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Il nuovo TMAX 530, un
evergreen rigenerato
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“Una separazione” la pellicola
iraniana premiata al Festival di Berlino
di Ernesto De Benedictis
Il mitico bicilindrico Yamaha giunge alla
sua quarta edizione senza perdere colpi e acquistando 30 cc. in più di
potenza.
Oltre al fattore moda, soprattutto in
Europa, a rendere il TMAX lo scooter in assoluto più longevo sono
anche le prestazioni tecniche sopra alla media che spingono gli amanti
del genere a preferirlo agli altri competitors della stessa fascia.
La Yamaha sul nuovo TMAX ha aumentato la
cilindrata e ha diminuito il peso ma senza pregiudicare l’equilibrio con
un conseguente maggior scatto da fermo ed in fase di ripresa, facendogli
cioè acquistare un comportamento più motociclistico e meno scooteristico.
Il freno motore è stato leggermente
attenuato e la maggior potenza viene trasferita a terra con una
trasmissione a cinghia dentata trapezoidale.
Il telaio a doppia trave in alluminio, la
fluidità delle sospensioni e la prontezza della frenata rendono il
nuovo “scooterone” adatto sia alla città che al viaggio di lunga
percorrenza.
La guida è decisamente più stabile e come
per i precedenti modelli comoda e maneggevole anche per persone alte
di statura.
Il design è più accattivante e in
particolare si nota subito una carenatura che sembra frontalmente più
ampia e aggressiva con originali ritocchi agli indicatori di direzione ,
ai supporti degli specchietti e al cruscotto fatto di linee ben marcate
e fornito di strumenti analogici di facile lettura con una potente
retroilluminazione che evidenzia un liquid cristal display fornitore
di varie informazioni . Il plexiglas rivisitato, è regolabile su due
posizioni e protegge anche a forti velocità, sia la testa che le spalle,
dagli eventuali vortici d’aria.
I difetti riscontrati sono pochi ma
percebili subito dai TMAX- addicted. Il più evidente è senza dubbio la
mancata empatia iniziale per la posizione di guida differente dovuta
all’abbassamento del manubrio ed a seguire una maggiore esposizione
all’aria degli arti inferiori oltre a un minor spazio per i bagagli,
dovuto al telaio più motociclistico.
Il costo è grossomodo rimasto invariato con
un dolente surplus qualora si richiedesse l’ABS che non è di serie.
Soddisfacente quindi l’analisi di questo
nuovo TMAX , che dopo più di undici anni dalla prima produzione rimane
sempre l’hyperscooter per eccellenza.
Caratteristiche tecniche
in pillole:
Motore: 2 cilindri
in linea, a 4T, cilindrata 530 cc., potenza max 46,5 CV Accensione:
elettronica digitale Alimentazione: iniezione elettronica Telaio:
doppia trave in alluminio - Trasmissione: automatica a cinghia Freni:
anteriore a doppio disco; posteriore a disco (ABS su richiesta) Ruote:
cerchi in lega Sospensioni: anteriore forcella telescopica a doppia
piastra; posteriore forcella oscillante con monoarmotizzatore Pneumatici:
Bridgestone BT012 ant.120/70- post.160/60 Peso: 217 Kg Dimensioni:
lunghezza 2200 mm- larghezza 775 – altezza 800 Prezzo: 10,490 euro
(senza optionals).
(E.D.B.)
“Una separazione” la pellicola iraniana premiata
al Festival di Berlino
Un opera neorealista girata dal regista Asghar Farhadi, che con un
budget esiguo e in un paese controllato da una censura intransigente, ci
racconta il dramma di una separazione.
La giuria del 61 Festival di Berlino lo ha premiato con l’Orso d’oro
sottolineando l’umanità rappresentata dal regista iraniano. Farhadi
mette in luce uno spaccato di vita reale con personaggi tangibili, con
un risultato avvincente che sin dal primo ciak ti coinvolge in
riflessioni profonde in modo molto semplice.
