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Anno XIV num.4
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  • Il nuovo TMAX 530, un evergreen rigenerato

  • “Una separazione” la pellicola iraniana premiata al Festival di Berlino

di Ernesto De Benedictis

 

Il mitico bicilindrico Yamaha giunge alla sua quarta edizione senza perdere colpi e acquistando 30 cc. in più di potenza.

Oltre al fattore moda, soprattutto in Europa, a rendere il TMAX lo scooter  in assoluto più longevo sono anche le prestazioni tecniche sopra alla media che spingono gli amanti del genere a preferirlo agli altri competitors della stessa fascia.

La Yamaha sul nuovo TMAX  ha aumentato la cilindrata e ha diminuito il peso ma senza pregiudicare l’equilibrio con un conseguente maggior scatto da fermo ed in fase di ripresa, facendogli cioè acquistare un comportamento più motociclistico e meno scooteristico.

Il freno motore è stato leggermente attenuato e la maggior potenza viene trasferita a terra con una trasmissione a cinghia dentata trapezoidale.

Il telaio a doppia trave in alluminio, la fluidità delle sospensioni e la prontezza della frenata rendono  il nuovo “scooterone” adatto sia alla città che al viaggio di lunga percorrenza.

La guida è decisamente più stabile e come per i precedenti modelli  comoda  e maneggevole anche per persone alte di statura.

Il design è più accattivante e in particolare si nota subito una carenatura che sembra frontalmente più ampia e aggressiva con originali ritocchi agli indicatori di direzione , ai supporti degli specchietti  e al cruscotto fatto di linee ben marcate e fornito di strumenti analogici di facile lettura con una potente retroilluminazione che evidenzia  un liquid cristal display fornitore di  varie informazioni . Il plexiglas rivisitato, è regolabile su due posizioni e protegge anche a forti velocità, sia la testa che le spalle, dagli eventuali vortici d’aria.

I difetti riscontrati sono pochi ma percebili subito dai TMAX- addicted. Il più evidente  è senza dubbio la mancata empatia iniziale per la posizione di guida differente dovuta all’abbassamento del manubrio  ed a seguire  una maggiore esposizione all’aria degli arti inferiori  oltre  a un minor spazio per i bagagli, dovuto al telaio più motociclistico.

Il costo è grossomodo rimasto invariato con un dolente surplus qualora si richiedesse  l’ABS che non è di serie.

Soddisfacente quindi l’analisi di questo nuovo TMAX , che dopo più di undici anni dalla prima produzione rimane sempre l’hyperscooter per eccellenza.

Caratteristiche tecniche in pillole:   

Motore: 2 cilindri in linea, a 4T, cilindrata 530 cc., potenza max 46,5 CV  Accensione: elettronica digitale Alimentazione: iniezione elettronica  Telaio: doppia trave in alluminio - Trasmissione: automatica a cinghia   Freni: anteriore a doppio disco; posteriore a disco (ABS su richiesta)  Ruote: cerchi in lega  Sospensioni: anteriore forcella telescopica a doppia piastra; posteriore forcella oscillante con monoarmotizzatore Pneumatici: Bridgestone BT012 ant.120/70- post.160/60  Peso: 217 Kg  Dimensioni: lunghezza 2200 mm- larghezza 775 – altezza 800  Prezzo: 10,490 euro  (senza optionals).

(E.D.B.)


