Panorama delle ultime strategie degli stati per diminuire gli
stravolgimenti climatici: riflessioni sull’importanza di interventi
nel settore auTO
di
Stefano Chiari
PREMESSA
Il protocollo di Kyoto sui
cambiamenti climatici è un accordo internazionale che stabilisce
precisi obiettivi per i tagli delle emissioni di gas responsabili
dell’effetto serra, del riscaldamento del pianeta, da parte dei
paesi industrializzati. E’ l’unico accordo internazionale che
sancisce una limitazione delle emissioni ritenute responsabili
dell’effetto serra, dei cambiamenti climatici, del surriscaldamento
globale.
Punti chiave sono:
·
Per i paesi più
industrializzati l’obbligo è ridurre le emissioni di gas serra di
almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990, nel periodo di
adempimento che va dal 2008 al 2012;
·
Gli stessi paesi
devono predisporre progetti di protezione dei boschi, foreste,
terreni agricolo che assorbono anidride carbonica………………….;
·
I Paesi firmatari andranno incontro a sanzioni se mancheranno di
raggiungere gli obiettivi.[1]
L’Unione Europea si è impegnata a
ridurre le proprie emissioni di gas serra dell’8% entro il 2008-2012
rispetto ai livelli del 1990. Nel marzo del 2007 i governi europei
si sono impegnati a una riduzione dei gas serra del 20-30% entro il
2020.
1. SETTORE DEI TRASPORTI
1.1 SITUAZIONE EUROPEA
Il settore dei trasporti ha ottenuto
risultati peggiori nella riduzione delle emissioni di gas serra e
mette in forse la capacità europea di raggiungere gli obiettivi
degli accordi di Kyoto. Le emissioni di CO2 del settore dei
trasporti invece di diminuire dell’8% sono cresciute del 32% tra il
1990 e il 2005, mentre gli altri settori hanno ridotto le loro
emissioni di una media del 9.5%.
Neppure le case automobilistiche sembrano voler
rispettare l’obiettivo di 140g/km entro il 2008/9 che si erano
impegnate a raggiungere. Il tasso medio di riduzione delle emissioni
di CO2 delle autovetture è ancora ben lontano dalla percentuale
stabilita.[2]
La lentezza e la disomogeneità nelle
politiche di riduzione delle emissioni di CO2 praticate dalle
diverse case automobilistiche rende necessario l’intervento del
legislatore. La normativa europea avrà il compito di fornire il
quadro necessario per una svolta radicale nel settore dei trasporti.
Regolamentare il consumo delle
emissioni di CO2 delle auto nuove è la misura singola più efficace
per combattere l’effetto serra, la dipendenza dal petrolio e al
tempo stesso investire in tecnologie a basso impiego di carbonio.
La scadenza prevista per il
conseguimento dell’obiettivo di 120 g/km di emissione di CO2 è stata
già rimandata due volte, prima al 2010 e poi al 2012. Se l’Unione
Europea non vuole perdere la credibilità politica, questa scadenza
non deve essere più rinviata oltre.
Obiettivi di lungo termine al
2020 e al 2025 sono necessari per fornire all’industria quella
prospettiva di lungo periodo necessaria a progettare e mettere in
cantiere vetture più efficienti. E’ quindi necessario prevedere e
formalizzare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 al di
sotto degli 80 g/km entro il 2020 e a 60 g/km entro il 2025. Senza
questi obiettivi, l’Unione Europea non sarà in grado di rispettare
gli impegni assunti verso una generale riduzione delle emissioni di
C=2 del 30% entro il 2020 e del 60-80% entro il 2050.
[3]
Non ultimo, se si vuole che una
legge sulla riduzione delle emissioni di CO2 funzioni davvero, sarà
necessario prevedere penalità per itrasgressori sufficientemente
severe da essere dissuasive e incoraggiarli a raggiungere
l’obiettivo preposto, piuttosto che adattarsi a pagare qualche
penale.
