La produzione di energia elettrica
in Italia
di Mauro Rocchetti
La produzione di energia elettrica in Italia
avviene in parte (73,8%) grazie all’utilizzo di fonti non rinnovabili
(attraverso centrali termoelettriche che bruciano principalmente
combustibili fossili come carbone, petrolio e gas naturale, in gran
parte importati dall’estero), ed in parte (13,4%) utilizzando fonti
rinnovabili (idroelettrica, geotermica, eolica, fotovoltaica e, in
piccola parte, tramite combustione di biomasse); il restante fabbisogno
(12,8%) viene coperto con l’acquisto di energia dall’estero, trasportata
nel paese tramite l’utilizzo di elettrodotti (va comunque menzionato che
la stessa ENEL è in alcuni casi anche comproprietaria di alcuni impianti
di produzione esteri; tale elettricità sarebbe dunque in questi casi
ancora dell'ENEL sebbene prodotta fuori dai confini nazionali).
Secondo le statistiche di Terna, la società
che dal 2005 gestisce la rete di trasmissione nazionale, la maggior
parte delle centrali termoelettriche italiane sono alimentate a gas
naturale (65,2% del totale termoelettrico), carbone (16,6%) e derivati
petroliferi (8,6%). Percentuali minori (2,1%) fanno riferimento a gas
derivati da altre lavorazioni (acciaierie, altiforni, cokeria e
raffineria) e ad “altri combustibili” (7,3%) quali biomasse, rifiuti,
coke di petrolio, bitume.
In ogni modo, oggi le centrali sono
progettate in modo da poter utilizzare più combustibili, in modo da
poter variare in tempi relativamente rapidi la fonte combustibile a
seconda della maggior convenienza.
La maggior parte dell’energia elettrica
prodotta in Italia con fonti rinnovabili deriva principalmente da
centrali idroelettriche (10,7% del fabbisogno energetico lordo,
localizzate principalmente nell’arco alpino ed in alcune zone
appenniniche) e centrali geotermoelettriche (1,5% del fabbisogno
energetico lordo, localizzate principalmente in Toscana). Tra le altre
fonti rinnovabili, l’eolico, sebbene in forte crescita, attualmente
produce l’1,1% del totale dell’energia richiesta, con parchi eolici
diffusi principalmente in Sardegna e nell’Appennino meridionale, mentre
con il solare si raggiungono percentuali ancora minori (0,01%).
Infine, negli ultimi anni è cresciuta la
quota di energia elettrica prodotta in centrali termoelettriche o
termovalorizzatori alimentati con biomasse, rifiuti industriali o
urbani, fino a raggiungere il 2% del fabbisogno energetico totale. Di
questi, il 60,7% e riconducibile ai rifiuti solidi urbani, mentre la
parte restante è riconducibile ad altri rifiuti ed alle biomasse.
Per quel che riguarda l’energia importata
(la maggior parte della quale proveniente da Francia e Svizzera), il
fabbisogno energetico italiano viene sostenuto da corrente prodotta
all’estero per un’aliquota che può oscillare tra meno del 10% nelle ore
diurne fino a punte massime del 25% nelle ore notturne. Ciò dipende
principalmente dal fatto che buona parte dell’energia importata viene
prodotta da centrali nucleari; poiché queste funzionano meglio in regime
costante, durante le ore notturne si trovano ad avere un eccesso di
produzione di energia rispetto alla richiesta, per cui questo surplus
viene venduto a prezzi bassissimi. Ciò consente di fermare in Italia,
durante le ore notturne, le centrali meno efficienti e di immagazzinare
energia tramite le stazioni pompaggio idriche, che la possono poi
rilasciare durante le ore diurne.
In totale, considerando sia l’energia
importata direttamente che i combustibili acquistati per la produzione
interna, l’Italia dipende dall’estero per circa l’84% dell’energia
elettrica. Questo rende il nostro Paese particolarmente esposto a
possibili problematiche legate ad un’improvvisa penuria di combustibile
o un improvviso aumento dei prezzi dell’energia elettrica estera.
Tuttavia, poiché le riserve di combustibili italiane sono molto
inferiori al reale fabbisogno, l’unica modalità di produzione che
potrebbe realmente considerarsi interna è quella che fa affidamento
sulle fonti rinnovabili.
Una centrale idroelettrica generalmente è
composta da un bacino artificiale, creato sbarrando con una diga un
bacino fluviale, la cui acqua viene convogliata tramite una condotta
forzata verso una o più turbine. L’energia cinetica dell’acqua mette in
movimento le turbine, ognuna delle quali è accoppiata ad un alternatore
che trasforma l’energia di rotazione in energia elettrica.