“Una separazione” la pellicola iraniana premiata al Festival di Berlino
Un opera neorealista girata dal regista Asghar Farhadi, che con un budget esiguo e in un paese controllato da una censura intransigente, ci racconta il dramma di una separazione.
La giuria del 61 Festival di Berlino lo ha premiato con l’Orso d’oro sottolineando l’umanità rappresentata dal regista iraniano. Farhadi mette in luce uno spaccato di vita reale con personaggi tangibili, con un risultato avvincente che sin dal primo ciak ti coinvolge in riflessioni profonde in modo molto semplice.
Chadors di tutti i colori per le varie classi ed età che lasciano apertamente vedere stupendi volti orientali sono la cornice di questo film che narra di una giovane coppia borghese iraniana Nader e sua moglie Simin che dopo anni di vita insieme decidono di separarsi. Hanno ottenuto il permesso di espatrio ma Nader non vuole partire. Suo padre è affetto da Alzhaimer e lui ritiene di dover restare al suo fianco. Simin va a vivere dai genitori mentre la figlia adolescente resta con il padre. E’ necessario assumere qualcuno che si occupi dell’uomo mentre Nader è al lavoro e l’incarico viene dato a una donna incinta che ha anche una figlia piccola. La donna lavora all’insaputa del marito disoccupato ma un giorno in cui si è assentata senza permesso lasciando l’anziano legato al letto viene scoperta da Nader che l’ accusa di aver procurato dei danni al padre ed anche della sparizione di una somma di denaro lasciato in un cassetto. La situazione degenera dopo una spinta di Nader alla badante che perde il bambino e prosegue con una serie di intrecci in cui tutti sono messi alla prova della verità e i giochi delle parti si mescolano, con un finale che non si svela.
Farhadi riesce con questo lungometraggio a bypassare lo sguardo della censura proponendoci una storia che sotto l’apparente facciata di un distacco familiare promuove una serie di domande di non facili risposte. In una cultura maschilista , il regista mette in campo la saggezza femminile che risolverà i vari conflitti con tutte le difficoltà che nonostante la loro condizione supereranno con maestria. Emblematica e tragicomica, per un occidentale, è la scena della telefonata che la badante fa all’ufficio coranico per sapere se possa o meno cambiare i pantaloni al vecchio che si è orinato addosso.
E’ una storia che parla di figure umane fallibili , dove colpevoli e innocenti si scambiano continuamente le parti e dove con una scrittura magistrale, che anche non accennando esplicitamente alla attualità iraniana non pervasa dalla primavera araba, si espone l’aspetto politico in cui il potere viene schiacciato nella sua illogicità.
E’ un lungometraggio di circa due ore che stravolge ripetutamente il nostro punto di vista e ci porta ad adottare lo sguardo dell’altro facendoci sentire impossibilitati nel giudizio. Ogni personaggio ha una sua verità e ragione se spostiamo di poco la nostra angolazione.
Diverso dagli usuali films iraniani post neorealisti, lenti e intrisi di simbolismi. Faradhi costruisce una pellicola parlata , di dialoghi intimi, con un intreccio a molte voci che si intersecano ma senza perdere mai il filo, dove i personaggi seguendo il red lolly mutano i loro ruoli al punto che non si arriva più a comprendere per chi tenere, lasciandoci nel dubbio anche nel finale.
Le ambientazioni si svolgono sempre in spazi chiusi, abitazioni, uffici e in macchine. Questa scelta dello sceneggiatore è perfetta, infatti la predominanza di scene di interni mette maggiormente a fuoco il dramma psicologico.
Le riprese sono fatte con abbondante impiego di camera mobile usata con sapienza per seguire i personaggi e con inquadrature spesso frontali con sequenze di stacchi, ma il montaggio a mio parere ha un ritmo decisamente lento.
La scenografia risulta povera, vestiti, case, arredi molto semplici. Un trovarobato di altri tempi di cui si può quasi percepire l’odore.
Non si nota come nei films occidentali la presenza del locations manager, dell’art buyer e dei costumisti con molti pro e molti contro.
Il colore è in molte scene desaturato e a volte scuro anche nelle poche sequenze girate in esterno e la fotografia non è quella dei docu-movies di altri film-makers iraniani.
Concludendo ritengo il film di una disarmante semplicità ma non convenzionale, con un plot che ti trascina dentro fotogramma dopo fotogramma, mettendo in gioco sempre più implicazioni, girato da un regista che conosce bene la grammatica del linguaggio cinematografico e che già in precedenza mi aveva piacevolmente stupito con la sua opera “About Elly”.
Mi auguro, che per la crescita di questo genere un po’ di nicchia, il film sia premiato oltre che dalla critica anche dal box office.
 

E.De Benedictis

 


 

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