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La tutela e la gestione delle acque
di
Stefano Iunca
(Ott. 2011)
Nel diritto internazionale non vi è né
una formulazione normativa del diritto soggettivo all’acqua né
un’esplicita qualificazione dell’acqua dolce come possibile oggetto di
un diritto collettivo. Una prassi consuetudinaria si è formata sulla
base di una antica tradizione che risale al diritto romano con sviluppi
originali nel corso dell’età medioevale e moderna.
Nel diritto romano i corsi d’acqua
caratterizzati dalla navigabilità e dalla perennità appartenevano al
dominio pubblico del popolo romano. L’alto medioevo ricomprende nel
concetto dei diritti l’uso dei fiumi navigabili, a volte, limitati da
alcune facoltà compatibili. Col tempo ha preso piede la consuetudine del
trasferimento delle regalie sulle acque (nel 1183, con la pace di
Costanza, i Comuni italiani ottennero il riconoscimento, fra l’altro,
dei diritti sulle acque in quanto bene pubblico) (G. Manaresi,
L’acqua risorsa mondiale, Milano, 2003).
La legislazione dei secoli XVI-XVIII
collocavano le acque nella demanialità dello stato. In alcuni casi (in
Piemonte, a Milano nel ducato e con la dominazione Spagnola nella
repubblica veneta) la demanialità era pressochè totale. Nello stesso
senso va il Codice Albertino del 1848, mentre nei Codici napoleonico ed
austriaco la discriminante fra pubblico e privato è individuata nella
navigabilità. Una prima disciplina giuridica unitaria delle acque
pubbliche e private si è avuta nel 1865 con le disposizioni del codice
civile che affermavano il principio della demanialità di tutti i fiumi e
terreni e regolavano l’uso delle acque.
A livello internazionale, esistono numerosi
trattati e convenzioni che regolamentano l’uso dei corsi d’acqua tra
Paesi rivieraschi. La Fao ha recensito più di 3.600 trattati, firmati
tra l’804 e il 1984, aventi lo scopo di regolamentare la questione
dell’utilizzo dei corsi d’acqua. Nessuna di queste convenzioni contiene,
peraltro, una norma che affermi in modo esplicito il diritto all’acqua.
Solo negli anni 50’ e 60’, di fronte al
degrado ambientale, al crescente inquinamento e ai sempre più frequenti
disastri ecologici, conseguenze di una massiccia e incontrollata
industrializzazione, ha cominciato a maturare la consapevolezza che
qualcosa doveva cambiare nel rapporto uomo-ambiente. Si è avvertita, in
modo particolare, l’esigenza di definire (a tutti livelli, da quello
mondiale a quello statale) una politica ambientale e di una
regolamentazione giuridica ispirata ad essa. Per anni l’acqua, nelle
dichiarazioni e nelle conferenze internazionali sul tema, in quanto
elemento fondamentale della vita, è stata considerata solo una risorsa
comune ed inalienabile e un diritto umano fondamentale. Nella Carta
Europea dell’Acqua, promulgata a Strasburgo il 6 maggio del 1968 dal
Consiglio d’Europa si legge infatti che «l’acqua è un patrimonio comune
il cui valore deve essere riconosciuto da tutti».
La prima iniziativa internazionale che ha
portato l’attenzione sul diritto all’acqua è stata la Conferenza delle
Nazioni Unite sull’acqua, che si è tenuta a Mar de la Plata, in
Argentina, nel 1977. Nella dichiarazione finale si sosteneva che «tutti
hanno diritto di accedere all’acqua potabile in quantità e qualità
corrispondenti ai propri bisogni fondamentali». Successivamente, nel
settembre del 1990, le Nazioni Unite hanno promosso a Nuova Delhi la
Conferenza finale del Decennio internazionale dell’acqua potabile (G.
Manaresi, L’acqua risorsa mondiale, Milano, 2003).