Spesso le centrali idroelettriche sono
dotate di un bacino di raccolta anche a valle. Questo permette di
riportare l’acqua utilizzata per produrre energia nel bacino di monte
durante le ore di minor richiesta di energia mediante pompaggio.
Solitamente questa operazione avviene di notte, utilizzando l’energia in
eccesso (e quindi a basso costo) prodotta ad esempio dalle centrali
nucleari (che, come si è detto, funzionano a regime costante) e non
diversamente accumulabile. Con questo sistema si possono creare centrali
idroelettriche dotate soltanto di un bacino di monte ed uno di valle,
senza la componente fluviale, chiamate stazioni di pompaggio.
Problemi ambientali connessi alle centrali
idroelettriche possono essere ricondotti la fatto che gli sbarramenti
artificiali bloccano il trasporto di sedimento dei fiumi, alterando
l’equilibrio tra apporto solido ed erosione nel corso d’acqua a valle
della diga, con conseguente erosione del letto del fiume e talvolta
taglio dei meandri per la maggiore velocità dell’acqua, fino al mare
dove, per il diminuito apporto di materiale sedimentario, si assiste
all’erosione delle coste. Grandi bacini idroelettrici possono in alcuni
casi avere impatti ambientali e socio-economici di diversa entità o
gravità sulle zone circostanti, modificando il paesaggio e distruggendo
habitat naturali preesistenti, creando una perdita di aree agricole ed,
in alcuni casi, rendendo necessaria l’evacuazione di una parte della
popolazione.
In Italia, le centrali idroelettriche totali
sono più di due mila, presenti maggiormente nell’arco alpino e
appenninico. Gli impianti sono presenti un po’ in tutta Italia, con
prevalenza al Nord (1613), seguita da Centro (277) e Sud (172).
L’energia geotermica trova la sua fonte
nella produzione naturale di calore terrestre dovuta ai processi di
decadimento nucleare di elementi radioattivi quali uranio, torio e
potassio contenuti naturalmente all’interno della Terra. Il calore
prodotto si trasmette, con modalità diverse, verso la superficie. La
Terra è quindi un immenso serbatoio di calore, ma si tratta in genere di
energia fortemente dispersa e solo raramente recuperabile in termini
economicamente vantaggiosi. A volte, per la presenza di anomalie
termiche, può concentrarsi in zone confinate dove raggiunge livelli di
temperatura industrialmente sfruttabili. In tali aree l’acqua di falda
viene riscaldata dal calore geotermico e resa disponibile (in modo
naturale oppure grazie a perforazioni artificiali) sotto forma di fluidi
più o meno caldi (raramente anche vapore surriscaldato) i quali, a
seconda della temperatura e delle loro caratteristiche, possono essere
utilizzabili per la produzione di energia elettrica oppure per scopi
termici, quali il riscaldamento, gli usi sanitari e altri usi
industriali.
La tipologia degli impianti per la
produzione di energia elettrica varia a seconda del sistema idrotermale
disponibile:
- sistemi a vapore dominante, nel caso in
cui il fluido si trova a temperature particolarmente elevate, è
possibile che dalla perforazione del terreno fuoriesca soltanto acqua
sottoforma di vapore ad alta temperatura (anche superiore a 250 °C)e
pressione, che viene inviata direttamente ad un sistema di turbine,
accoppiate ad alternatori, per produrre energia elettrica;
- sistemi ad acqua dominante, nel caso in
cui, per le caratteristiche termiche del sottosuolo, si estraggono
fluidi in fase liquida o miscele acqua-vapore. A seconda della
temperatura del fluido estratto si possono distinguere:
centrali a “singolo o doppio flash”, in cui
il fluido estratto, la cui temperatura è superiore a 150 °C, passando
rapidamente dalla pressione “di serbatoio” a quella atmosferica si
separa (flash) in unamparte di vapore, che viene mandata verso un
sistema di turbine, ed una parte liquida che viene reimmessa nel
sottosuolo. Se il fluido estratto arriva in superficie a temperature
particolarmente elevate, può essere sottoposto per due volte ad un
processo di “flash” (doppio flash);
centrali a ciclo binario, in cui il fluido
estratto, con temperatura compresa tra 120°C e 170°C, viene utilizzato
per vaporizzare, attraverso uno scambiatore di calore, un secondo fluido
con temperatura di ebollizione minore;
centrali a ciclo combinato, in cui, dopo il
processo di “flash”, la parte liquida prima di essere reimmessa nel
sottosuolo passa attraverso uno scambiatore di calore dove vaporizza un
fluido a basso punto di ebollizione.
