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OGM: sicurezza o dipendenza alimentare?

di Mirco Gigliotti

 

Possibilità di garantire in modo costante e generalizzato acqua e alimenti per soddisfare il fabbisogno energetico di cui l’organismo necessita per la sopravvivenza e la vita, in condizioni igieniche[1]”.

Con queste parole è generalmente definito il concetto di sicurezza alimentare, l’altra risorsa fondamentale, oltre ad aria e acqua, senza la quale non può esserci vita. Il cibo, il prodotto della biodiversità agraria che abbraccia tutte le componenti proprie dell’agricoltura. La biodiversità agraria fornisce il materiale grezzo con cui scienziati e agricoltori sono in grado di sviluppare colture ad alte rese, con alto valore nutrizionale, capaci di resistere a malattie, parassiti, e adattarsi al cambiamento climatico. La diversità, infatti, è uno strumento fondamentale per contrastare l’effetto che i mutamenti climatici hanno sull’agricoltura, dato che le varie specie esistenti possono più facilmente adattarsi alle nuove situazioni[2]. Purtroppo la biodiversità agraria è minacciata da vari fenomeni che stanno contribuendo alla scomparsa di un numero sorprendente di varietà coltivate, come la diffusione delle monoculture, la corsa alla produzione di biocarburanti, l’abbandono delle aree rurali.

In risposta alle crescenti problematiche e insicurezze alimentari mondiali, gli OGM (organismi geneticamente modificati) sono stati indicati da molti come la soluzione ottimale. Per OGM si intende “un organismo diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale[3]”. Per alcuni scienziati il termine OGM è comunque sbagliato, ad esempio per il professor Gianni Tamino, docente di biologia generale e dal 2001 di Fondamenti di Diritto Ambientale al dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, il termine corretto è organismo transgenico, cioè un organismo in cui è stato innestato un gene estraneo all’interno del proprio DNA, tramite tecniche di ricombinazione o di ingegneria genetica. Ma è proprio qui che sorgono i problemi, perché ancora oggi non è possibile controllare in maniera efficace questa tecnica, e non conoscendo le caratteristiche e le regole di composizione che mettono in relazione i diversi geni, se ne altera il funzionamento. Renato Dulbecco ha affermato: “ogni volta che inseriamo in una cellula un gene estraneo, molti altri geni vengono alterati nel loro funzionamento. Solo che noi non sappiamo né quali, né quando, né come saranno alterati[4]”.

La modificazione del genoma degli esseri viventi da parte dell'uomo, in ogni caso, è una pratica antichissima che può essere fatta risalire a circa 14.000 anni fa con l'addomesticamento del cane, ma l'uomo ha preso coscienza dell'effetto, a livello genetico, causato dai propri programmi di selezione solo dalla prima metà del 1900, inizialmente queste tecniche erano indotte in larga parte inconsapevolmente. Il primo OGM moderno fu ottenuto nel 1973 da Stanley Cohen (Stanford University School of Medicine) e Herbert Boyer (University of California, San Francisco), che dimostrarono la possibilità di trasferire materiale genetico da un organismo a un altro[5]. Furono i primi che riuscirono a clonare un gene di rana all'interno del batterio Escherichia coli. Mentre, la prima grande applicazione della biotecnologia alla produzione alimentare è stato l’ormone della crescita bovina, RBGH, meglio conosciuto come Posilac, prodotto dalla Monsanto nel 1994. Oltre al contributo derivato dalla ricerca, in vari casi le multinazionali “rubano” la conoscenza delle popolazioni locali (specie nei Paesi in via di Sviluppo), che per secoli, grazie a un’attenta opera di osservazione, selezione e sperimentazione svolta dai contadini hanno creato varietà diverse per meglio adattarsi alle mutevoli condizioni ambientali, alle esigenze alimentari e ai gusti. Il merito dei contadini viene succhiato dai brevetti delle Multinazionali, che fanno proprie queste conoscenze impedendo, di fatto, ai contadini la possibilità di coltivare quello che per secoli era stata per loro la normalità. Uno degli esempi più famosi ci viene dall’India, il caso del Neem[6] (Azadirachta indica), un albero conosciuto da vari secoli e utilizzato per diversi scopi, dal campo medico a quello agricolo, ma nessuno mai si era sognato di brevettare i prodotti di questo albero, era un sapere libero che poteva essere scambiato (tanto che l’albero viene chiamato anche albero gratuito). Da quando i paesi occidentali hanno manifestato avversione contro i pesticidi chimici, scoprendo le proprietà di quest’albero, hanno spostato la loro attenzione sui suoi prodotti, tanto che nel 1985 la multinazionale W.R. Grace acquistò il brevetto, attrezzandosi da subito per produrre e commerciare le sementi di Neem. La domanda di sementi da parte della multinazionale ne fece aumentare il prezzo, che salì sopra la portata della gente comune, quasi tutte le sementi raccolte, un tempo libere, erano acquistate dalla Grace che faceva valere il suo peso economico, mentre la povera gente non aveva più accesso a una risorsa vitale per la sopravvivenza. Aveva espropriato il frutto di secoli di sperimentazioni e ricerche scientifiche locali la proprio vantaggio. Il Neem non era più un albero gratuito. Ma l’8 Marzo 2005, l’Ufficio brevetti europeo ha revocato il brevetto detenuto congiuntamente dalla W.R Grace e dagli Stati Uniti[7] in quanto basato sull’appropriazione indebita di conoscenze persistenti e privo del carattere di novità e creatività.