1.2 SITUAZIONE ITALIANA
Se da un lato la gravità
dell’emergenza climatica e una crescente consapevolezza del problema
da parte delle istituzioni europee impone politiche di riduzione
delle emissioni di CO2, l’attuale Presidente del Consiglio sembra
essere rimasto il solo leader europeo a non aver capito che quello
ambientale è un problema molto serio. Ciò si desume da alcuni
segnali lanciati dal premier, non ultimo il fatto che, ponendosi in
netto contrasto con il Presidente francese Sarkozy, abbia deciso di
mettere il veto al pacchetto UE sul clima concernente la riduzione
dei gas serra entro il 2020 che chiede all’Italia di tagliare le
emissioni di CO2 non inclusi nel sistema di scambio emissioni
(rifiuti, trasporti, edilizia) del 13% rispetto ai livelli del 2005.
Veto che secondo il Premier sarebbe indispensabile dal momento che
le misure da adottare risulterebbero troppo onerose per l’economia
italiana, soprattutto alla luce della recente crisi finanziaria.
Tale posizione irresponsabile può
compromettere le misure per prevenire la catastrofe climatica data
per certa ormai da tutti gli scienziati.
Comunque, anche se il Premier non
riuscisse a spuntarla, ben poco cambierebbe in Italia. Basti pensare
che anche prima della crisi finanziaria, non è mai stato fatto
alcuno sforzo per diminuire le emissioni di CO2; e nonostante
l’impegno del nostro Paese preso nell’ambito del protocollo di Kyoto
a ridurre le proprie emissioni di gas serra del 6.5% entro il 2012
abbiamo continuato a marciare in direzione diametralmente opposta a
quanto convenuto.
2. SETTORE AUTO
Dopo il settore della produzione di
energia, il settore dei trasporti è la seconda fonte di produzione
di gas serra in Europa, con il 22% delle emissioni di CO2. Di questa
quota più della metà è dovuta al trasporto automobilistico, uno dei
pochi settori in cui le emissioni sono in aumento, vanificando gran
parte dei successi raggiunti in altri settori.
Nel 2005 in Italia il trasporto su
strada è stato responsabile di un terzo (20.9%) delle emissioni
nazionali di gas serra e il 60% di queste deriva dalle autovetture
private. Nel nostro paese il numero di autoveicoli in circolazione è
aumentato di cinque volte tra il 1951 e il 1961, ed è più che
triplicato nel decennio successivo. Negli ultimi anni, la crescita
annua del parco auto varia tra il 2.4% e il 3.7%.
In Italia circolano circa 35.300.000 autoveicoli, una
media di 58 vetture ogni 100 abitanti; oltre due terzi del traffico
merci terrestre avviene su gomma. Il nostro paese è il secondo in
Europa per numero di autovetture per abitante (dopo il Lussemburgo).
[4]
3. LA ROTTAMAZIONE: INTERVENTO
PALLIATIVO O RISOLUTIVO?
Sul fatto che intervenire in questo momento è
necessario ormai è assodato. Alcuni studiosi di settore sono
convinti che la rottamazione, intesa come un mero programma di
incentivi al rinnovo del parco circolante, rappresenta solo un
palliativo contro gli effetti dolorosi della crisi in atto. Questo
perché i benefici sull’economia saranno di breve termine mentre le
conseguenze sull’ambiente sono piuttosto incerte, come dimostrano
alcuni studi effettuati in Europa e negli Stati Uniti.
[5]
Per curare la crisi che stiamo vivendo servono
interventi strutturali che riguardino l’intero sistema produttivo
del Paese (mercato del lavoro, fiscalità, investimenti e ricerca).
Non è un caso che Barack Obama negli Stati Uniti abbia
subordinato allo sviluppo di nuove tecnologie pulite da parte dei
produttori gli interventi a sostegno dell’auto. Come dire: il
governo va in aiuto del sistema imprenditoriale che in cambio, però,
deve garantire investimenti in ricerca che possano tradursi in
maggiore produttività e nuovi posti di lavoro. Sono passati dodici
anni dal primo provvedimento di rottamazione varato in Italia dal
governo Prodi nel 1997, l’anno in cui veniva siglato a livello
internazionale il famoso protocollo di Kyoto per ridurre le
emissioni globali di gas serra, in particolare l’anidride carbonica.