In Italia la maggior parte degli impianti
presenti, situati in Toscana, sfruttano il sistema a vapore dominante.
Nel complesso i 32 gruppi attivi coprono il 25% del fabbisogno
energetico della regione.
Un impianto eolico è normalmente composto
da:
- un rotore, consistente in una elica con
due o tre pale le cui dimensioni (diametro) dipendono dalla potenza
dell’impianto e dalla forza del vento;
- un generatore eolico, che trasforma
l’energia cinetica del vento in corrente elettrica;
- la coda a banderuola, meccanismo che serve
ad orientare la turbina eolica con l’asse parallelo al flusso del vento
ed inoltre, se il vento supera una stabilita velocità (che potrebbe
compromettere la struttura dell’impianto), sposta l’asse della turbina
verso l’alto facendo rallentare immediatamente il rotore;
- la torre, sulla cui cima è posta la
turbina eolica.
I suoi vantaggi sono evidentissimi: a parte
il costo iniziale dell’impianto, i successivi costi di gestione sono
praticamente nulli, ed il suo impiego per produrre energia elettrica,
poiché non presuppone combustione, non produce CO2 e quindi
non contribuisce all’effetto serra. D’altra parte l’installazione di
torri eoliche, data la loro altezza, crea un notevole impatto visivo ed
il movimento di rotazione delle pale è fonte di inquinamento acustico.
Inoltre, possono danneggiare le rotte di migrazioni dell’avifauna, che
normalmente seguono crinali e passi. Altra accusa a questo tipo di
strutture è stata mossa dalla Coldiretti, secondo cui le aree di
rispetto delle oltre 3600 torri presenti attualmente in Italia sono
responsabili di aver sottratto alla coltivazione ed al pascolo oltre
10.000 km2 di terreno.
Attualmente in Italia sono presenti oltre
3600 torri eoliche con potenza complessiva pari a 3750 MW, che nel 2008
hanno fornito energia elettrica per oltre 6,5 miliardi di kwh (pari ai
consumi domestici di oltre 7 milioni di italiani). Per produrre la
stessa quantità di energia, occorrerebbero 10 milioni di barili di
petrolio, con una produzione di 3,5 milioni di tonnellate di CO2
associata alla combustione.
Le biomasse comprendono vari materiali di
origine biologica: legname da ardere, residui agricoli e forestali,
scarti dell'industria agroalimentare, reflui degli allevamenti, rifiuti
urbani, specie vegetali coltivate per lo scopo . Si tratta generalmente
di scarti dell'agricoltura, dell'allevamento e dell'industria.
I principali esempi di biocombustibili, cioè
combustibili solidi, liquidi o gassosi derivati direttamente dalle
biomasse oppure ottenuti mediante trasformazione strutturale del
materiale organico, sono il biodiesel, il bioetanolo, il cippato, il
pellet e il biogas. Per la produzione di energia elettrica si può
ricorrere sia alla combustione di biomasse per produrre vapore che
azioneranno turbine accoppiate ad alternatori, che all’uso di oli
vegetali e biogas per alimentare gruppi elettrogeni.
I biocombustibili sono considerati
un'energia pulita a tutti gli effetti, in quanto liberano nell'ambiente
le sole quantità di carbonio che hanno assimilato le piante durante la
loro formazione, ed una quantità di zolfo e di ossidi di azoto che
comunque risulta essere nettamente inferiore a quella rilasciata dai
combustibili fossili. Per ridurre l'impatto ambientale è comunque
necessario che le centrali siano di piccole dimensioni ed utilizzino
biomasse locali, evitando in questo modo il trasporto da luoghi lontani.
Attualmente le preoccupazioni maggiormente legate all’utilizzo di questo
tipo di risorsa sono legate al fatto che molti Paesi, localizzati
soprattutto nel Sud-Est asiatico, cercano di trarre beneficio dalla
domanda europea di olio di palma, uno dei biocombustibili più richiesti
per il suo basso prezzo di acquisto, destinando alla coltivazione di
palme aree prima occupate da torbiere e foreste tropicali. In questo
modo si assiste globalmente ad una forte immissione di anidride
carbonica in atmosfera, in quanto il rilascio del carbonio presente nel
terreno è maggiore di quello assorbito dalle nuove coltivazioni.