A partire dal 1992 nelle dichiarazioni
conclusive delle grandi conferenze internazionali si è assistito ad una
inversione di tendenza. L’acqua da diritto fondamentale viene declassata
a mero “bisogno vitale”. Non si tratta di una semplice differenza
terminologica. Il diritto all’acqua, infatti, comporta per lo Stato e le
sue istituzioni l’obbligo di creare le condizioni necessarie (anche dal
punto di vista finanziario e gestionale) affinché tutti i membri della
comunità abbiano accesso alla risorsa nella quantità e nella qualità
sufficiente alla vita. Nel caso del bisogno, invece, l’accesso all’acqua
nasce sulle responsabilità e sull’iniziativa di ciascun individuo la cui
capacità di soddisfare il bisogno sarà funzionale alle sua capacità
d’acquisto.
In linea con questo declassamento, si è
sostenuto che per assicurare una gestione “efficace” dell’acqua in tutto
il mondo, questa deve essere considerata principalmente, come un “bene
economico” (e non solo come un “bene sociale”), il cui valore deve
essere determinato sulla base del “giusto prezzo”, fissato del mercato
nell’ambito della libera concorrenza internazionale, secondo il
principio del recupero del costo totale.
Il primo segnale di questa nuova tendenza lo
si è percepito durante la Conferenza ONU, dal titolo “L’acqua nella
prospettiva di uno sviluppo sostenibile”, tenutasi a Dublino nel 1992.
Nell’atto conclusivo di questo incontro (la c.d Dichiarazione di
Dublino) si stabiliva espressamente che «l’acqua ha un valore economico
in tutti i suoi utilizzi e dovrà essere riconosciuta come bene
economico.… nel passato, il mancato riconoscimento del valore economico
dell’acqua ha comportato sprechi e utilizzi che hanno danneggiato
l’ambiente. Gestire l’acqua come un bene economico, rappresenta una via
al raggiungimento di un suo uso equo e redditizio e all’incoraggiamento
della conservazione e protezione delle risorse idriche».
Questa impostazione è stata poi confermata
nelle conferenze internazionali che sono seguite. La Conferenza delle
Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo, riunita a Rio de Janeiro dal
3 al 14 giugno 1992, si è chiusa con un documento finale, chiamato
Agenda 21, che al capitolo 18, dedicato alla protezione e gestione delle
risorse idriche, se da un lato afferma che «tutti gli uomini, qualunque
sia il loro livello di sviluppo e le loro condizioni economiche e
sociali hanno diritto ad avere accesso all’acqua potabile in quantità e
qualità pari ai loro bisogni fondamentali» dall’altro, contraddicendosi,
dice che «in conseguenza del riconoscimento dell’acqua come un bene
sociale ed economico, le diverse opzioni per le tariffe da applicare ai
diversi utenti devono essere valutate e testate sul campo».
Il Primo Forum Mondiale sull’Acqua
tenutosi in Marocco, a Marrakech, nel 1997 ha parlato di “gestione
integrata delle risorse idriche”, mentre la Conferenza internazionale
organizzata dal Governo francese, intitolata “Acqua e sviluppo
durevole”, tenutasi a Parigi dal 19 al 21 marzo 1998, ha prodotto un
documento finale, la Dichiarazione di Parigi, in cui si ribadisce
sia il principio della privatizzazione quale strumento per impedire gli
sprechi e garantire una efficiente gestione, sia il principio del “chi
utilizza paga” (R. Petrella, Il manifesto dell'acqua, Torino,
2001).