Chadors di tutti i colori per le varie classi ed età che lasciano
apertamente vedere stupendi volti orientali sono la cornice di questo
film che narra di una giovane coppia borghese iraniana Nader e sua
moglie Simin che dopo anni di vita insieme decidono di separarsi. Hanno
ottenuto il permesso di espatrio ma Nader non vuole partire. Suo padre è
affetto da Alzhaimer e lui ritiene di dover restare al suo fianco. Simin
va a vivere dai genitori mentre la figlia adolescente resta con il
padre. E’ necessario assumere qualcuno che si occupi dell’uomo mentre
Nader è al lavoro e l’incarico viene dato a una donna incinta che ha
anche una figlia piccola. La donna lavora all’insaputa del marito
disoccupato ma un giorno in cui si è assentata senza permesso lasciando
l’anziano legato al letto viene scoperta da Nader che l’ accusa di aver
procurato dei danni al padre ed anche della sparizione di una somma di
denaro lasciato in un cassetto. La situazione degenera dopo una spinta
di Nader alla badante che perde il bambino e prosegue con una serie di
intrecci in cui tutti sono messi alla prova della verità e i giochi
delle parti si mescolano, con un finale che non si svela.
Farhadi riesce con questo lungometraggio a bypassare lo sguardo della
censura proponendoci una storia che sotto l’apparente facciata di un
distacco familiare promuove una serie di domande di non facili risposte.
In una cultura maschilista , il regista mette in campo la saggezza
femminile che risolverà i vari conflitti con tutte le difficoltà che
nonostante la loro condizione supereranno con maestria. Emblematica e
tragicomica, per un occidentale, è la scena della telefonata che la
badante fa all’ufficio coranico per sapere se possa o meno cambiare i
pantaloni al vecchio che si è orinato addosso.
E’ una storia che parla di figure umane fallibili , dove colpevoli e
innocenti si scambiano continuamente le parti e dove con una scrittura
magistrale, che anche non accennando esplicitamente alla attualità
iraniana non pervasa dalla primavera araba, si espone l’aspetto politico
in cui il potere viene schiacciato nella sua illogicità.
E’ un lungometraggio di circa due ore che stravolge ripetutamente il
nostro punto di vista e ci porta ad adottare lo sguardo dell’altro
facendoci sentire impossibilitati nel giudizio. Ogni personaggio ha una
sua verità e ragione se spostiamo di poco la nostra angolazione.
Diverso dagli usuali films iraniani post neorealisti, lenti e intrisi di
simbolismi. Faradhi costruisce una pellicola parlata , di dialoghi
intimi, con un intreccio a molte voci che si intersecano ma senza
perdere mai il filo, dove i personaggi seguendo il red lolly mutano i
loro ruoli al punto che non si arriva più a comprendere per chi tenere,
lasciandoci nel dubbio anche nel finale.
Le ambientazioni si svolgono sempre in spazi chiusi, abitazioni, uffici
e in macchine. Questa scelta dello sceneggiatore è perfetta, infatti la
predominanza di scene di interni mette maggiormente a fuoco il dramma
psicologico.
Le riprese sono fatte con abbondante impiego di camera mobile usata con
sapienza per seguire i personaggi e con inquadrature spesso frontali con
sequenze di stacchi, ma il montaggio a mio parere ha un ritmo
decisamente lento.
La scenografia risulta povera, vestiti, case, arredi molto semplici. Un
trovarobato di altri tempi di cui si può quasi percepire l’odore.
Non si nota come nei films occidentali la presenza del locations
manager, dell’art buyer e dei costumisti con molti pro e molti contro.
Il colore è in molte scene desaturato e a volte scuro anche nelle poche
sequenze girate in esterno e la fotografia non è quella dei docu-movies
di altri film-makers iraniani.
Concludendo ritengo il film di una disarmante semplicità ma non
convenzionale, con un plot che ti trascina dentro fotogramma dopo
fotogramma, mettendo in gioco sempre più implicazioni, girato da un
regista che conosce bene la grammatica del linguaggio cinematografico e
che già in precedenza mi aveva piacevolmente stupito con la sua opera
“About Elly”.
Mi auguro, che per la crescita di questo genere un po’ di nicchia, il
film sia premiato oltre che dalla critica anche dal box office.
E.De Benedictis |