L’energia solare può essere convertita in
energia elettrica principalmente sfruttando due distinte tecnologie: il
solare fotovoltaico ed il solare termodinamico.
In un impianto fotovoltaico si ha la
conversione diretta dell’energia contenuta nella radiazione solare in
energia elettrica. È costituito principalmente da:
- un campo fotovoltaico, deputato a
raccogliere l’energia solare mediante moduli fotovoltaici;
- un inverter, deputato a stabilizzare
l’energia raccolta, a convertirla in corrente alternata e ad immetterla
in rete;
- una quadristica di protezione e controllo
situata tra l’inverter e la rete da questo alimentata.
Tra i materiali utilizzati per la
costruzione dei moduli fotovoltaici, quello più utilizzato è il
silicio,materiale che però ha un costo elevato, limitando così la
diffusione di questa tecnologia. Attualmente è in corso uno studio
italiano per la produzione di pannelli fotovoltaici a basso costo,
basati sull’utilizzo del tellurio di cadmio in sostituzione del più
oneroso silicio.
I moduli fotovoltaici odierni hanno una vita
stimata di 80 anni circa, anche se è plausibile ipotizzare che vengano
dismessi dopo un ciclo di vita di 35-40 anni, a causa della perdita di
potenza dei moduli.
Lo sfruttamento dell’energia solare in un
impianto solare termodinamico parte dal riscaldamento di un fluido da
parte di una serie di collettori parabolici, dove un collettore
parabolico è di fatto costituito da un riflettore di forma parabolica in
grado di concentrare i raggi solari su un tubo ricevitore posto nel
fuoco della parabola. Il fluido portatore di calore, posto in tale tubo,
viene riscaldato fino ad una temperatura compresa tra 390°C e 550°C, ed
il calore così prodotto viene poi utilizzato per produrre, tramite uno
scambiatore di calore, vapore acqueo utilizzato per produrre energia
elettrica. Il fluido portatore di calore, grazie la sua particolare
composizione salina, una volta riscaldato è in grado di mantenere la sua
altissima temperatura per molto tempo, fino ad alcuni giorni, e questo
permette di avere una produzione di energia ininterrotta e costante nel
tempo.
Attualmente in Italia sono previsti progetti
per la realizzazione di impianti sperimentali di questo tipo in Lazio,
Sardegna e Puglia. La tendenza dell’attuale governo comunque, come
affermato in una mozione del 6 novembre 2008, non sembra volta a
favorire lo sviluppo di questa tecnologia nel nostro Paese. In tale
mozione il Governo si impegna a “promuovere lo sviluppo delle fonti
energetiche rinnovabili per la produzione di energia elettrica,
consolidando meccanismi di incentivazione coerenti con le più avanzate
esperienze europee; a sostenere, parallelamente con lo sviluppo delle
fonti energetiche rinnovabili, tutte le azioni occorrenti per
l’avviamento di programmi coerenti con quelli comunitari in materia di
energia nucleare, nonché per l’incentivazione della ricerca sui reattori
a fusione”.
Il Protocollo di Kyoto, con gli impegni di
riduzioni delle emissioni di gas serra che coinvolgono i paesi
industrializzati nell’ambito della Convenzione Quadro sui Cambiamenti
Climatici è entrato nella sua fase operativa il 1° gennaio 2008.
Il trattato prevede il vincolo per i Paesi
industrializzati di ridurre le emissioni dei gas serra (anidride
carbonica (CO2), metano (CH4), protossido di azoto
(N2O), idrofluorocarburi (HFC), perfluorocarburi (PFC),
esafluoruro di zolfo (SF6)) del 5,2% nel periodo 2008 – 2012
rispetto alle emissioni del 1990; il gas di riferimento è considerata la
CO2, mentre gli altri gas sono misurati in “equivalente CO2",
attraverso un preciso rapporto di cambio.
Nella Convenzione sono affermati due principi fondamentali: il principio
di equità ed il principio di precauzione. Il principio di equità prevede
per i vari paesi responsabilità comuni ma differenziate a seconda delle
condizioni di sviluppo, di intervento e della capacità di perturbazione
del clima; il principio di precauzione afferma che l’incertezza delle
conoscenze scientifiche non possa essere utilizzata come ragione per
posticipare gli interventi necessari ad evitare la possibilità di danni
seri ed irreversibili.
La Convenzione Quadro individua due strategie di intervento: misure di
mitigazione, ovvero interventi a monte, tipicamente di riduzione delle
emissioni di gas serra, e misure di adattamento, che riguardano invece
interventi a valle di adeguamento agli effetti dei cambiamenti
climatici.