Negli anni successivi sono stati più volte introdotti incentivi di
questo tipo. Prima di noi, molti altri paesi hanno varato politiche
di incentivazione alla rottamazione delle autovetture, preoccupati
per i danni causati dall’inquinamento. Gli Stati Uniti hanno fatto
da pionieri: già a partire dal 1990 una piccola impresa americana,
la Unocal, iniziò a concedere degli sconti particolari ai
consumatori che le consegnavano un autoveicolo più vecchio di 15
anni comprandone uno più recente in sostituzione.
[6]
L’interesse per questo tipo
di strumento di politica economica e ambientale non tardò ad
arrivare anche in Europa. Diversamente da quanto fatto negli Usa,
dove la rottamazione fu introdotta con relativa prudenza in molti
Stati, preceduta da studi di valutazione ex ante sui risultati
conseguibili e dapprima sperimentata con progetti pilota, nei Paesi
europei questo strumento fu applicato con grandissima rapidità e su
vasta scala.
Non c’è dubbio che la rottamazione aumenti le vendite mentre sono in
corso gli incentivi. Alcuni soggetti reagiscono anticipando i loro
acquisti per sfruttare i benefici del provvedimento. Ma l’effetto
anticipazione abbassa le vendite di auto nel periodo successivo. La
crescita di breve periodo della vendita di nuove vetture incrementa
i profitti dell’industria dell’auto. Questo aumento potenziale,
però, è ridotto da alcuni elementi: la generale diminuzione dei
prezzi durante il periodo degli incentivi (dovuta alla concorrenza
tra le case automobilistiche); lo slittamento degli acquisti verso
modelli più piccoli su cui sia l’industria dell’auto sia i
concessionari hanno margini di profitto minori; e infine l’effetto
anticipazione che fa diminuire i profitti nel medio termine (parte
dell’incremento dei profitti è da intendersi non come un incremento
reale ma come uno spostamento temporale). Anche in Italia, dopo la
rottamazione del ’97, si è verificato l’effetto anticipazione,
moderato però dal fatto che negli anni precedenti all’introduzione
degli incentivi si era accumulata una domanda potenziale molto
elevata causata dalla bassa propensione agli acquisti indotta da una
crescente fiscalità e da una situazione economica generale poco
favorevole.
[7]
Sui risultati ottenuti dalla
rottamazione non c’è unanimità di consensi. Certamente questi
provvedimenti, nei paesi che li hanno adottati, hanno conseguito una
riduzione delle emissioni dei principali macroinquinanti (monossido
di carbonio, ossidi di azoto, idrocarburi, particolato), portando
benefici all’ambiente e ancor più alla salute dei cittadini, in
particolare per quanto riguarda gli abitanti dei centri urbani. Ma
ci sono aspetti più controversi da sottolineare. La rottamazione,
come precedentemente riportato, non fa che anticipare delle
decisioni che i consumatori prenderebbero comunque, sia pure con
qualche anno di distanza. Il vantaggio dato in termini ambientali ha
dunque una durata limitata al breve periodo e tende a svanire nel
medio-lungo termine, quando le stesse riduzioni di emissioni
inquinanti sarebbero comunque conseguite dal naturale ricambio del
parco macchine e senza nessun esborso per le casse dello Stato.
