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Le risorse idriche
di
Stefano Iunca
(Ott. 2011)
I recenti periodi di siccità, aggravati
dall’inefficienza degli impianti di distribuzione idrica, hanno messo in
evidenza sia le carenze del sistema dovute ad un’inadeguata gestione
delle risorse idriche. Questo approccio si basa prevalentemente sulla
convinzione della inesauribilità del bene acqua.
Di recente l’Unesco ha messo in
evidenza la necessità di considerare la “dimensione sociale”
nell’affrontare i problemi relativi alle risorse idriche. In particolare
l’agenzia delle Nazioni Unite sottolinea non solo che «l’acqua è una
parte integrante dell’ambiente e che la sua reperibilità è
indispensabile per il funzionamento efficiente della biosfera», ma anche
che «l’acqua è di importanza vitale per tutti i settori socio-economici»
e che «lo sviluppo umano ed economico non è possibile senza una offerta
d’acqua stabile e sicura», tanto da diventare sempre più spesso un
motivo di conflitto tra paesi od all’interno della stessa regione (G.
Romeo, L'acqua: scenari per una crisi, Soveria, 2005).
Nei documenti del Terzo Forum Mondiale
sull’Acqua di Kyoto si legge che il numero dei morti e di chi comunque
soffre per la scarsità dell’acqua, ha superato nel 2004 quello dei più
recenti conflitti. Inoltre più di un bilione di persone non ha accesso
ad acqua potabile pulita e circa 2,4 bilioni di persone non hanno
accesso a cure mediche adeguate. Dietro la quantità di acqua disponibile
per ciascun abitante si nascondono, infatti, grandi disparità. Mentre
alcuni Paesi dispongono di grandi quantità d’acqua, altri si trovano
alle prese con risorse idriche rinnovabili molto limitate. L’Asia, che
conta il 61% della popolazione mondiale, possiede solo il 36% delle
risorse idriche utilizzabili; l’Europa ospita il 12% della popolazione,
ma dispone dell’8% delle risorse idriche; al contrario in America del
Sud vive il 6% dell’umanità, ma vi si trovano il 26% delle risorse.
Questi dati evidenziano come le condizioni di insufficienza stiano
crescendo. Il problema dell’accesso all’acqua diventerà centrale nel XXI
secolo, anche se dietro i dati globali si nascondono realtà diverse,
come illustra la tabella seguente. Alcuni Paesi sono particolarmente
provvisti d’acqua, come l’Alaska (1.5260.000 m3 per
abitante), la Guayana (812.000), l’Islanda (609.000), la Repubblica
democratica del Congo (275.000) o il Canada (94.000). Altri Paesi si
trovano invece a fronteggiare una carenza idrica spesso drammatica, con
dotazioni d’acqua pro capite molto esigue: Singapore (149 m3
per abitante), Malta (129), l’Arabia Saudita (118), la Libia (113), la
Striscia di Gaza (53) e il Kuwait (10).
Al di
là delle ineguaglianze distributive bisogna osservare che, se alcune
società riescono convivere con la scarsità d’acqua, altre ne sono sempre
più vittime. Esiste infatti un altro aspetto della questione dell’acqua:
la scarsità non è quasi mai assoluta, ma molto più spesso relativa alla
struttura di consumo e alla capacità di trasferimento e di adattamento,
che variano da una società all’altra. Così la Giordania, che può
beneficiare di 179 metri cubi d’acqua per abitante, deve confrontarsi
con una situazione di penuria grave, mentre Singapore con i suoi 149
metri cubi per abitante, non è costretta a imporre razionamenti o a
procedere ad arbitraggi.
La domanda globale di acqua cresce
rapidamente a causa dell’espansione demografica della specie umana e del
diffondersi del modello tecnologico-industriale, tipico della modernità
occidentale. Nello steso tempo decresce la quantità di acqua potabile a
disposizione delle popolazioni a causa delle turbolenze climatiche,
dell’inquinamento sempre più diffuso e dei fenomeni di salinizzazione
delle acque dolci.
In questo contesto emerge l’esigenza di
considerare l’accesso all’acqua, per i suoi diversi usi, come un diritto
ed un bene collettivo globale. Questo diritto, secondo la Banca
Mondiale, va assicurato incentivando investimenti pubblici e privati
nelle infrastrutture, ad esempio per l’immagazzinamento dell’acqua, ed
una legislazione conforme a tale esigenza. L’esperienza ha dimostrato
infatti come i programmi di cooperazione per lo sviluppo e la gestione
delle risorse idriche abbiano giocato un ruolo rilevante nella
integrazione regionale e nella stabilità delle regioni del Sud Est
Asiatico (Tailandia e Laos) e dell’Asia del Sud (il bacino del fiume
Indo), così come per le nazioni africane e per i paesi del bacino del
Nilo.