Questo processo di mercificazione e
declassamento dell’acqua, iniziato dieci anni fa circa, ha conosciuto la
sua definitiva legittimazione a livello internazionale nel 2000, anno in
cui, all’Aja, dal 17 al 22 marzo si è tenuto il Secondo Forum
Mondiale sull’Acqua, organizzato dal World Water Council, cui hanno
partecipato 158 delegazioni in rappresentanza di 130 paesi, 114 ministri
e molti responsabili di organizzazioni internazionali. Nella
Dichiarazione Ministeriale conclusiva vengono ribaditi i concetti emersi
negli ultimi anni:
- l’acqua non è un diritto ma un bisogno
fondamentale: «riconoscere l’accesso ad acqua sana e sufficiente e ai
servizi igienico-sanitari come bisogni umani fondamentali essenziali per
la salute e il benessere».
- l’acqua è un bene economico, cui deve
corrispondere una tariffa per la sua utilizzazione: «Per raggiungere la
sicurezza idrica, Noi lanciamo le seguenti sfide:…dare un valore
all’acqua: gestire l’acqua in modo tale da rifletterne il valore
economico, sociale, ambientale e culturale presente nei suoi vari
utilizzi e indirizzarsi verso una tariffazione dei servizi idrici che
rifletta il costo della sua fornitura».
- l’acqua deve essere privatizzata:
«amministrare saggiamente l’acqua: assicurare un buon governo delle
risorse idriche, coinvolgendo nella loro gestione sia l’interesse
pubblico che quello degli investitori di capitali».
Parallelamente, si è avuta un’intensa
attività di sensibilizzazione da parte di movimenti ed associazioni di
ispirazione ambientalista e sociale. Nel 1998 il Gruppo di Lisbona e la
fondazione Mario Soares hanno promosso il “Manifesto dell’acqua”. Le sue
idee-chiave sono quattro: l’acqua è fonte insostituibile di vita e un
“bene vitale” che appartiene a tutti gli abitanti della terra in comune;
l’acqua è un patrimonio dell’umanità e per questo è una risorsa che,
diversamente da ogni altra, non può essere oggetto di proprietà privata;
la società umana come tale, ai diversi livelli della sua organizzazione,
deve garantire anche in termini economici il diritto all’accesso
all’acqua a tutti senza alcuna discriminazione; la gestione dell’acqua
richiede istituzioni democratiche, di democrazia partecipativa e
rappresentativa R. Petrella, Il manifesto dell'acqua, Torino,
2001).
Nella scia di questo documento sono state
avanzate molte altre proposte, soprattutto da parte di movimenti
transnazionali di carattere sociale o ecologico, come Attac, i fautori
del “Contratto mondiale dell’acqua”, i Forum Sociali Mondiali di Porto
Alegre e i Forum alternativi mondiali dell’acqua di Firenze del 2003, di
Ginevra del 2005 e di Copemhagen nel 2008. Tutte queste iniziative si
battono per l’idea dell’acqua come “bene comune universale”, che come
tale non può diventare oggetto di un diritto patrimoniale da parte di
soggetti privati e tanto meno mercificato. Si sostiene che, essendo un
“dono della natura” e non un prodotto dell’invenzione umana, l’acqua può
essere oggetto soltanto di un “diritto naturale” del quale sono titolari
tutti i membri dell’umanità. Per la tutela di questo “diritto naturale”
si propone l’istituzione di organismi di carattere internazionale come
il World Water Parliament, l’istituzione di un Fondo
Internazionale per l’acqua e di Corti internazionali ad hoc.
Vi è stato anche il tentativo di precisare
questo “diritto naturale” dal punto di vista normativo, nel senso che lo
si è inteso come possibile oggetto di un “servizio pubblico” entro le
varie comunità umane. Questo servizio pubblico dovrebbe garantire a
tutti i cittadini il consumo gratuito dell’acqua sino ad una certa
quantità (ad esempio 40 litri giornalieri per persona, come “minimo
vitale”), il consumo di una quantità superiore a costi crescenti sino ad
una certa quota (ad esempio sino a 130 litri giornalieri per persona,
come “uso necessario”) e una forte penalizzazione economica per i
consumi più elevati, in modo da disincentivare gli sprechi.
Stefano Iunca |
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