[8]
Inoltre, se si analizzano i
dati sul numero di chilometri annuali mediamente percorsi da
un’autovettura durante il suo ciclo di vita, si nota che i veicoli
più vecchi sono utilizzati molto meno di quelli che hanno pochi anni
di vita. La minore affidabilità e il minor comfort dei modelli più
datati, infatti, fa sì che essi siano in genere lasciati a un uso
marginale, per spostamenti di più breve distanza. Incentivare la
loro sostituzione con veicoli nuovi e maggiormente affidabili
significa incentivare il trasporto su strada: dunque si hanno
veicoli che emettono meno inquinanti per chilometro percorso, ma
d’altra parte aumentano i chilometri complessivamente percorsi dal
parco macchine di un Paese, riducendo in tal modo i possibili
vantaggi ambientali.
La rottamazione del 1997, secondo alcuni calcoli effettuati
dall’Enea, ha provocato in Italia una riduzione di molte sostanze
inquinanti. Per quanto riguarda l’anidride carbonica (principale
responsabile dell’effetto serra) si è verificato invece un vero e
proprio fallimento provocato dalla combinazione degli elementi sopra
descritti, ma anche da altri fattori più specifici: innanzitutto le
auto con marmitta catalitica hanno consumi energetici (e quindi
emissioni di anidride carbonica) superiori alle auto non
catalizzate. E poi non va dimenticato che si producono emissioni
inquinanti non trascurabili anche nelle fasi di costruzione delle
vetture e in quelle di demolizione e smaltimento (e/o riciclaggio)
dei rifiuti da esse provenienti: accorciare la vita media delle auto
(come è negli scopi di questi incentivi) potrebbe anche andare in
senso opposto a ciò che viene richiesto da uno sviluppo sostenibile.
Nonostante, dunque, gli incentivi alla rottamazione siano sempre
stati presentati entusiasticamente pressoché ovunque, come strumento
per ridurre l’impatto ambientale del trasporto su gomma, molti sono
ancora i dubbi sulla loro reale efficacia.
[9]
4. NUOVE STRATEGIE CLIMATICHE
Il 22 settembre del corrente anno, il segretario ONU
Ban Ki Moon, ha aperto il pre-vertice sul clima al Palazzo di vetro,
in vista del mega vertice che si terrà a dicembre a Copenaghen dove
i leader mondiali dovrebbero raggiungere, dopo quello di Kyoto, un
nuovo accordo per arginare il surriscaldamento del pianeta. Ha
rimproverato la comunità internazionale sulla sua lentezza
“glaciale”….. Obama, che tra i quattro pilastri fondamentali del
futuro delle nazioni mette la conservazione del pianeta, tuona: “o
si fanno politiche vere o sarà la catastrofe per il pianeta; una
minaccia grave, urgente e crescente: il tempo per correre ai ripari
sta per scadere. Se non agiamo al più presto rischiamo di consegnare
alle generazioni future una catastrofe irreversibile…. Come Stati
Uniti stiamo procedendo ad investimenti per trasformare la nostra
politica energetica e investire con enfasi sull’energia pulita e
rinnovabile..” Il tono è cambiato dai tempi in cui l’amministrazione
Bush negava perfino la realtà del surriscaldamento da CO2 e la Cina
scaricava ogni colpa sui paesi più ricchi. Sembra che i due giganti
che insieme generano il 40% di tutte le emissioni carboniche della
terra ora parlino un linguaggio più simile.
[10]
Il Presidente ha poi sottolineato la necessità di
arrivare ad un accordo flessibile e pragmatico sulle riduzioni dei
gas serra, con l’obiettivo di creare un mondo più sicuro e più
pulito. Il pianeta è al collasso; dall’era pre-industriale ad oggi
l’incremento di CO2 sfiora il 35%. Per gli esperti la temperatura
salirà di almeno tre gradi nei prossimi anni, nei paesi del terzo
mondo corre la desertificazione, sull’artico i ghiacci si sciolgono
con una velocità terrificante ed entro il 2030 potrebbero sparire
del tutto facendo salire alla fine del secolo il livello dei mari di
due metri. E’ uno scenario apocalittico quello descritto nel palazzo
di vetro; ad ascoltarlo i rappresentanti di tutti i paesi del mondo.