Oggi le questioni più rilevanti sono due:
a) da un lato, la garanzia dell’accesso
all’acqua di milioni di persone che per ragioni politiche, economiche ed
ecologiche non sono in grado di disporne;
b) dall’altro, la protezione del diritto
all’uso delle fonti idriche da parte di comunità politiche deboli,
povere od oppresse, che si vedono limitare o negare il loro diritto
all’acqua dai Paesi sviluppati o dalle corporation internazionali.
Queste due questioni portano i giuristi
a concepire il diritto all’acqua non come una specie di libertà negativa
(cioè l’uso indisturbato di un bene che la natura ha messo a
disposizione di tutti gli uomini), ma come un “diritto sociale”. Luigi
Ferrajoli stabilisce in proposito un’analogia tra il diritto all’acqua e
il diritto alla vita (L'acqua come bene comune e il diritto all'acqua
come diritto fondamentale, Relazione al Convegno internazionale sul
diritto all'acqua, Gorizia, 8 febbraio 2003). Quest’ultimo è stato
teorizzato alle origini della civiltà giuridica moderna come “diritto a
non essere ucciso” (cioè come semplice immunità o “libertà negativa”),
per includere poi anche il “diritto alla sussistenza”.
Se secondo il liberalismo classico la
sopravvivenza era un fenomeno naturale, affidato al rapporto dell’uomo
con la natura, al suo lavoro personale e alla sua libera iniziativa,
oggi la sopravvivere non è più un fatto naturale, ma un fatto sociale,
affidato alle possibilità di lavoro, di consumo e di sussistenza offerte
dall’integrazione sociale. Il diritto all’acqua come diritto alla
sopravvivenza è, quindi, un diritto alla solidarietà sociale (come il
diritto alla salute, all’istruzione, alla casa) che «richiede
l’intervento della collettività politica» (B. Al-Qaryouti, Le risorse
idriche nel diritto internazionale con particolare riferimento alla
Palestina, Firenze, 1999, p. 22).
Si tratta di un “nuovo” diritto sociale,
creato dalla crescente scarsità di acqua, dalla disuguaglianza con la
quale è distribuita o è accessibile, dalle contese provocate dalla
competizione per il suo accaparramento. Tuttavia, gli Stati sono ancora
restii ad inserire il diritto di accesso all’acqua tra i diritti sociali
costituzionalmente garantiti e azionabili in giudizio. Per ora soltanto
l’Uruguay, grazie alle pressioni del movimento Agua y Vida,
nell’ottobre del 2004 ha inserito il diritto all’acqua nella sua
Costituzione.
Oltre che come diritto sociale, il diritto
all’acqua deve essere inteso anche come un “diritto collettivo”.
Da questo punto di vista non ha senso
fissare degli standard quantitativi di consumo dell’acqua, validi per
tutti i paesi e tutte le comunità. Ogni comunità, oltre il limite minimo
coincidente con la stretta sopravvivenza, ha esigenze molto diverse.
Come scrive Shiva (Le guerre dell’acqua, Milano, 2002), presso
numerose comunità il diritto all’acqua è, come il diritto alla propria
lingua e ai propri costumi, un diritto all’identità del gruppo e non è
soltanto una condizione della sua sopravvivenza fisica. Se viene negato
il diritto alle proprie risorse e il controllo sui propri mezzi di
produzione viene lesa l’identità culturale di un gruppo.
Se invece il rapporto sociale con l’acqua è
rispettato e protetto nelle sue forme consolidate nel tempo, il diritto
all’acqua assume un’importante valenza simbolica che appartiene al
gruppo come tale e non semplicemente ai singoli membri del gruppo. Si
pensi al rapporto fra i corsi d’acqua e la qualità dell’ambiente e, più
in generale, fra l’umidità del terreno e i tipi di colture, di
abbigliamenti e di costumi alimentari, oppure ai miti identitari
collegati ai grandi fiumi, dal Nilo al Gange, al Rio de la Plata, al
Missisipi, al Tigri, all’Eufrate, al Giordano.
Di fronte alla situazione allarmante della
maggior parte dei paesi in via di sviluppo, dove le risorse idriche sono
minacciate da una gestione catastrofica e da un inquinamento dilagante,
si potrebbe pensare che questi Stati non conoscano una tutela giuridica
del bene naturale acqua e che le loro Costituzioni non conoscano norme a
tutela dell’ambiente. In realtà, se si analizzano le costituzioni dei
paesi in via di sviluppo di Asia, Africa ed America Latina ci si rende
conto che la tutela dell’ambiente è riconosciuto in esse attraverso
formule che non sono molto diverse da quelle delle costituzioni dei
paesi sviluppati.
Schematizzando, si tratta:
- o di formule imperniate sulla
correlazione diritto-dovere, del tipo “tutti hanno il diritto di godere
di un ambiente adeguato per lo sviluppo della persona e hanno il dovere
di rispettarlo”;
- o di formule che richiamano l’idea
dello “sviluppo sostenibile” e la salvaguardia dei diritti delle
“generazioni future” (ciò avviene nelle costituzioni più recenti,
successive alla conferenza di Rio del 1992).
Stefano Iunca |
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