località. Nel 1996 viene pubblicata
dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo la “Guida al Consumo Critico”,
con informazioni sul comportamento delle imprese più grandi per
guidare la scelta del consumatore; l’ampio elenco di informazioni
documentate sulle multinazionali accelera il senso di disagio verso
il sistema economico e la ricerca di alternative.
Nel 1997
nasce la rete dei gruppi d’acquisto, allo scopo di collegare tra
loro i diversi gruppi, scambiare informazioni sui prodotti e sui
produttori, e diffondere l’idea dei gruppi d’acquisto.
Le
diverse realtà di economia solidale presenti su di un territorio
hanno creato circuiti economici a base locale (che collegano
direttamente produttori, commercianti e consumatori), capaci di
valorizzare le risorse territoriali secondo criteri di equità
sociale e sostenibilità ambientale: i Distretti di economia solidale
(DES).
Come ha
notato A. Saroldi, i vantaggi di un tale circuito sono
essenzialmente due: «da una parte porta ad attivare legami di
fiducia sul territorio, dall’altra a chiudere localmente i cicli di
produzione e consumo diminuendo l’impatto sull’ambiente».[7]
Difatti,
i DES sperimentano una forma di economia equa e socialmente
sostenibile; si impegnano nella distribuzione equa dei proventi
delle attività economiche, ossia investono gli utili per scopi
sociali con lavoratori locali e del Sud del mondo.
Si
impegnano, poi, a praticare un’economia rispettosa dell’ambiente e a
valorizzare la dimensione locale, le risorse del territorio.