Anche Cina ed India, paesi emergenti e forti inquinatori, sono stati
chiamati in causa a fare la loro parte. Il premier progressista
Yukio Hatoyama ha detto che entro il 2020 Tokyo taglierà le
emissioni del 25% praticamente il triplo di quanto promesso dal
precedente governo.
[11]
Ma saranno vere tutte queste
promesse?
VERTICE FAO – ROMA – NOVEMBRE 2009:
FALLIMENTO E DELUSIONE; sicurezza alimentare e
ambientale che non trovano la strada del cambiamento. Nonostante gli
aggiornamenti scientifici sui cambiamenti climatici ci dicono che
ogni giorno che passa la situazione si fa più critica, salta
l'accordo sul clima e sulla riduzione delle emissioni di gas serra.
Il non possumus dei due leader dei paesi che da soli producono il
40% di emissioni nell'atmosfera (Stati Uniti e Cina) a proposito
dell'accordo sul clima migliorativo delle obsolete prescrizioni del
trattato di Kyoto, ha colto tutti di sorpresa e ha lasciato tutti
delusi. Il rischio di un sogno di salvezza dall'inquinamento globale
che si sta infrangendo. Il nuovo trattato che si doveva (dovrebbe?)
avrebbe dovuto fissare:
-
una serie di impegni
ambiziosi di riduzione delle
emissioni da parte dei
paesi sviluppati
dell’ordine del 25-40 per cento rispetto al 1990 (anno
base per gli accordi di Kyoto) entro il 2020;
-
-
un’azione adeguata da parte dei
paesi in via
di sviluppo per
ridurre la crescita delle loro emissioni, a circa il
15-30 per cento in meno rispetto ai livelli normali al 2020;
-
un
accordo finanziario per aiutare i
paesi in via di sviluppo a mitigare le emissioni e ad
adattarsi ai cambiamenti climatici, dell’ordine di 100 miliardi di
euro l’anno entro il 2020.[12]
Ma la Commissione Europea tiene duro e fa sapere che
nonostante il “NO” sino-americano “è fondamentale continuare i
negoziati fino all'ultimo momento perché a Copenaghen si trovi
un'intesa alta, globale e operativa”. Non si danno per vinte neppure
le organizzazioni di difesa per l'ambiente Greenpeace, Wwf e
Legambiente che, criticando i due presidenti, fanno sentire la loro
voce scendendo in campo congiuntamente appellandosi ai governi di
tutto il mondo perché “si impegnino a sottoscrivere a Copenaghen un
accordo vincolante per tagliare le emissioni di gas serra”.[13]
MA ECCO IL COLPO DI SCENA!!!
Giovedì 26 novembre 2009:
a poco più di 10 giorni dal vertice di Copenaghen, titolano i
giornali: “Svolta di Obama: tagli ai gas serra entro il 2020. Il
presidente USA si recherà al vertice in Danimarca con una proposta
che permetterebbe di riscrivere un nuovo accordo di Kyoto”. Obama
sembra essere tornato a voler cercare una soluzione per la lotta ai
gas serra e finalmente arrivano i numeri: un taglio dei gas nocivi
del 17% entro il 2020 e del 42% entro il 2030 rispetto alle
emissioni del 2005.[14]
La notizia, oltre ad una svolta
nella politica ambientalista USA, rappresenta un sostanziale passo
avanti nei confronti degli ultimi impegni presi da Obama nel corso
del suo recente viaggio in Oriente. I tagli alle emissioni
annunciati aprono secondo gli analisti la strada al raggiungimento
di un nuovo accordo internazionale che sostituisca il protocollo di
Kyoto.
Venerdì 27 novembre 2009:
all'indomani dell'annuncio USA, titola La Repubblica: “La Cina
rilancia - pronti a tagliare i nostri gas serra. E Wen Jiabao andrà
a Copenaghen”.... “Nella difficile partita sul clima anche la Cina
ha fatto la sua mossa. Pechino ha comunicato l'obiettivo vincolante
di tagliare il biossido di carbonio tra il 40 e il 45% entro lo
stesso anno. Il freno va inteso rispetto ai livelli del 2005 e
riguarda “l'intensità carbonica” e non il valore assoluto”.