L’Italia ha ratificato il Protocollo con la
legge n. 120 del 1 giugno 2002, ponendosi così l’obiettivo di ridurre le
sue emissioni di gas serra nel periodo 2008 - 2012 del 6,5% rispetto al
1990.
Le emissioni di gas ad effetto serra
dipendono da attività come la produzione energetica, processi
industriali, agricoltura e gestione dei rifiuti, e gli interventi per
operare una riduzione emissiva possono comprendere politiche di
risparmio energetico, promozione delle energie rinnovabili, riciclaggio
dei rifiuti, ottimizzazione dei processi produttivi, innovazione
tecnologica ed assorbimento della CO2 tramite i “carbon sink”.
Inoltre, sulla base del principio secondo cui non è importante dove sono
attuate le riduzioni di emissioni, in quanto il problema ha carattere
globale, il Protocollo ha predisposto tre strumenti particolari
denominati meccanismi flessibili:
- Emission Trading (Scambio delle quote di
emissione), cioè l’istituzione di un mercato di “permessi di emissione”,
in virtù del quale gli Stati possono acquistare “riduzioni virtuali” di
emissioni da altri Stati che riescano a ridurre le proprie emissioni ad
un livello maggiore di quello richiesto loro dal Protocollo;
- Joint Implementation (Implementazione
congiunta), accordi tra Paesi industrializzati e Paesi con economie di
transizione in virtù dei quali un paese industrializzato (ospite)
realizza un progetto di sviluppo con un paese a economia di transizione
(ospitante). Se il progetto produce minori emissioni rispetto ad un
progetto analogo effettuato in assenza del meccanismo il paese
industrializzato riceverà un ammontare di crediti pari alla differenza;
- Clean Development Mechanism (Meccanismo
per lo sviluppo pulito), che consiste in accordi tra Paesi
industrializzati e Paesi in via di sviluppo i virtù dei quali un Paese
industrializzato (ospite) realizza un progetto di sviluppo con un Paese
in via di sviluppo (ospitante) che produce minori emissioni rispetto a
un progetto analogo effettuato in assenza del meccanismo. Il Paese
industrializzato riceverà un ammontare di crediti pari a tale
differenza.
Nel caso in cui uno Stato risulti
inadempiente agli obblighi imposti dal Protocollo, sono previste due
tipologie di sanzioni: l’ammontare percentuale in eccesso rispetto agli
obiettivi fissati, maggiorato del 30%, va a cumularsi con l’ammontare
percentuale di riduzione di emissioni previsto per la seconda fase di
attuazione del protocollo (quella in discussione per il periodo
successivo al 2012), e lo Stato inadempiente può inoltre essere escluso
dalla partecipazione ad uno o più meccanismi flessibili.
A tali sanzioni previste dal Protocollo,
vanno aggiunti ulteriori sanzioni stabilite in seno all’Unione Europea.
Con la Direttiva UE 2003/87/CE, è stato istituito un mercato di
emissioni regionale (area UE) ed imposto agli stati membri
l’allestimento di un piano nazionale con l’assegnazione di permessi di
emissione ai singoli impianti di alcuni settori produttivi, quali la
trasformazione energetica, le lavorazioni minerarie, cementifici,
vetrerie, cartiere, produzione ceramica. Gli operatori di questi
impianti potranno, a certe condizioni, partecipare al mercato dei
certificati di emissione, vendendo o acquistando certificati a seconda
delle emissioni emesse;
per
ogni tonnellata in equivalente CO2 emessa in eccesso dagli
operatori, essi dovranno pagare una multa pari a 40 euro nel periodo
2005 - 2007 ed una multa pari a 100 euro a tonnellata nei periodi
successivi.
Il Piano nazionale per l’assegnazione di
quote di emissione di gas (NAP) italiano sancisce di fatto l’esclusione
del settore energetico da provvedimenti concreti nella riduzione delle
emissioni. Lo scenario di riferimento per il 2010, già nella prima bozza
di piano, prevedeva un aumento delle emissioni totali rispetto all'anno
di riferimento (1990) del 12,3%, che per i settori interessati al
sistema di Emission Trading saliva al 17,9 %. Nel Piano attuale la
previsione di aumento dell'anidride carbonica è del 22,8%. Dal momento
che da questi settori interessati dalla Direttiva sulle Emission Trading
deriva il 47,2% delle emissioni totali di gas serra, e che tale
percentuale si prevede che salga al 50,1% nel 2010, è evidente che si
sia deciso che tali settori, non solo non debbano contribuire al
raggiungimento di quella riduzione del 6,5% prevista dal Protocollo di
Kyoto, ma al contrario siano autorizzati ad allontanarci ulteriormente e
consistentemente dal suddetto obiettivo. L’intenzione del governo
italiano sembra quindi quella di colmare questo deficit ricorrendo
all’acquisto di certificati di emissione ed altri meccanismi flessibili.