Le controversie maggiori sull'uso degli OGM in ambito agroalimentare riguardano: 1) i potenziali rischi per l'ambiente e per la salute umana e animale (famoso il caso del dott. Arpad Pusztai, scienziato-ricercatore dal 1968-1998 presso il Rowett Research Institute di Aberdeen che, nel 1998, fu allontanato dal suo posto di lavoro per aver annunciato, tramite le sue ricerche sulla patata geneticamente modificata[8], l’insorgenza di alterazioni fisiologiche e anatomiche nelle cavie usate in laboratorio); 2) l’impoverimento della biodiversità perché queste colture utilizzano grandi superfici per un sistema a monocoltura, riducendo le specie, i sapori e i saperi; 3) la possibilità di coesistenza tra colture OGM e non-OGM, perché l’agricoltura fa parte di un sistema vivente e comunicante, dove le barriere naturali non sono sufficienti a proteggere le coltivazioni biologiche e convenzionali dagli OGM (rappresentativo è il caso del Mais Messicano contaminato da OGM studiato da Ignacio Chapela, ricercatore presso l’Università di Berkeley in California. I suoi risultati sono stati pubblicati nel 2001 su Nature: “Transgenic DNA introgressed into traditional maize landraces in Oaxaca, Mexico[9]”); 4) inoltre, la loro introduzione in aree rurali ha un forte impatto socio-economico, soprattutto in paesi in via di sviluppo, dove i contadini vedono limitata la propria libertà per la presenza di sementi di proprietà delle multinazionali, alle quali devono rivolgersi per ogni nuova semina, così come per i prodotti che affiancano le sementi.

Mentre dentro il palazzo dell’ONU, si afferma che l’agricoltura familiare, la tanto bistrattata agricoltura di sussistenza, difendeva la popolazione a rischio malnutrizione, le multinazionali sostengono che solo gli OGM salveranno il mondo dalla fame, eppure, come afferma, Carlo Petrini di Slow Food “da quando è iniziata la commercializzazione (circa 15 anni fa) il numero degli affamati non ha fatto che crescere, proprio come i fatturati delle aziende che li producono[10]”. Gli OGM rischiano di essere l’ennesimo tassello di un tipo di agricoltura che risponde in primis a requisiti commerciali, spingendo verso prodotti poco costosi, che necessitano per essere competitivi, di aumentare la produttività del terreno attraverso un ampio uso di erbicidi e concimi. Una visione estremamente limitata del progresso che relega l’agricoltura a semplice elemento di mercato. Oggi, la quasi totalità degli organismi transgenici in commercio nel mondo sono riconducibili a quattro specie: mais, soia, cotone e colza. In questi OGM vengono generalmente effettuate due modifiche, una diretta alla resistenza agli erbicidi e l’altra alla resistenza agli insetti e ai parassiti. Questi prodotti, attraverso varie modalità, si infiltrano nella nostra vita, protetti dalle concentrazioni minime (0,9%) che non obbligano a dichiararli sull’etichetta, sapientemente occultati fra bevande di soia e farine (le stesse che vengono servite quotidianamente nelle stalle). Secondo Greenpeace oltre il 90 per cento degli Ogm importati in Europa consiste in soia e mais destinati agli animali come mangimi[11]. Con questi stessi animali, nutriti con prodotti modificati, vengono realizzati prodotti alimentari che spesso si fregiano del marchio DOP (il famoso made in Italy), senza nessuna informazione e/o etichetta per il consumatore. E’ in questo modo che l’OGM si presenta nella nostra tavola e si confonde nella nostra dieta, giunge invisibile, nascosto.

Al momento l’unico modo per contrastare l’avanzata di queste politiche, è di utilizzare l’informazione e il coinvolgimento attivo dei produttori e dei cittadini.

(Giu.2010)


[2] Altro Magazine, marzo 2008: “2010, un anno per la biodiversità”.

[3] Cfr. Direttiva 2001/18/CEE

[4] Documentario: “Il mondo secondo Monsanto. Storia di una multinazionale che vi vuole molto bene” - Autore: Marie-Monique Robin – Coproduzione Franco-Canadese 2010.

[10] Intervista rilasciata al settimanale Espresso del 12 febbraio 2010

 

Mirco Gigliotti

 


 

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