L'intensità carbonica è un'unità di misura inventata da Pechino tesa
ad agganciare il taglio dei gas serra alla crescita economica, che
vuol dire non sacrificare lo sviluppo per tagliare le emissioni di
CO2.[15]
Il valore di quest'ultimo annuncio è
grande, perché costringe le altre potenze inquinanti a scoprire le
carte.
E' proprio vero che la speranza è l'ultima a morire:
se una settimana fa quello di Copenaghen sembrava un vertice fallito
ancora prima di iniziare, ora, dopo che Washington e Pechino hanno
fornito cifre, il quadro cambia. La Cina lega però le sue misure
alla reale applicazione di quelle di tutti i 190 Paesi invitati alla
Conferenza. Il governo ha precisato che centrerà l'obiettivo
ricorrendo a misure finanziarie e fiscali; stanzierà una parte del
bilancio per sviluppare energia eolica, solare e atomica, aumenterà
la superficie delle foreste di 40 milioni di ettari e riconoscerà
sgravi per le industrie pulite.[16]
Riusciranno questi annunci a far
risvegliare la “coscienza ambientalista e pulita” del nostro
presidente del Consiglio che sembra ormai sopita?
Lunedì 7 dicembre 2009:
Oggi a Copenaghen è il giorno del via ufficiale allo storico vertice
sul clima: si apre la 15/a Conferenza ONU sui cambiamenti climatici.
A scaldare la vigilia, le parole di
esortazione del Papa sulla necessità di “uno sviluppo solidale”
soprattutto a favore delle future generazioni e quelle del
Segretario Generale dell'ONU che si è detto ottimista sugli esiti
del vertice e sulla possibilità di un accordo sottoscritto da tutti
gli stati membri.
Tra i principali problemi sul tappeto, il nodo del
valore vincolante degli accordi, che incontra la resistenza di
alcuni grandi paesi come Cina, Brasile e India. Ma c'è anche il
problema delle risorse: serviranno una decina di miliardi di dollari
ogni anno per i prossimi tre anni per rispondere ai bisogni dei
paesi più vulnerabili.[17]
Venerdì 11 dicembre 2009:
dopo quasi una settimana
ancora nulla di concreto dal Summit per il clima. Paesi
industrializzati e in via di sviluppo non trovano punti di incontro.
Aspettando l’arrivo dei capi di stato…
Siamo ormai al quinto giorno della
conferenza ONU sui cambiamenti climatici, ma sembra proprio che non
si riesca a trovare un accordo vincolante. Come preventivato il
problema resta soprattutto
per i Paesi poveri: il finanziamento di sei miliardi
che dovrebbero essere destinati per contrastare i cambiamenti
climatici e continuare a progredire è ovviamente l’argomento
principale. Paesi come
Francia, Germania e la stessa Italia, hanno portato avanti diverse
perplessità ostacolando la riuscita di un patto economico,
pur ribadendo la
disponibilità di diminuire le emissioni di gas serra entro il 2020,
passando dal 20% al 30% in meno. Sarkozy
ha invitato tutti gli stati dell’Ue a cooperare il prima possibile
per il raggiungimento di tali risultati.
Ma gli altri Paesi industrializzati concorderanno su
questo programma? La Gran Bretagna non sembra opporsi, diffondendo
un documento firmato da ben 1700 scienziati per
dimostrare come il riscaldamento
globale sia senza dubbio opera dell’uomo a causa
delle eccessive emissioni di CO2 rilasciate in atmosfera.[18]
Dagli Stati
Uniti ci si aspettava decisamente di più.
L’impegno sulla riduzione si aggira intorno al 17% entro il 2020,
rispetto ai livelli del 2005.
Il portavoce
della Casa Bianca, ha definito il presidente Barack Obama “convinto
che sia possibile raggiungere un accordo significativo a Copenaghen,
incoraggiato dai progressi realizzati nelle recenti discussioni con
i leader di Cina e India”.