Allo stato attuale tra le industrie
sottoposte all’Emission Trading Scheme soltanto quelle che appartengono
al settore elettrico ed alla raffinazione del petrolio hanno sforato il
tetto emissivo loro assegnato. In linea teorica il prezzo di questo
smacco dovrebbe gravare sui singoli operatori indicati nel piano
nazionale di emissioni approvato dall'Unione Europea, ovvero i grandi
impianti industriali, le aziende elettriche, le grandi imprese private,
i cui gestori, con la complicità della politica, sono i responsabili del
ritardo italiano; di fatto, i costi saranno scaricati sui consumatori e
sui cittadini, attraverso un aumento dei prezzi ed il ricorso alla spesa
pubblica.
A partire dal 2005 in Italia sono state
messe in atto una serie di misure finalizzate alla riduzione delle
emissioni di gas serra, quali misure di incentivazione del fotovoltaico,
di promozione dell’efficienza energetica negli edifici, della
cogenerazione e dell’utilizzo dei biocombustibili nei trasporti. Nel
Documento di Programmazione Economica-Finanziaria per gli anni 2009 -
2013 deliberato dal Consiglio dei Ministri il 18 Giugno 2008 non si fa
alcun cenno circa investimenti atti a colmare il gap emissivo italiano,
ed a tutt’oggi soltanto alcune voci degli stanziamenti previsti dal
governo Prodi a favore delle energie rinnovabili e dell'efficienza
energetica restano in piedi. In particolare sono stati tagliati gli
incentivi del 55% per migliorare l’efficienza energetica delle
abitazioni. Inoltre, con il decreto legge n.93 del 27 maggio 2008 che ha
portato all’abolizione dell’Ici sulla prima casa sono stati tagliati
circa 700 milioni di euro alle voci destinate ad investimenti in campo
ambientale, così ripartite: 77 milioni di euro per il potenziamento del
trasporto via mare, 15 milioni per il trasporto ferroviario delle merci,
113 milioni per il trasporto pubblico locale, 30 milioni per
l'ammodernamento della rete idrica nazionale, 162 milioni (in tre anni)
per la ferrovia Roma - Pescara, 36 milioni per il trasporto urbano, 50
milioni per la diffusione della banda larga, 150 milioni per la
riforestazione, 45 milioni per la demolizione degli ecomostri, 20
milioni (in tre anni) per le isole minori, 10 milioni per il recupero
dei centri storici, 4 milioni per l'istituzione di aree marine protette,
12 milioni per il monitoraggio del rischio sismico, 3,5 milioni per
interventi di difesa del suolo nei piccoli Comuni.
Con
una mozione del 18/3/2009 il Senato italiano ha negato la relazione tra
aumento delle temperature globali e dei gas serra affermando altresì che
“il livello dell'acqua negli oceani non sta aumentando a ritmo
preoccupante, che i ghiacciai basati su terraferma nelle calotte polari
non si stanno sciogliendo, che il numero e l'intensità dei cicloni ed
uragani tropicali non sta aumentando, che negli ultimi dieci anni la
temperatura media al suolo dell'atmosfera terrestre non risulta
aumentata, che secondo gli oceanografi non vi è alcun rischio di blocco
della corrente del Golfo, che negli scorsi mesi si è riformata la
calotta polare nella stessa estensione di venti o trenta anni fa”. Nello
stesso documento si giustificano queste prese di posizione in quanto
“una politica energetica finalizzata all'ottenimento di una rilevante
riduzione delle emissioni di anidride carbonica … e in particolare nel
caso di eccessive ed affrettate forme di incentivazione delle fonti
energetiche rinnovabili, potrebbe produrre un rilevante aumento del
costo dell'energia termica e soprattutto dell'energia elettrica, con
pesanti conseguenze sulla capacità competitiva internazionale degli
Stati membri dell'Unione, in mancanza del coinvolgimento di importanti
Paesi industrializzati e in via di sviluppo”.
(Gen. 2010)
Mauro Rocchetti |
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