La piazza
intanto non rimane zitta: Greenpeace invade le strade di Oslo con
striscioni e poster verso Obama con scritto: “Il Nobel per la pace
l'hai vinto, ora meritatelo”; a Roma ha scalato il Colosseo
chiedendo che al Summit di Copenhagen sia raggiunto un accordo
storico e legalmente vincolante....
I Paesi in via
di sviluppo, Cina, India, Brasile, Sudafrica e Sudan rendono le cose
ancora più difficili rifiutando qualsiasi imposizione da parte dei
Paesi industrializzati e dichiarando la loro volontà di attenersi al
protocollo di Kyoto, anche dopo il 2012. Non ci resta che
aspettare venerdì 18 dicembre,
giorno in cui arriveranno i capi di stato, tra cui Barack Obama e,
si spera, qualcun altro.
Si avvicina la conclusione del vertice e il
Pontefice, nel messaggio per la giornata mondiale della Pace alza i
toni usando un linguaggio non proprio diplomatico: “In un mondo che
rischia davvero di autodistruggersi, ogni abuso ambientale può
essere paragonato ad un atto di terrorismo. Quel che è più
preoccupante, però, è che mentre sono in agguato prospettive
agghiaccianti, regna una ^irresponsabile indifferenza, mancano
politiche lungimiranti e si perseguono miopi interessi^”.[19]
Domenica 20 dicembre 2009:
La Repubblica titola: “Intesa minima sul riscaldamento dopo un
giorno di veti incrociati: ci sono i soldi per i paesi poveri ma
manca il taglio ai gas serra”.
Quindi niente cifre sui tagli dei
gas serra, niente impegni vincolanti, solo un obiettivo teorico:
mantenere la temperatura della terra entro i 2 gradi alla fine del
secolo.
I punti principali della nuova Bozza
dell'Accordo di Copenaghen possono essere così riassunti:
l
Due gradi è il tetto
fissato per l'aumento massimo del riscaldamento globale consentito
rispetto all'epoca preindustriale;
l
Sono stanziati ai
paesi meno industrializzati per il trasferimento delle tecnologie
pulite 30 miliardi di dollari dal 2010 al 2012 e 100 miliardi
all'anno entro il 2020;
l
Nell'accordo è
scomparsa la riduzione dei gas serra del 50% entro il 2050. Non ci
sono tetti vincolanti;
l
I Paesi intendono
mettere per iscritto gli impegni di riduzione dei gas per il periodo
2015-2020 entro l'1 febbraio 2010.
Una bozza finale al ribasso, resta
alto l'allarme per le emissioni.
Dove è stata la difficoltà della
riduzione dei gas serra? Le emissioni di CO2 dovrebbero diminuire
(per arrivare all'obiettivo dei 2 gradi) del 50% entro il 2050. Per
arrivarci, i Paesi industrializzati taglierebbero le emissioni
dell'80%. Ma non basta: anche i paesi emergenti dovrebbero tagliare
le loro e non solo rallentarle. Per questo Cina e Brasile non
vogliono un impegno globale del 50%, che vincolandoli, sia pure a
lunga scadenza, a ridurre le emissioni, può compromettere la loro
crescita economica. Per accettare il 50%, i Paesi emergenti vogliono
che quelli ricchi fissino un obiettivo di riduzione ambizioso già
per il 2020. Il risultato è che per il momento, neanche questo
obiettivo di riduzione del 50% è fissato sulla carta.
Perché l'obiettivo al 2050 sia credibile, i Paesi
industrializzati dovrebbero tagliare già nel 2020 le loro emissioni,
secondo gli scienziati, del 25-40%. Gli impegni presi finora
arrivano solo al 14-18%: secondo un recente rapporto degli
scienziati che lavorano con l'ONU, una riduzione così modesta
spingerebbe le temperature ad un aumento di 3 gradi.[20]